EDILIZIA - 010 - CONTRIBUTO DI COSTRUZIONE
Esenzione ex articolo 17, comma 3, lettera b), d.P.R. n. 380 del 2001 – Edifici unifamiliari – Ristrutturazione – Ampliamento fino al 20 per cento – Concorso delle ipotesi – Ammissibilità
Esenzione ex articolo 17, comma 3, lettera b), d.P.R. n. 380 del 2001 – Edifici unifamiliari –Ampliamento fino al 20 per cento – Reiterazione – Criteri – Norme locali difformi – Illegittimità

QUESITO

Ogni volta che si presenta una domanda di permesso di costruire per la ristrutturazione di un edificio unifamiliare, sorgono polemiche sulla determinazione del contributo di costruzione, in relazione all’applicazione dell’articolo 17, comma 3, lettera b), d.P.R. n. 380 del 2001, che prevede la gratuità a determinate condizioni.

Un’interpretazione ritiene che tutte le ristrutturazioni, anche integrali, di un edificio unifamiliare, siano esentate dal contributo, mentre gli ampliamenti siano esentati solo nella misura contenuta all’interno del 20 per cento rispetto all’edificio preesistente; una seconda interpretazione (assecondata dall’amministrazione al solo scopo di incrementare gli introiti) sostiene che, per avere il diritto all’esenzione, anche la ristrutturazione dev’essere contenuta all’interno del limite percentuale citato.

Vorrei sapere qual'è la corretta interpretazione della disposizione in parola, anche in relazione all’eventuale possibilità di ripetere l’intervento di ampliamento, nel limite di legge, sul medesimo edificio unifamiliare.

Inoltre nelle norme tecniche del P.R.G. è stabilito che "Sono gratuiti ai sensi dell’articolo 17, comma 3, lettera b), d.P.R. n. 380 del 2001, gli ampliamenti di edifici unifamiliari aventi un volume non superiore a 750 mc"; vorrei sapere se il limite di 750 mc dev’essere riferito all’edificio prima o dopo l'ampliamento.

RISPOSTA

La lettera della norma citata solo in apparenza si presta alla duplice interpretazione lamentata: "d) per gli interventi di restauro, di risanamento conservativo, di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20 per cento, di edifici unifamiliari". Sgombriamo il campo dal restauro e dal risanamento conservativo, ormai sottratti all’onerosità per tutta l’edilizia residenziale anche non unifamiliare (prima dall'articolo 7, primo comma, legge n. 94 del 1982 e poi dalla legislazione sulla denuncia di inizio attività).

La ristrutturazione, di norma onerosa, è gratuita limitatamente agli edifici unifamiliari. L’ampliamento, pure di norma oneroso, è gratuito limitatamente agli edifici unifamiliari e con l’ulteriore limite della sua entità, che dev’essere contenuta all’interno del 20 per cento delle dimensioni dell’edificio esistente (dimensioni calcolate in funzione delle norme locali, quindi, in genere, in termini di volume urbanisticamente rilevante). La questione deve ritenersi già risolta storicamente. La Corte costituzionale, dichiarando manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 9, lettera d), della legge n. 10 del 1977 (ora articolo 17, comma 3, lettera b), d.P.R. n. 380 del 2001), in relazione all’equiparazione tra ristrutturazione e ricostruzione di edificio unifamiliare (ordinanza 26 giugno 1991, n. 296), ha incidentalmente affermato che i limiti (quantitativi) previsti dalla norma sono riferiti solo all’ipotesi di ampliamento.

Del resto sarebbe ben difficile riuscire a quantificare in termini percentuali un intervento di ristrutturazione, distinguendo in termini dimensionali apprezzabili la parte di intervento da quella invariata. Come autorevolmente affermato dal T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 10 ottobre 1996, n. 1480: "L'inciso relativo alla limitazione percentuale (20%), contenuto nella lettera d), articolo 9, legge n. 10 del 1977, sia per la sua collocazione nel contesto della frase, sia per evidenti ragioni logiche, non può che riferirsi alle sole opere di ampliamento (di edifici unifamiliari), e non anche agli altri tipi di intervento (restauro, risanamento conservativo, ristrutturazione) che lascino intatta la consistenza dell'immobile, posto che questi ultimi non sono valutabili in termini di rapporto percentuale rispetto al tutto, essendo la verifica di tale rapporto riferibile ai solo interventi ampliativi".

Vi sono inoltre alcuni aspetti particolari, in ordine all’applicazione della norma, che è opportuno affrontare.

E’ pacifico che le ipotesi di agevolazione possono concorrere e coesistere tra loro, pertanto mantiene il diritto all’esenzione l’intervento complesso costituito dalla ristrutturazione dell’intero edificio unifamiliare accompagnata da un ampliamento degli spazi in misura non superiore al 20 per cento.

In caso di ampliamento dell’edificio unifamiliare in misura superiore al 20 per cento (ad esempio nella misura del 35 per cento), l’esenzione non è riconosciuta; data la formulazione della norma sarebbe arbitrario sostenere che il primo 20 per cento è esente mentre la parte che supera tale percentuale (nell’esempio il 15 per cento eccedente) è onerosa. Non è applicabile la formula della cosiddetta "franchigia" fissa al 20 per cento, in quanto il limite percentuale assume la caratteristica di condizione indefettibile, in mancanza della quale non si può raggiungere il risultato dell’esenzione.

L’intervento in parola si può senz’altro ripetere (in assenza di qualunque divieto, anche implicito) più di una volta, purché l’ampliamento complessivamente considerato (cioè la somma degli ampliamenti per ogni singolo intervento) rimanga all’interno del 20 per cento della consistenza originaria.

Il problema si complica in relazione alla possibilità di ripetere lo stesso intervento più volte, con il limite del 20 per cento applicato ogni volta, senza altro limite finale e complessivo che non sia la caratteristica di edificio unifamiliare.

L’interpretazione prevalente in dottrina è nel senso dell’applicabilità una tantum dell’esenzione, cioè del divieto implicito di operare, sullo stesso edificio unifamiliare, due ampliamenti successivi, ciascuno di entità non superiore al 20 per cento ma la cui somma eccede la stessa percentuale; questa dottrina però è temporalmente vicina all’epoca di emanazione della norma, il suo orientamento è influenzato da questa circostanza, essendo ovvio che due ampliamenti, uno poniamo nel 1978 e l’altro nel 1981 (magari quando la prima concessione edilizia era ancora efficace), erano sintomatici di una volontà elusiva della contribuzione. Coerentemente con tale dottrina si è espressa anche la giurisprudenza amministrativa, le cui pronunce però oggi potrebbero non essere considerate decisive: esse infatti erano riferite a fattispecie dove il secondo ampliamento (quello che comportava l’eccedenza al 20 per cento) seguiva il primo a breve distanza di tempo, oppure non era supportato da alcun elemento che ne facesse intravedere l’autonomia oggettiva, oppure, ancora, realizzava, come risultato finale, un edificio non più unifamiliare. Tale giurisprudenza non è più così convincente e forse sarebbe da riconsiderare.

L’interpretazione restrittiva già prevalente non pare oggi condivisibile in assoluto. Nella norma non si rinviene un divieto tassativo della reiterazione degli ampliamenti agevolati. Si condivide l’obiezione secondo cui più ampliamenti (ciascuno non superiore al 20 per cento) svuoterebbero di significato l’agevolazione, anche in relazione a richieste artatamente separate e successive nel tempo in modo tale da ottenere, per questa via, l’esenzione alla maggior parte dell’edificio; tuttavia si deve ponderare se questo argomento sia sufficiente a dare alla norma un significato ulteriore e non scritto. Ha la stessa dignità l’obiezione, contraria, secondo la quale è irragionevole consentire che un edificio unifamiliare di 1.000 mc possa passare, gratuitamente, a 1.200 mc mentre un edificio unifamiliare di 500 mc non possa oltrepassare i 600 mc. Si tenga presente che un limite di chiusura c’è sempre (che sembra il vero limite insuperabile previsto dal legislatore) ed è la caratteristica unifamiliare, che non può mai venire meno.

Non vale a contraddire l’ultima obiezione, anteporre il rischio di una successiva suddivisione (con opere edili urbanisticamente irrilevanti e quindi sottratte al controllo urbanistico) dell’edificio in due unità, o di un suo cambio di destinazione; è infatti evidente che questi rischi sussistono immutati anche nell’ipotesi di applicazione restrittiva della norma.

Si noti che l’aumento del 20 per cento, se definito in assoluto come una tantum, assume il carattere di vincolo anche se non necessita di registrazione e trascrizione (mancando ogni previsione in tale senso); ma appunto perché difficilmente opponibile a terzi esso potrebbe essere fatto valere da un successivo acquirente dell’edificio, soprattutto quando tra il primo e il secondo ampliamento intervenisse un nuovo strumento urbanistico, circostanza che, come noto, "azzera" le previsioni precedenti. E poi, e questo per i sostenitori della "finalità di giustizia sociale" della norma agevolativa, forse l’acquisto da parte di una famiglia più numerosa della precedente o la nascita di altri figli (dopo il primo ampliamento) sono degni di tutela economica quanto le condizioni (indeterminate) sottese al primo ampliamento. O ancora, e questo è meno opinabile, l’intervento di un nuovo strumento urbanistico generale, sempre posteriore al primo ampliamento agevolato, non costituisce quella cesura secondo la quale niente è più come prima? Cioè, in questo caso, il nuovo ampliamento del 20 per cento può assumere quella caratteristica di scarsa incidenza sul complessivo peso insediativo (vero motivo che ha indotto il legislatore ad introdurre la norma), posto che l’incidenza del primo ampliamento si deve presumere assorbita (e quindi azzerata) dalle previsioni del nuovo strumento urbanistico generale?

Assume rilievo la considerazione che la ripartizione tra opere assoggettate e opere non assoggettate al contributo costituisce applicazione del principio di partecipazione ai costi sociali, legati all'utilizzazione del territorio; laddove le opere non comportino tali costi (per l'uso che legalmente può farsene, o per la loro intrinseca natura), l'esenzione è dovuta in quanto espressione del medesimo principio di onerosità.

In conclusione, nel silenzio della norma si ritiene che l’ampliamento possa essere reiterato, con l’applicazione del limite del 20 per cento ad ogni singolo intervento e non come limite finale, con la condizione imprescindibile che tra un intervento e l’altro vi sia una soluzione di continuità accertata e ragionevole; cioè che l’ampliamento precedente sia consolidato fisicamente e giuridicamente. Continua a non essere ammissibile la ripetizione degli stessi interventi se preordinata al risultato elusivo e se, soprattutto, essi si susseguono in tempi brevi e senza un’apprezzabile soluzione di continuità. E’ ben presente la difficoltà di individuare la discriminante tra le due ipotesi, con le conseguenti contestazioni, data l’impossibilità di predeterminare soluzioni definitive. La valutazione della discriminante sulla reiterabilità degli interventi di ampliamento in regime di esenzione contributiva è da motivare volta per volta, con l’uso del proprio apprezzamento tecnico motivato, in relazione agli atti e ai comportamenti del richiedente (non possono essere predeterminate prove inconfutabili, ma una serie di elementi coincidenti, ad esempio la condizione dell’esaurimento o della decadenza del titolo precedente sarà necessaria ma non sufficiente, l’intervenuta approvazione di un nuovo Piano Regolatore generale oppure il cambio di proprietà dell’edificio saranno eventi rilevanti anche se non decisivi ecc.).

Non è l’unico caso, e nemmeno il più complicato, dove l'operatore pubblico deve assumersi la responsabilità di emettere dei giudizi motivati che prescindono da meccanismi predeterminati (si pensi alla nota difficoltà di individuare senza incertezze il carattere di pertinenza di un manufatto, a quella di distinguere gli interventi di restauro da quelli di ristrutturazione e questi ultimi a loro volta dalla ricostruzione, da quella di individuare la destinazione prevalente da quella accessoria in un intervento complesso, a quella di valutare le anomalie in contraddittorio nelle offerte per i lavori pubblici in ambito U.E. o ancora, infine e sempre a titolo di esempio, alla difficoltà di stabilire l’esatta destinazione urbanistica di un complesso agroindustriale, di un cimitero di automobili o di una casa di cura privata).

Per quanto riguarda l’ultimo quesito, la specifica norma locale, valutata in astratto, va intesa nel senso che il limite di 750 mc è riferito alle dimensioni prima dell’intervento di ampliamento; in assenza di espressa disposizione contraria, a tale conclusione si perviene anche se si volesse leggere il punto in modo equivoco, in relazione al principio secondo il quale, esauriti o non percorribili gli altri criteri interpretativi, si deve privilegiare l’applicazione più favorevole.

Tuttavia non si può sottacere che la disposizione del piano regolatore illustrata soffre di illegittimità.

Date la formulazione della norma statale e la riserva legislativa in materia è escluso che il limite di edificio unifamiliare possa essere ricostruito da norme locali in modo diverso da quello che discende direttamente dalla situazione reale esistente e come modificata dal progetto sotto il solo profilo urbanistico (rivelata in genere, ma non in assoluto, dall’autonomia degli accessi e dallo sviluppo da terra a cielo). Sono pertanto da ritenere illegittimi i comportamenti dei comuni che pretendono di limitare l’esenzione prevista dall’articolo 17, comma 3, lettera b), d.P.R. n. 380 del 2001, ad edifici unifamiliari individuati con parametri o limiti arbitrari, del genere: edifici non di lusso, singole unità immobiliari definite con il criterio strettamente catastale, dimensioni non superiori a 1 vano o a 100 metri cubi per abitante componente il nucleo familiare o, come nel caso di specie, dimensioni in termini assoluti di 750 mc (parametri per i quali è di tutta evidenza la scarsa idoneità al perseguimento delle finalità della norma).
Nemmeno la motivazione della supposta rilevanza della finalità di giustizia sociale della norma consente simili restrizioni, anche perché l’esenzione è accordata sul presupposto della scarsa incidenza dell’intervento sul complessivo peso insediativo, secondo il libero (anche se non condivisibile) apprezzamento del legislatore. Il fatto che l’agevolazione prevista debba essere accordata anche a ville lussuose e hollywoodiane, e non possa esserlo invece alla casa popolare in palazzina da quattro appartamenti, non sarà giusto, ma è rimesso alla discrezionalità legislativa, non sindacabile in sede amministrativa, nemmeno con atto regolamentare che, come nel caso in quesito, deve ritenersi illegittimo, per carenza di qualsiasi potere regolamentare sul punto.

Il rilascio a titolo gratuito di un permesso di cotruire, ove ne ricorrano i presupposti, fa sorgere nel suo titolare un diritto soggettivo perfetto a realizzare le opere senza alcun onere contributivo, non comprimibile con la norma regolamentare. Tanto che la stessa norma, illegittima, dev’essere disapplicata in sede giurisdizionale ai sensi dell’articolo 5 legge n. 2248 del 1865, allegato E. Come noto tale disapplicazione è riconosciuta solo al giudice ordinario (civile e penale). Trattandosi però di diritti soggettivi, con decisioni coraggiose e di notevole interesse è riconosciuto, nel solo caso dei giudizi aventi per oggetto i diritti soggettivi, il potere del giudice amministrativo, competente a conoscere in via esclusiva le controversie in tale materia, di disapplicare le norme regolamentari adottate dall'amministrazione in contrasto con le disposizioni di legge (anche se non impugnate), solo ed in quanto appunto si è nella sfera dei diritti soggettivi per cui il giudice naturale, che incidentalmente nel caso di specie è quello amministrativo, può disapplicare l'atto amministrativo illegittimo ai sensi della norma citata, alla pari del giudice ordinario (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 27 settembre 1990, n. 695 e 24 luglio 1993, n. 799).
Dovere della pubblica amministrazione nel caso trattato, non potendo essa disapplicare la propria norma illegittima, è quello di rimuoverla mediante annullamento con atto di autotutela o, in parole più semplici, mediante apposita modifica alle norme tecniche di attuazione.

E’ appena il caso di notare, infine, che l’ipotesi di ampliamento fino al 20 per cento degli edifici unifamiliari integra l’esenzione dal contributo ed è solo a questo fine che è stata introdotta; quindi gli spazi realizzati devono essere comunque conformi alla disciplina urbanistica vigente nel comune; non hanno alcun fondamento le pretese di taluni operatori di individuare in tale disposizione una deroga alle norme urbanistiche ordinarie, nel senso di consentire l’ampliamento, nel predetto limite, anche oltre gli indici di densità previsti in via generale.