LAVORI PUBBLICI - 162
Consiglio di Stato, Sezione VI, 9 marzo 2007, n. 1114
Appalto di lavori di importo complessivo superiore a 150.000 euro - Lavorazioni
scorporabili di importo superiore al 10% ma inferiore a 150.000 euro:
insufficienza dei requisiti ex art. 28 del d.P.R. n.
34 del 2000 e necessità dell'attestazione S.O.A.
Il danno derivante ad una
impresa dal mancato affidamento di un appalto è quantificabile nella misura
dell’utile non conseguito (10%), solo se e in quanto l’impresa possa
documentare di non aver potuto utilizzare mezzi e maestranze, lasciati
disponibili, per l’espletamento di altri servizi, mentre quando tale
dimostrazione non sia stata offerta è da ritenere
che l’impresa possa avere ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera
per lo svolgimento di altri, analoghi servizi, così vedendo in parte ridotta
la propria perdita di utilità, con conseguente riduzione in via equitativa
del danno risarcibile.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato
la seguente
DECISIONE
sul ricorso in appello proposto dalla costituenda A.T.I. tra T.D. s.r.l. ed E.S. s.r.l., in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall' avv.to R.M.B. ed elettivamente domiciliato presso ...
contro
Ministero per i beni e le attività culturali – Soprintendenza per i beni archeologici delle province di Napoli e Caserta, non costituitosi in giudizio;
e nei confronti di
A.T.I. tra A. s.a.s. e M.S. s.a.s., non costituitisi in
giudizio;
A.T.I. costituenda tra F.C. s.r.l., L.S. s.n.c. e S.A.A., non costituitasi in giudizio;
per l’annullamento
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania,
Sezione I, n. 2786/2005;
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visti gli atti tutti della causa;
Alla pubblica udienza del 16-1-2007 relatore il Consigliere Roberto Chieppa.
Udito l'Avv. B.
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
FATTO E DIRITTO
1. L’associazione temporanea di imprese costituenda tra T.D. s.r.l.
ed E.S. s.r.l. ha partecipato alla gara indetta dalla
Soprintendenza per i beni archeologici delle province di Napoli e Caserta
per l'affidamento dei "lavori di indagini geofisiche, scavo archeologico
della base militare della flotta Misenum", classificandosi terza.
Con ricorso proposto al T.A.R. Campania ha contestato l'ammissione alla gara
delle due associazioni temporanee di impresa, che la hanno preceduta nella
graduatoria finale formata dall'amministrazione procedente.
Dopo che gli atti impugnati erano stati sospesi a con ordinanza di questa
Sezione n. 5582/2004, con sentenza n. 2786/2005 il T.A.R. ha respinto il
ricorso, ritenendo che:
a) il bando di gara non imponeva il possesso della attestazione SOA nella categoria OS25 in capo alla mandante, in caso questa fosse in possesso del requisito ulteriore previsto dalla lex specialis e consistente nell’aver effettuato lavorazioni di scavo archeologico su fondo marino per un importo di Euro 143.579,08;
b) tale previsione era legittima in presenza di lavorazioni per un importo inferiore alla soglia dei 150.000 Euro, di cui all’art. 28 del d.P.R. n. 34/2000, norma che non aveva alcuna necessità di espresso richiamo nel bando per essere applicata.
L’A.T.I. costituenda tra T.D. s.r.l. ed E.S. s.r.l. ha impugnato tale decisione, deducendo che le due associazioni, classificate prima e seconda, avrebbero invece dovuto essere escluse dalla procedura perché le due imprese mandanti non erano in possesso di (adeguata) attestazione SOA.
L’associazione appellante ha anche sostenuto l’inapplicabilità dell’art. 28
del d.P.R. n. 34/2000 e ha riproposto la domanda di risarcimento del danno,
anche respinta in primo grado.
L’amministrazione appellata e le imprese controinteressate, regolarmente
intimate, non si sono costituite in giudizio.
All’odierna udienza la causa è stata trattenuta in decisione.
2. Oggetto del presente giudizio è la procedura di gara, indetta dalla
Soprintendenza per i beni archeologici delle province di Napoli e Caserta
per l'affidamento dei "lavori di indagini geofisiche, scavo archeologico
della base militare della flotta Misenum".
L’A.T.I. appellante si è classificata terza, ma ha interesse al ricorso, in
quanto i motivi proposti coinvolgono le A.T.I. posizionate come prima e
seconda della graduatoria finale.
Le contestazioni riguardano la necessità, o meno, del possesso
dell’attestazione SOA nella categoria OS25 e, in particolare, se tale
attestazione fosse stata sostituita, o solo integrata, dall’ulteriore
requisito dell’aver effettuato lavorazioni di scavo archeologico su fondo
marino per un importo di Euro 143.579,08.
Al riguardo, si rileva che il bando di gara ha previsto, al punto 3, le seguenti "Lavorazioni di cui si compone l'intervento:
Categoria prevalente: Categoria OS25, classifica II: Scavo archeologico e attività strettamente connessa Euro 395.232,09;
Categoria scorporabile: Categoria OG2, classifica II: Restauro di beni immobili sottoposti a tutela Euro 256.777,97;
Ulteriori lavorazioni: Impianti elettrici Euro 47.989,94”.
Era poi aggiunto che “Il concorrente dovrà dimostrare, ai fini della qualificazione alla categoria prevalente, di aver eseguito nell'ultimo quinquennio lavori di indagini, ricerca, sorbonatura, rilevamento di strutture archeologiche sommerse per un importo non inferiore ad Euro 143.579,08.”
Con riferimento alle attestazioni SOA, era, altresì, specificato che “Le lavorazioni relative alla categoria OG2 possono essere eseguite dal concorrente solo se in possesso di attestazione Soa” e che alla domanda di partecipazione dovesse essere allegata, a pena di esclusione “l’attestazione, rilasciata da società di attestazione di cui al d.P.R. n. 34/2000 regolarmente autorizzata, in corso di validità, che documenti il possesso della qualificazione nelle categorie OS25 e OG2 per classifica adeguata ai lavori da assumere” (v. pag. 2 del Disciplinare di gara, richiamato dal bando).
Il Collegio ritiene che il bando richiedesse il possesso dell’attestazione
SOA per la categoria OS25 e che tale requisito era solo integrato, ma non
sostituito, dalla dimostrazione dell’effettuazione di lavori di indagini,
ricerca, sorbonatura, rilevamento di strutture archeologiche sommerse per un
importo non inferiore ad Euro 143.579,08.
Il bando si limita a consentire che tali ultime lavorazioni siano effettuate
dall’impresa mandante, ma in alcun modo esonera questa dal possesso
dell’attestazione SOA (che anzi è richiesta tra la documentazione da
produrre a pena di esclusione).
Del resto, è questa l’unica interpretazione legittima della lex specialis,
(comunque impugnata in via subordinata dalla ricorrente), in quanto la
categoria OS25 era quella prevalente e, ai sensi degli artt. 8 e 13 della
legge n. 109/94 e dell’art. 95 del d.P.R. n. 554/99, i lavori appartenenti
alla categoria prevalente non sono scorporabili e le imprese partecipanti
all’ATI devono essere in possesso dei prescritti requisiti di qualificazione
relativi alla categoria prevalente.
Il bando si limitava, quindi, a consentire che i lavori eseguiti sulle
strutture sommerse potessero essere eseguiti da imprese mandanti in Ati,
senza però escludere la necessità dell’attestazione SOA.
Il giudice di primo grado ha espressamente attribuito portata “dirimente”
all’applicabilità dell’art. 28 del d.P.R. n. 34/2004, anche se non
espressamente richiamato dal bando.
Tuttavia, tale disposizione si applica agli “appalti di lavori pubblici di
importo pari o inferiore a 150.000” e non è questo il caso in esame.
Il giudice di primo grado ha riferito tale soglia alle lavorazioni speciali
di indagini, ricerca, sorbonatura, rilevamento di strutture archeologiche
sommerse, per le quali era richiesto una pregressa esperienza per lavori di
importo non inferiore ad Euro 143.579,08; ma tale importo non era certo
quello dell’appalto, che era invece di euro 700.000,00 e, quindi, di gran
lunga superiore al limite previsto per l’applicabilità del citato art. 28.
Tale erronea valutazione ha condotto il T.A.R. a ritenere applicabile la norma,
stravolgendo in questo modo il tenore del bando di gara, che non la
richiamava.
In accoglimento del motivo di appello, deve, quindi, ritenersi che l’aggiudicazione della gara sia illegittima, in quanto le A.T.I. classificate ai primi due posti della graduatoria dovevano essere escluse per il mancato possesso in capo alle imprese mandati della necessaria attestazione SOA per la categoria prevalente OS25.
3.1. L’annullamento dell’aggiudicazione non è satisfattivo della pretesa
della ricorrente, in quanto, come da questa dedotta e non contestato, i
lavori in questione sono stati eseguiti dall’A.T.I. aggiudicataria o
comunque si trovano in uno stato che non consente il subentro di altra
impresa.
Deve, quindi, essere esaminata la domanda di risarcimento del danno,
riproposta in appello.
Con riguardo alla responsabilità della pubblica amministrazione per i danni
causati dall’esercizio illegittimo dell’attività amministrativa, questa
Sezione ha già aderito a quell’orientamento favorevole a restare all'interno
dei più sicuri confini dello schema e della disciplina della responsabilità
aquiliana, che rivelano una maggiore coerenza della struttura e delle regole
di accertamento dell'illecito extracontrattuale con i caratteri oggettivi
della lesione di interessi legittimi e con le connesse esigenze di tutela, (Cons.
Stato, VI, 23 giugno 2006 n. 3981; 9 novembre 2006 n. 6607; IV, 6 luglio
2004 n. 5012; 10 agosto 2004 n. 5500).
Sotto il profilo dell’elemento oggettivo dell’illecito, si rileva che la
ricorrente ha dimostrato che, in assenza dell’illegittimità commessa
dall’amministrazione, avrebbe ottenuto l’aggiudicazione dell’appalto, in
quanto le uniche due A.T.I., che la precedevano in graduatoria, avrebbero
dovuto essere escluse.
Sussiste, dunque, il danno per non aver potuto eseguire i lavori e non aver
tratto il relativo utile di impresa e tale danno si pone in rapporto di
diretta causalità con la accertata illegittimità.
3.2. Per quanto concerne, l’elemento soggettivo, sulla base dei richiamati precedenti giurisprudenziali, va ribadito che non è comunque richiesto al privato danneggiato da un provvedimento amministrativo illegittimo un particolare impegno probatorio per dimostrare la colpa della p.a. Infatti, pur non essendo configurabile, in mancanza di una espressa previsione normativa, una generalizzata presunzione (relativa) di colpa dell'amministrazione peri danni conseguenti ad un atto illegittimo o comunque ad una violazione delle regole, possono invece operare regole di comune esperienza e la presunzione semplice, di cui all'art. 2727 c.c., desunta dalla singola fattispecie.
Il privato danneggiato può, quindi, invocare l’illegittimità del
provvedimento quale indice presuntivo della colpa o anche allegare
circostanze ulteriori, idonee a dimostrare che si è trattato di un errore
non scusabile.
Spetterà a quel punto all’amministrazione dimostrare che si è trattato di un
errore scusabile, configurabile in caso di contrasti giurisprudenziali
sull’interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco
entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza
determinante di comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante
da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata.
Si deve, peraltro, tenere presente che molte delle questioni rilevanti ai
fini della scusabilità dell'errore sono questioni di interpretazione ed
applicazione delle norme giuridiche, inerenti la difficoltà interpretativa
che ha causato la violazione; in simili casi il profilo probatorio resta in
larga parte assorbito dalla questio iuris, che il giudice risolve
autonomamente con i propri strumenti di cognizione in base al principio iura
novit curia.
Spetta, quindi, al giudice valutare, in relazione ad ogni singola
fattispecie, la configurabilità concreta della colpa, che spetta poi
all'amministrazione superare; inoltre, in assenza di discrezionalità o in
presenza di margini ridotti di essa, le presunzioni semplici di colpevolezza
saranno più facilmente configurabili, mentre in presenza di ampi poteri
discrezionali ed in assenza di specifici elementi presuntivi, sarà
necessario uno sforzo probatorio ulteriore, gravante sul danneggiato, che
potrà ad esempio allegare la mancata valutazione degli apporti resi nella
fase partecipativa del procedimento o che avrebbe potuto rendere se la
partecipazione non è stata consentita.
Va, infine, precisato che alcun elemento contrario alla effettuata ricostruzione della nozione di colpa della p.a. può trarsi dalla giurisprudenza comunitaria.
Con una recente sentenza la Corte di Giustizia ha sanzionato lo Stato del
Portogallo per aver subordinato la condanna al risarcimento dei soggetti
lesi in seguito alle violazioni del diritto comunitario che regolano la
materia dei pubblici appalti alla allegazione della prova, da parte dei
danneggiati, che gli atti illegittimi dello Stato o degli enti di diritto
pubblico siano stati commessi colposamente o dolosamente (Corte Giust., 14
ottobre 2004, C-275/03).
Tuttavia, tale decisione appare riferirsi all’onere della prova in relazione
all’elemento soggettivo della responsabilità della p.a. e non alla esigenza
di accertare la responsabilità, prescindendo dalla colpa
dell’amministrazione.
Come illustrato, nell’ordinamento italiano la possibilità per il privato
danneggiato di utilizzare presunzioni pone sostanzialmente a carico della
p.a. l’onere di dimostrare l’esistenza di un errore scusabile, senza alcuna
lesione, quindi, dei principi comunitari.
Inoltre, va considerato che la stessa Corte di Giustizia, pur non facendo
riferimento alla nozione di colpa della p.a., utilizza, a fini risarcitori,
il criterio della manifesta e grave violazione del diritto comunitario,
sulla base degli stessi elementi, descritti in precedenza e utilizzati nel
nostro ordinamento per la configurabilità dell’errore scusabile (Corte Giust.
CE, 5 marzo 1996, C- 46 e 48/93, Brasserie du Pecheur, in cui, al punto 78,
viene riconosciuto che alcuni degli elementi indicati per valutare se vi sia
violazione manifesta e grave sono riconducibili alla nozione di colpa
nell'ambito degli ordinamenti giuridici nazionali).
Precisata la nozione di colpa della p.a., si tratta ora di applicare i
suesposti principi alla fattispecie in esame.
Nel caso di specie, l’amministrazione ha ammesso alla procedura due A.T.I.,
che non avevano i requisiti per partecipare, violando lo stesso bando da lei
predisposto.
Né può essere invocata la poca chiarezza della lex specialis, in quanto
questa è stata appunto approvata dalla stessa amministrazione.
Va, infine, evidenziato che non esclude la colpa la circostanza che il
giudice di primo grado abbia dato ragione all'amministrazione con decisione
ribaltata in appello, in quanto anche il T.A.R. può incorrere in errore (come
nel caso di specie, causa l’erronea applicazione dell’art. 28 del d.P.R. n.
34/00) e comunque non appare ragionevole dare rilevanza ad un fatto
successivo a quello che ha generato l'illecito; aderendo a tale
impostazione, la sussistenza della colpa sarebbe ravvisabile nelle sole
ipotesi in cui il privato ottenga ragione in entrambi i gradi del giudizio,
finendo il giudizio di primo grado ad essere quello decisivo.
Si è trattato, quindi, di un evidente errore, che in alcun modo può essere
ritenuto scusabile e ciò conduce a ritenere sussistente l’elemento della
colpa dell’amministrazione appellata.
3.3. Sotto il profilo della quantificazione del danno, la ricorrente ha
indicato il criterio del 25% dell’offerta presentata, quale mancato
ammortamento delle spese generali di azienda (15%) e mancato utile che
l’impresa avrebbe tratto dall’aggiudicazione dell’appalto (10%).
Il criterio indicato non corrisponde a quello utilizzato dalla prevalente
giurisprudenza (10% dell’importo offerto dal ricorrente).
Tuttavia, la giurisprudenza ha anche precisato che il danno derivante ad una
impresa dal mancato affidamento di un appalto è quantificabile nella misura
dell’utile non conseguito (10%), solo se e in quanto l’impresa possa
documentare di non aver potuto utilizzare mezzi e maestranze, lasciati
disponibili, per l’espletamento di altri servizi, mentre quando tale
dimostrazione non sia stata offerta (come nel caso di specie) è da ritenere
che l’impresa possa avere ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera
per lo svolgimento di altri, analoghi servizi, così vedendo in parte ridotta
la propria perdita di utilità, con conseguente riduzione in via equitativa
del danno risarcibile, (Cons. Stato, V, 24 ottobre 2002 n. 5860; VI, 9
novembre 2006 n. 6607).
In applicazione di detto principio, il danno risarcibile deve essere ridotto
al 5% dell’importo offerto e corrisponde ad euro 27.727,95 (5% di euro
544.559,19).
Tale somma deve intendersi già attualizzata e deve essere aumentata, in via
equitativa, ad Euro 35.000,00 in considerazione dell’ulteriore danno,
consistente nell’incidenza del mancato svolgimento del rapporto con la p.a.
sui requisiti di qualificazione e di valutazione, invocabili in successive
gare (cfr., sempre, Cons. Stato, VI, 9 novembre 2006 n. 6607); l’aumento è
in questo caso particolarmente rilevante, in considerazione della
specificità dei lavori in questione e della difficoltà di svolgere lavori
dello stesso tipo ai fini della formazione di una pregressa esperienza
dell’impresa.
4. In conclusione, l’appello deve essere accolto con conseguente annullamento dell'atto impugnato, in riforma della sentenza di primo grado.
L’amministrazione appellata deve essere, altresì condannata al risarcimento
del danno, quantificato nella complessiva somma di euro 35.000,00, oltre
agli interessi legali dalla data di pubblicazione della presente sentenza
fino all’effettivo soddisfo.
Alla soccombenza dell’amministrazione appellata seguono le spese di
giudizio, mentre devono essere compensate le spese con le ATI
controinteressate.
P. Q. M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, accoglie il
ricorso in appello indicato in epigrafe e, per l’effetto, in riforma della
sentenza impugnata, annulla gli atti impugnati e condanna l’amministrazione
appellata al risarcimento del danno nei sensi di cui in parte motiva.
Condanna l’amministrazione appellata alla rifusione, in favore della Società
appellante, delle spese di giudizio, quantificate in Euro 7.000,00, oltre
IVA e CP, compensando le spese con le controinteressate.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, il 16-1-2007 dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale - Sez.VI -, riunito in Camera di Consiglio, con l'intervento dei Signori:
Giovanni Ruoppolo, Presidente
Carmine Volpe, Consigliere
Giuseppe Romeo, Consigliere
Luciano Barra Caracciolo, Consigliere
Roberto Chieppa, Consigliere Est.