Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture
Determinazione
n. 7
del
21
Ottobre
2010
Questioni interpretative
concernenti
la
disciplina
dell’articolo
34
del
d.lgs.
163/2006
relativa ai
soggetti
a
cui
possono
essere
affidati
i
contratti
pubblici
Premessa
La
presente determinazione
è
volta
a
chiarire
alcuni
dubbi
interpretativi
attinenti
alla disciplina
dettata
dall’articolo
34
del
d.lgs.
163/2006
(nel
seguito
“Codice”), in
particolare
alla
possibilità
di
ammettere
alle
gare
per
l’aggiudicazione
dei contratti
pubblici
soggetti
giuridici
diversi
da
quelli
ricompresi
nell’elenco di
cui
all’articolo
34
del
d.lgs.
n.
163/2006,
quali
ad
esempio
le
fondazioni, gli
istituti
di
formazione
o di
ricerca,
le
Università.
La
questione
riveste
carattere generale
e
verte
sulla
legittimità
di
una
interpretazione
del
citato
articolo 34
che
consenta
la
partecipazione
alle
procedure
competitive
anche
di
ulteriori e
diverse
tipologie
soggettive,
indipendentemente
dalla
loro
natura
giuridica.
Tale
problematica
è
stata
già
affrontata
dall’Autorità
in
atti
specifici,
quali
delibere
e
pareri
di precontenzioso
(si
veda
la
deliberazione
n.
119
del
2007,
il
parere
n.
127
del 2008);
appare
pertanto
opportuno
fornire
indicazioni
applicative
di
carattere generale,
anche
alla
luce
della
recente
giurisprudenza
comunitaria
in
materia
(sentenza
23
dicembre
2009
C-305/08).
1. Interpretazione dell’articolo 34 del Codice
Il
citato
articolo
34
del Codice
ammette
alle
gare
d’appalto
di
lavori,
servizi
e
forniture
gli imprenditori
individuali,
anche
artigiani,
le
società
commerciali,
le
società cooperative,
i
consorzi
nonché
i
soggetti
che
abbiano
stipulato
il
contratto GEIE,
gli
operatori
economici
stabiliti
in
altri
Stati
membri,
costituiti conformemente
alla
legislazione
vigente
nei
rispettivi
Paesi.
La
disposizione del
Codice
si
limita,
quindi,
ad
individuare
un
elenco
di
soggetti
affidatari dei
contratti
pubblici,
recependo
pressoché
letteralmente
la
previsione contenuta
nell’articolo
10,
comma
1,
della
previgente
legge
11
febbraio
1994, n.
109
relativa
ai
soli
appalti
di
lavori.
L’articolo 3,
comma
6,
del Codice
definisce
il
soggetto
affidatario
di
contratti
pubblici
quale
“operatore economico”:
termine,
questo,
che
include
“l’imprenditore,
il
fornitore
e il
prestatore di
servizi
o un
raggruppamento
o
consorzio
di
essi”
(comma
22
del
medesimo articolo),
affiancando
dunque
alla
figura
dell’imprenditore
anche
quelle
del fornitore
e
del
prestatore
di
servizi.
Comune
denominatore
di
tutte
le
figure contemplate
dall’articolo
34
è,
senza
dubbio,
la
nozione
di
impresa
intesa
come esercizio
professionale
di
un’attività
economica.
La
nozione
di
“operatore economico”
in
ambito
europeo
è
molto
ampia
e
tende
ad
abbracciare
tutta
la gamma
dei
soggetti
che
potenzialmente
possono
prender
parte
ad
una
pubblica gara:
l’articolo
1,
comma
8
della
direttiva
2004/18/CE
del
31
marzo
2004, relativa
al
coordinamento
delle
procedure
di
aggiudicazione
degli
appalti pubblici
di
lavori,
di
forniture
e di
servizi,
dopo
aver
definito
gli
appalti pubblici
come
contratti
a
titolo
oneroso
stipulati
per
iscritto
tra
uno
o
più operatori
economici
ed
una
o
più
amministrazioni
aggiudicatrici,
designa,
con
i termini
“imprenditore”,
“fornitore”
e
“prestatore
di
servizi”,
una
persona fisica
o
giuridica,
o un
ente
pubblico,
o un
raggruppamento
di
tali
persone
e/o enti
che
“offra
sul
mercato”,
rispettivamente,
la
realizzazione
di
lavori
e/o opere,
prodotti
e
servizi;
la
stessa
disposizione
specifica,
poi,
che
il termine
“operatore
economico”
comprende
l’imprenditore,
il
fornitore
ed
il
prestatore
di
servizi
ed è utilizzato
allo
scopo
dichiarato
di
semplificare
il
testo
normativo.
In
ambito
italiano,
la definizione
comunitaria
di “operatore economico”
trova
riscontro
nell’articolo
3
del
Codice
che
prevede,
al
comma 22,
che
il
termine
di
“operatore economico”
comprende
l’imprenditore,
il
fornitore
ed
il
prestatore
di servizi
o un
raggruppamento
o un
consorzio
tra
gli
stessi,
mentre,
al
comma
19, specifica
che
i
termini
“imprenditore”,
“fornitore”
e “prestatore
di
servizi”
designano
una
persona
fisica
o
giuridica
o un
ente
senza
personalità
giuridica,
compreso
il
gruppo
europeo
di
interesse
economico (GEIE),
che
offra
sul
mercato
la
realizzazione
di
lavori
o
opere,
la
fornitura di
prodotti
e la
prestazione
di
servizi.
Quindi,
da
un
primo
esame comparativo,
le
disposizioni
dei
due
ordinamenti
giuridici
sembrerebbero perfettamente
allineate.
Tuttavia,
il
legislatore nazionale
introduce
nel
Codice,
riproponendo
il
contenuto
dell’articolo
10, comma
1,
della
legge
n.
109/94,
l’articolo
34,
rubricato
“soggetti
a
cui
possono
essere
affidati
i
contratti
pubblici”;
in esso
è
previsto
un
elenco
di
soggetti
ammessi
a
partecipare
alle
gare
per l’affidamento
di
commesse
pubbliche.
Un
primo
problema,
che
l’articolo
pone,
è relativo
alla
natura,
tassativa
o
meno,
dell’elenco
contenuto;
un
secondo,
ma strettamente
connesso
al
primo,
è
legato
al
significato
attribuito
al
termine imprenditore
espressamente
utilizzato.
Se
l’imprenditore
cui
fa riferimento
l’articolo
34 è
solo
quello
disciplinato
dall’articolo
2082
del codice
civile
(chi
esercita
professionalmente
un’attività
economica
organizzata al
fine
della
produzione
e
dello
scambio
di
beni
e
servizi),
si
comprende
che si
è di
fronte
ad
un
concetto
più
ristretto
rispetto
a
quello
abbracciato
dalla normativa
comunitaria
secondo
la
quale
è
imprenditore
la
persona
fisica
o giuridica
o
l’ente
pubblico
o il
raggruppamento
di
tali
persone
e/o
enti
che offra
sul
mercato
la
realizzazione
di
lavori
e/o
opere.
Del
resto,
a
riguardo,
è opportuno
rammentare
che,
nel
contesto
della
procedura
di
infrazione
aperta
nei confronti
dell’Italia
per
alcune
delle
disposizioni
contenute
nel
Codice
(poi chiusa
in
seguito
all’adozione
del
d.lgs.
11
settembre
2008,
n.
152
cosiddetto “terzo
correttivo”),
la
Commissione
europea
ha
evidenziato
che
le
direttive
in materia
di
appalti
pubblici
non
consentono
di
restringere
la
possibilità
di partecipare
alle
gare
ad
alcune
categorie
di
operatori,
escludendone
altre. Tale
rilievo
è,
poi,
sfociato
nell’intervento
additivo
della
lettera
f-bis
al
capoverso
dell’articolo
34
del Codice,
che
permette
la
partecipazione
alle
gare
degli”
operatori
economici,
ai
sensi
dell’art.
3,
comma
22,
stabiliti
in altri
Stati
membri,
costituiti
conformemente
alla
legislazione
vigente
nei rispettivi
paesi”.
La giurisprudenza
è
stata
chiamata
più
volte
a
pronunciarsi
sull’evidenziata divergenza
tra
le
citate
disposizioni
nazionali
che,
testualmente
interpretate, circoscrivono
la
partecipazione
alle
procedure
di
affidamento
dei
contratti pubblici
alle
sole
società
commerciali
(escludendo
società
semplici, associazioni,
enti
pubblici,
ecc..)
e
l’impostazione
sostanziale
ed
oggettiva del
diritto
comunitario,
estranea
a
queste
distinzioni.
Sulla
questione,
sono emerse
posizioni
non
univoche.
I
dubbi
erano
diretti
non
tanto
verso
gli
enti pubblici
economici
che
hanno
natura
ed a
volte
anche
struttura
imprenditoriale, quanto
sugli
enti
pubblici
non
economici
a
cui
è
difficile
attribuire
il carattere
dell’imprenditorialità
e la
cui
partecipazione
alle
gare
è suscettibile
di
alterare
la
par
condicio, creando
una
distorsione
dei
meccanismi
concorrenziali,
atteso
il
sistema
di contribuzione
e
vantaggi
di
cui
l’ente
pubblico
gode.
A
fianco
di
un
orientamento restrittivo
(cfr.
Tar
Campania,
Napoli, Sez.
I,
12
giugno
2002,
n.
3411),
ne è
emerso
un
altro
che,
partendo
dalla considerazione
per
cui
un’opzione
pregiudizialmente
ostile
alla
partecipazione alle
gare
di
soggetti
pubblici
mal
si
concilierebbe
con
il
principio
che riconosce
agli
enti
pubblici
piena
autonomia
negoziale,
- la
circostanza
di essere
beneficiari
di
contribuzioni
pubbliche
non
è di
per
sé
ostativa
alla partecipazione
a
gare
pubbliche,
sempre
che
si
tratti
di
contribuzioni conseguite
nel
rispetto
della
disciplina
comunitaria
di
riferimento
(ne
è
prova il
fatto
che
le
imprese
private
beneficiarie
di
aiuti
finanziari
pubblici possono
prender
parte
a
gare
pubbliche)
-
esclude
un’incompatibilità
in astratto
e
ritiene
che
la
questione
vada
affrontata
in
concreto,
verificando caso
per
caso
(cfr.
Cons.
Stato,
Sez.
V, 29
luglio
2003,
n.
4327;
Cons.
Stato
sez. VI
16/6/2009
n.
3897)
la compatibilità
delle
finalità
istituzionali
proprie
dell’ente
che
intende prender
parte
alla
selezione
con
l’attività
oggetto
della
prestazione
dedotta
nell’appalto da
affidare.
L’Autorità ha
avuto
occasione
di
pronunciarsi
sull’argomento
con
la
deliberazione
n.
119 del
18.4.2007;
in
essa,
esaminando
i
soggetti
che
ai
sensi
dell’articolo
34
del Codice
possono
partecipare
ad
una
gara
pubblica,
notava
che
il
comune denominatore
degli
stessi
era
rappresentato
dall’esercizio
professionale
di un’attività
economica.
Ciò
aveva
indotto
l’Autorità
a
concludere
nel
senso
che le
Università,
non
possedendo
tale
requisito,
non
potessero
essere
ammesse
alle procedure
per
l’affidamento
di
contratti
pubblici,
a
meno
che
le
stesse
non costituissero
apposite
società,
sulla
base
dell’autonomia
loro
riconosciuta dalla
legge
9
maggio
1989,
n.
168.
Anche
per
gli
Istituti
di
ricerca
l’Autorità riteneva
necessario
procedere
ad
una
verifica
caso
per
caso
degli
statuti
dei singoli
enti
al
fine
di
valutare
gli
scopi
istituzionali
che
gli
stessi
erano chiamati
a
perseguire.
Più
recentemente, l’Autorità,
alla
luce
della
giurisprudenza
nazionale
e
comunitaria,
è
tornata sulla
questione,
affrontando,
in
linea
generale,
con
il
parere
n.
127
del
23 aprile
2008,
il
problema
della
possibilità
di
partecipazione
alle
gare d’appalto
di
soggetti
giuridici
diversi
da
quelli
indicati
nell’elenco
dell’articolo 34
del
Codice,
quali,
nel
caso
di
specie,
fondazioni,
istituti
di
formazione
o di
ricerca.
In
detto
parere,
si è
ricordato
che,
per
il
diritto
comunitario,
la nozione
di
impresa
comprende
qualsiasi
ente
che
esercita
un’attività
economica consistente
nell’offerta
di
beni
e
servizi
su
un
determinato
mercato,
a prescindere
dallo
status
giuridico
di
detta
entità
e
dalle
sue
modalità
di finanziamento
(cfr.
da
ultimo,
in
tal
senso,
Corte
di
giustizia
CE,
sentenza
26
marzo
2009,
causa
C-113/07
P,
Selex Sistemi
Integrati/
Commissione
e Eurocontrol).
Si
tratta,
quindi,
di
una nozione
dai
confini
ampi,
che
prescindono
da
una
particolare
formula organizzativa
e
dalla
necessità
di
perseguire
finalità
di
lucro
(cfr.
sul
punto le
conclusioni
dell’Avvocato
generale Jacobs
presentate
il
1
dicembre
2005
nella
causa
C-5/05,
decisa
con
sentenza
della
Corte
di
giustizia
CE
23
novembre
2006, Joustra
nonché
la
sentenza
della
Corte
di giustizia
CE
29
novembre
2007,
causa
C-119/06,
Commissione/Italia).
Per
quanto
concerne
gli
enti
pubblici
non
economici,
quali
gli
enti
di
ricerca
CNR,
FORMEZ,
CENSIS
e IFOA,
l’Autorità
ha
esaminato
il
rischio
di
alterazione
della
par
condicio
tra
i
partecipanti
e il possibile
effetto distorsivo
della
concorrenza,
atteso
il
particolare
regime
di agevolazioni
finanziarie
di
cui
godono
i
predetti
enti
e la
conseguente posizione
di
vantaggio
rispetto
ad
altri
soggetti
che
forniscono
i
medesimi servizi
nell’esercizio
dell’attività
di
impresa,
dovendo
sopportare integralmente
i
relativi
costi.
In
proposito,
va sottolineato
che
la
Corte
di
giustizia
CE
ha
già
avuto
modo
di
precisare
che gli
enti
pubblici
che
beneficiano
di
sovvenzioni
erogate
dallo
Stato,
che consentono
loro
di
presentare
offerte
a
prezzi
notevolmente
inferiori
a
quelli degli
altri
offerenti
non
sovvenzionati,
sono
espressamente
autorizzati
dalla direttiva
a
partecipare
a
procedure
per
l’aggiudicazione
di
appalti
pubblici (sentenza
7
dicembre
2000,
causa
C-94/99, ARGE).
Alla
luce
delle considerazioni
esposte,
l’Autorità,
nel
citato
parere
n.
127/2008,
ha
concluso, che
gli
enti
pubblici
non
economici
possono
partecipare
a
quelle
gare
che abbiano
ad
oggetto
prestazioni
corrispondenti
ai
loro
fini
istituzionali,
con la
conseguente
necessità
di
operare
una
verifica
in
concreto
dello
statuto
al fine
di
valutare
la
conformità
delle
prestazioni
oggetto
dell’appalto
agli scopi
istituzionali
dell’ente,
optando
per
un’interpretazione
che
non
riconosce carattere
tassativo
all’articolo
34
del
Codice.
In tale
contesto
è
intervenuta
la
Corte
di
Giustizia
che
il
23
dicembre
2009
si è pronunciata
sulla
causa
C-305/08
relativa
alla
questione
rimessale
in
via pregiudiziale
dal
Consiglio
di
Stato,
con
il
parere
n.
167/2008.
Nell'ordinanza di
rimessione,
il
Consiglio
di
Stato,
oltre
a
riportare
le
menzionate
posizioni della
giurisprudenza
e
dell'Autorità,
evidenziava
il
rischio
per
la
concorrenza nel
mercato
dei
contratti
pubblici
derivante
dalla
partecipazione
delle Università
che
godono
di
una
posizione
“di privilegio
che
gli
garantirebbe
una
sicurezza
economica
attraverso finanziamenti
pubblici
costanti
e
prevedibili
di
cui
gli
altri
operatori economici
non
possono
beneficiare”.
La Corte,
pur
riconoscendo
che,
in
talune
circostanze
particolari,
l'amministrazione aggiudicatrice
ha
l'obbligo,
o
quanto
meno
la
facoltà,
di
prendere
in considerazione
l'esistenza
di
aiuti
non
compatibili
con
il
Trattato,
al
fine eventualmente
di
escludere
gli
offerenti
che
ne
beneficiano,
ha
affermato
che
"le
disposizioni
della
direttiva 2004/18,
ed
in
particolare
quelle
di
cui
al
suo
art.
1, nn.
2,
lett.
a),
e 8, primo
e
secondo
comma,
che
si
riferiscono
alla
nozione
di
“operatore economico”,
devono
essere
interpretate
nel
senso
che
consentono
a
soggetti
che non
perseguono
un
preminente
scopo
di
lucro,
non
dispongono
della
struttura organizzativa
di
un'impresa
e
non
assicurano
una
presenza
regolare
sul
mercato, quali
le
università
e
gli
istituti
di
ricerca
nonché
i
raggruppamenti costituiti
da
università
e
amministrazioni
pubbliche,
di
partecipare
ad
un appalto
pubblico
di
servizi".
Infatti, ribadendo
quanto
affermato
in
alcuni
precedenti,
la
Corte
ricorda
che
è
ammesso a
presentare
un'offerta
o a
candidarsi
qualsiasi
soggetto
o
ente
che, considerati
i
requisiti
indicati
in
un
bando
di
gara,
si
reputi
idoneo
a garantire
l'esecuzione
di
detto
appalto,
in
modo
diretto
oppure
facendo
ricorso al
subappalto,
indipendentemente
dal
fatto
di
essere
un
soggetto
di
diritto privato
o di
diritto
pubblico
e di
essere
attivo
sul
mercato
in
modo sistematico
oppure
soltanto
occasionale,
o,
ancora,
dal
fatto
di
essere sovvenzionato
tramite
fondi
pubblici
o
meno.
L'effettiva
capacità
di
detto
ente di
soddisfare
i
requisiti
posti
dal
bando
di
gara
deve
essere
valutata
durante una
fase
ulteriore
della
procedura,
in
applicazione
dei
criteri
previsti
agli articoli
44-52
della
direttiva
2004/18
(cfr.
sentenze
18
dicembre
2007,
causa
C-357/06,
Frigerio
Luigi
&
Co,
12
luglio 2001,
causa
C-399/98,
Ordine
degli
Architetti,
7
dicembre
2000,
causa
C-94/99).
La Corte,
poi,
richiamando
l'articolo
4,
n.
1,
della
direttiva
2004/18/CE,
precisa che
gli
Stati
membri
possono
decidere
liberamente
se
autorizzare
o
meno determinati
soggetti,
quali
le
università
e
gli
istituti
di
ricerca,
non
aventi finalità
di
lucro,
ma
volti
principalmente
alla
didattica
e
alla
ricerca,
ad operare
sul
mercato
in
funzione
della
compatibilità
di
tali
attività
con
i
fini istituzionali
e
statutari
che
sono
chiamati
a
perseguire.
Una
volta
concessa, però,
l’autorizzazione,
poi,
non
si
può
escludere
gli
enti
in
commento
dalla partecipazione
alle
procedure
di
aggiudicazione
degli
appalti
pubblici. Pertanto,
alla
luce
dell'attuale
disciplina
legislativa,
il
giudice
comunitario conclude
che
"la
direttiva
2004/18 deve
essere
interpretata
nel
senso
che
essa
osta
all'interpretazione
di
una normativa
nazionale
come
quella
di
cui
trattasi
nella
causa
principale
che vieti
a
soggetti
che,
come
le
università
e
gli
istituti
di
ricerca,
non perseguono
un
preminente
scopo
di
lucro
di
partecipare
a
una
procedura
di aggiudicazione
di
un
appalto
pubblico,
benché
siffatti
soggetti
siano autorizzati
dal
diritto
nazionale
ad
offrire
sul
mercato
i
servizi
oggetto dell'appalto
considerato."
Alla stregua
dell'orientamento
espresso
dalla
Corte
di
Giustizia
con
la
sentenza
in esame,
non
sembra
potersi
affermare,
in
via
generale,
l'esistenza
di
un
divieto per
gli
operatori
pubblici
a
partecipare
alle
procedure
ad
evidenza
pubblica. In
sostanza,
la
definizione
comunitaria
di
impresa
non
discende
da
presupposti soggettivi,
quali
la
pubblicità
dell’ente
o
l’assenza
di
lucro,
ma
da
elementi puramente
oggettivi
quali
l’offerta
di
beni
e
servizi
da
scambiare
con
altri soggetti,
nell’ambito,
quindi,
di
un’attività
di
impresa
che
può
non
essere l’attività
principale
dell’organizzazione.
Sebbene, infatti,
la
risposta
al
secondo
quesito
attribuisca
agli
Stati
membri
la facoltà
di
proibire
a
determinati
soggetti
di
offrire
alcuni
servizi
sul mercato,
non
sono
rinvenibili,
attualmente,
nell'ordinamento
del
sistema universitario,
norme
di
tale
portata.
Al
contrario,
la
possibilità
per
le Università
di
operare
sul
mercato
sarebbe
espressamente
prevista
dall'articolo 7,
comma
1,
lett.
c),
della
legge
168/1989,
che
include,
tra
le
entrate
degli atenei,
anche
i
corrispettivi
di
contratti
e
convenzioni,
nonché
dall’articolo 66,
del
d.P.R.
382/1980,
rubricato
“Riordinamento
della
docenza
universitaria,
relativa
fascia
di formazione
nonché
sperimentazione
organizzativa
e
didattica”
che
prevede che
le
Università
possano
eseguire
attività
di
ricerca
e
consulenza,
stabilite mediante
contratti
e
convenzioni
con
enti
pubblici
e
privati,
con
l’unico limite
della
compatibilità
delle
suddette
attività
con
lo
svolgimento
della
funzione scientifica
e
didattica
che
per
gli
Atenei
rimane
prioritaria.
Resta ferma
la
necessità
di
effettuare,
caso
per
caso,
un
esame
approfondito
dello statuto
di
tali
persone
giuridiche
al
fine
di
valutare
gli
scopi
istituzionali per
cui
sono
state
costituite.
In
sostanza,
la
stazione
appaltante
deve verificare
se
gli
enti
partecipanti
alla
gara
possano
statutariamente
svolgere attività
di
impresa
offrendo
la
fornitura
di
beni
o la
prestazione
di
servizi sul
mercato,
pur
senza
rivestire
la
forma
societaria
(cfr.
Cons.
Stato
sez.
VI
16/6/2009
n.
3897).
In altri
termini,
anche
se
non
ricompresi
nell’elenco
di
cui
all’articolo
34
del Codice,
qualora
i
soggetti
giuridici
in
questione
annoverino,
tra
le
attività statutariamente
ammesse,
quella
di
svolgere
compiti
aventi
rilevanza
economica possono,
limitatamente
al
settore
di
pertinenza,
- e
se
in
possesso
dei requisiti
richiesti
dal
singolo
bando
di
gara
-
partecipare
a
procedure
di evidenza
pubblica
per
l’affidamento
di
contratti
aventi
ad
oggetto
servizi compatibili
con
le
rispettive
attività
istituzionali.
È opportuno
evidenziare,
però,
che
la
Corte
pone
a
fondamento
della
sentenza anche
la
considerazione
che
l’esclusione
delle
Università
potrebbe
portare
a considerare
“non
contratti”
gli
accordi
che
comunque
verrebbero
conclusi
tra tali
soggetti
e le
stazioni
appaltanti,
eludendo
l’applicazione
delle
direttive 17/2004/CE
e
18/2004/CE.
Appare chiaro,
allora,
quanto
la
pronuncia
della
Corte
abbia
spostato
il
baricentro della
questione,
fugando
ogni
dubbio
sull’impossibilità
per
le
stazioni appaltanti
di
escludere
a
priori,
dalla
partecipazione
alle
gare,
gli
enti pubblici
non
economici,
e le
Università
in
particolare,
solo
perché
difettano del
requisito
dello
scopo
di
lucro
o di
un’organizzazione
stabile
d’impresa,
ma nel
contempo
escludendo
che
i
contratti
conclusi
tra
amministrazioni aggiudicatrici
e
organismi
che
non
agiscono
in
base
ad
un
preminente
scopo
di lucro
possano
non
essere
considerati
“appalti
pubblici”
e,
pertanto,
venir aggiudicati
senza
il
rispetto
della
normativa
comunitaria
e
nazionale
dettata in
materia.
2. Compatibilità con il diritto comunitario degli accordi con le amministrazioni aggiudicatrici
La Corte
di
Giustizia
ha
ribadito,
in
più
sentenze
(cfr.
ad
es.
sentenza
Coditel
Brabant,
13
novembre
2008,
causa C-324/07),
il
principio
secondo
cui
un’amministrazione
pubblica
può adempiere
ai
compiti
ad
essa
attribuiti
attraverso
moduli
organizzativi
che
non prevedono
il
ricorso
al
mercato
esterno
per
procurarsi
le
prestazioni
di
cui necessita,
avendo
piena
discrezionalità
nel
decidere
di
far
fronte
alle
proprie esigenze
attraverso
lo
strumento
della
collaborazione
con
le
altre
autorità pubbliche.
A
ben
vedere,
quella
esposta
è la
stessa
ratio
che
è
alla
base
dell’esenzione
dall’espletamento
della
garanell’ipotesi
di
utilizzo
dell’in
house
providing:
anche
in
questo
caso l’amministrazione
opta
per
una
scelta
contraria
al
processo
di
outsourcing,
stabilendo
di
affidare
l’attività a
cui
è
interessata
ad
un
altro
ente
che
solo
formalmente
è
distinto
dalla propria
organizzazione,
ma
su
cui
sostanzialmente
essa
esercita
un
controllo analogo
a
quello
che
espleterebbe
nei
confronti
di
un
proprio
servizio
e
che realizza
con
essa
la
parte
più
importante
della
sua
attività.
Il
giudice
comunitario
è
tornato
sul punto
in
una
recente
pronuncia
(sentenza del
9
giugno
2009,
causa
C-480/06)
sancendo
la
legittimità
di
un
accordo stipulato
tra
quattro
Landkreise
tedeschi
e la
città
di
Amburgo, subordinandola,
però,
al
verificarsi
di
una
serie
di
presupposti.
In
tale
contesto
viene
ribadito
che se,
da
un
lato,
il
diritto
comunitario
non
impone
alle
autorità
pubbliche
di ricorrere
a
particolari
forme
giuridiche
per
assicurare
in
comune
le
loro funzioni
di
servizio
pubblico,
dall’altro,
questo
tipo
di
cooperazione
non
può
“rimettere
in
questione
l’obiettivo principale
delle
norme
comunitarie
in
materia
di
appalti
pubblici,
vale
a
dire la
libera
circolazione
dei
servizi
e
l’apertura
alla
concorrenza
non
falsata
in tutti
gli
Stati
membri.”
Nel
caso
specifico,
la
Corte
ha espresso
un
giudizio
di
compatibilità
dell’accordo
con
le
norme
del
diritto comunitario
perché
sussistevano
le
seguenti
condizioni:
- l’attuazione della cooperazione è retta unicamente da considerazioni e prescrizioni connesse al perseguimento di obiettivi d’interesse pubblico;
- viene salvaguardato il principio della parità di trattamento degli interessati, in modo tale che nessuna impresa privata è posta in situazione privilegiata rispetto agli altri concorrenti;
- la collaborazione tra amministrazioni non è una costruzione di puro artificio diretta ad eludere le norme in materia di appalti pubblici;
- gli unici movimenti finanziari ammessi tra gli enti pubblici cooperanti sono quelli corrispondenti al rimborso delle spese effettivamente sostenute;
- tutte le strutture pubbliche coinvolte svolgono un ruolo attivo, anche se non necessariamente nella stessa misura; quindi sussiste un’effettiva condivisione di compiti e di responsabilità ben diversa dalla situazione che si avrebbe in presenza di un contratto a titolo oneroso in cui solo una parte svolge la prestazione pattuita, mentre l’altra assume l’impegno della remunerazione;
- l’accordo controverso istituisce una cooperazione tra gli enti locali finalizzata a garantire l’adempimento di una funzione di servizio pubblico comune agli stessi che, nel caso specifico, è costituita dallo smaltimento dei rifiuti.
Parallelamente, si
ricorda,
però,
che
la
Corte
ha
dichiarato
non
conforme
al
diritto comunitario
escludere
a
priori
dall’applicazione
delle
norme
sugli
appalti
i rapporti
stabiliti
tra
amministrazioni
pubbliche,
indipendentemente
dalla
loro
natura. Ancora
più
esplicitamente,
nella
citata
sentenza
del
23
dicembre
2009,
la
Corte ha
chiarito
che
la
normativa
comunitaria
in
materia
di
appalti
pubblici
è applicabile
agli
accordi
a
titolo
oneroso
conclusi
tra
un’amministrazione aggiudicatrice
ed
un’altra
amministrazione
aggiudicatrice,
intendendo
con
tale espressione
un
ente
che
soddisfa
una
funzione
di
interesse
generale,
avente carattere
non
industriale
o
commerciale
e
che,
quindi,
non
esercita
a
titolo principale
un’attività
lucrativa
sul
mercato.
Del resto,
un’interpretazione
della
normativa
comunitaria
incline
alla
massima apertura
delle
procedure
selettive
per
l’affidamento
di
commesse
pubbliche
a soggetti
tradizionalmente
esclusi,
come
le
Università,
è
perfettamente
in
linea con
l’intento
di
circoscrivere
il
ricorso
all’affidamento
diretto:
si
tratta
di un
“modus
operandi”
che
prima
della pronuncia
menzionata
poteva
trovare
una
qualche
giustificazione
nella considerazione
secondo
la
quale,
essendo
al
mondo
della
ricerca
precluso all’origine
l’accesso
al
mercato
dei
contratti
pubblici,
lo
strumento dell’accordo-convenzione-contratto
permetteva
alla
stazione
appaltante
di assicurarsi
la
collaborazione
sinergica
con
un
polo
di
eccellenza,
come
il settore
universitario,
non
altrimenti
conseguibile.
Essendo,
però, profondamente
mutata
l’interpretazione
dell’articolo
34
del
Codice,
la
pratica descritta
non
ha
più
ragion
d’essere.
La
giurisprudenza comunitaria,
pertanto,
ritiene
legittimo
il
ricorso
a
forme
di
cooperazione pubblico-pubblico
attraverso
cui
più
amministrazioni
assumono
impegni reciproci,
realizzando
congiuntamente
le
finalità
istituzionali
affidate
loro, purché
vengano
rispettati
i
presupposti
sopra
specificati.
Anche
il
Parlamento Europeo,
richiamando
gli
insegnamenti
della
Corte
di Giustizia,
nella
risoluzione
del
18
maggio
2010,
ha
ribadito
la legittimità
di
forme
di
collaborazione
pubblico-pubblico
che
“non
rientrino
nel
campo
d'applicazione
delle direttive
sugli
appalti
pubblici,
a
condizione
che
siano
soddisfatti
tutti
i seguenti
criteri:
- lo scopo del partenariato è l'esecuzione di un compito di servizio pubblico spettante a tutte le autorità locali in questione,
- il compito è svolto esclusivamente dalle autorità pubbliche in questione, cioè senza la partecipazione di privati o imprese private,
- l'attività in questione è espletata essenzialmente per le autorità pubbliche coinvolte.
Sul versante dell’ordinamento nazionale, la legittimità dell’impiego dello strumento convenzionale è assicurata dalla previsione contenuta nel primo comma dell’articolo 15 della legge 7 agosto 1990, n. 241, secondo cui:“le amministrazioni pubbliche possono sempre concludere tra loro accordi per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune” (cfr. TAR Puglia, Lecce, Sez. II, 2 febbraio 2010, n. 417 e n. 418 sull’interpretazione dell’articolo 90, comma 1, lett. c del Codice).
Tuttavia, per evitare che la disposizione possa prestare il fianco ad interpretazioni che si risolvano in una elusione della normativa sugli appalti pubblici, si ritiene necessario precisare i limiti che il ricorso alla normativa in commento incontra:
1. l’accordo deve regolare la realizzazione di un interesse pubblico, effettivamente comune ai partecipanti, che le parti hanno l’obbligo di perseguire come compito principale, da valutarsi alla luce delle finalità istituzionali degli enti coinvolti;
2. alla base dell’accordo deve esserci una reale divisione di compiti e responsabilità;
3. i movimenti finanziari tra i soggetti che sottoscrivono l’accordo devono configurarsi solo come ristoro delle spese sostenute, essendo escluso il pagamento di un vero e proprio corrispettivo, comprensivo di un margine di guadagno;
4. il ricorso all’accordo non può interferire con il perseguimento dell’obiettivo principale delle norme comunitarie in tema di appalti pubblici, ossia la libera circolazione dei servizi e l’apertura alla concorrenza non falsata negli Stati membri. Pertanto, la collaborazione tra amministrazioni non può trasformarsi in una costruzione di puro artificio diretta ad eludere le norme menzionate e gli atti che approvano l’accordo, nella motivazione, devono dar conto di quanto su esposto.
In
riferimento
al
punto
1,
si
sottolinea
il
fatto
che
la collaborazione
deve
avere
come
finalità
la
realizzazione
di
un
interesse pubblico,
effettivamente
comune
ai
partecipanti
e
che
gli
stessi
hanno l’obbligo
di
perseguire
come
compito
principale.
Strettamente
correlato
al
ragionamento appena
svolto
è
quello
relativo
al significato
da
attribuire
all’espressione
“per
disciplinare
lo
svolgimento
in
collaborazione
di
attività
di interesse
comune”
di
cui
al
primo
comma
dell’articolo
15
della
legge 241/1990,
la
cui
formulazione,
per
quanto
generica,
sotto
il
profilo
oggettivo pare
circoscrivere,
per
le
pubbliche
amministrazioni,
la
possibilità
di stipulare
accordi
alle
ipotesi
in
cui
occorra
disciplinare
un’attività
che risponde
non
solo
all’interesse
di
entrambe
le
parti,
ma
che
è
anche
comune.
In proposito
si
specifica
che
il
citato
articolo
15
prefigura
un
modello convenzionale
attraverso
il
quale
le
pubbliche
amministrazioni
coordinano
l’esercizio di
funzioni
proprie
in
vista
del
conseguimento
di
un
risultato
comune
in
modo complementare
e
sinergico,
ossia
in
forma
di
“reciproca
collaborazione”
e nell’obiettivo
comune
di
fornire
servizi
“indistintamente
a
favore
della collettività
e
gratuitamente”
(cfr.
Cass. civ.,
13
luglio
2006,
n.
15893).
Si comprende
allora
perché
l’articolo
15
in
commento
non
risulti
in
contrasto
con
la
normativa
a
tutela della
concorrenza:
nel
caso
in
esame
le
amministrazioni
decidono
di
provvedere direttamente
con
propri
mezzi
allo
svolgimento
dell’attività
ripartendosi
i compiti,
il
che
vale
a
dire,
trattandosi
di
una
collaborazione,
che
entrambi
i
soggetti
forniscono
un proprio
contributo.
Discorso
diverso,
invece,
nel
caso
in cui
un
ente
si
procuri
il
bene
di
cui
necessita
per
il
conseguimento
degli obiettivi
assegnati
a
fronte
del
pagamento
del
rispettivo
prezzo:
in
questa situazione,
sia
che
ci
si
rivolga
ad
un
privato,
sia
che
ci
si
rivolga
ad
un soggetto
pubblico,
è
difficile
sostenere
l’applicabilità
dello
schema
della collaborazione,
atteso
che
si è
di
fronte
ad
uno
scambio
tra
prestazioni corrispettive
che
risponde
alla
logica
del
contratto
e
che
perciò
richiede,
in assenza
di
altre
circostanze
esimenti,
l’espletamento
di
una
gara
pubblica.
Le
argomentazioni
riportate
trovano riscontro
in
alcune
sentenze
del
giudice
amministrativo
(cfr.
T.A.R.
Puglia,
Lecce,
sez.
I,
n.
1791
del
21
luglio
2010) secondo
cui
”difetta
l’interesse
comune nell’accordo
interamministrativo
quando
un’amministrazione
ha
inteso
acquisire da
un’altra
amministrazione
un
servizio
di
proprio
esclusivo
interesse
verso corrispettivo
...
La
presenza
di
un
corrispettivo
è
dunque
da
considerarsi quale
elemento
sintomatico
della
qualificazione
dell’accordo
alla
stregua
di appalto
pubblico,
da
assoggettare
alla
relativa
disciplina
secondo
le prescrizioni
del
codice
degli
appalti.”
Sulla base di quanto sopra considerato
IL CONSIGLIO
Ritiene che:
1. l’elenco riportato nell’articolo 34 del D.lgs. 163/2006 non è da considerarsi esaustivo dei soggetti di cui è ammessa la partecipazione alle gare indette per l’affidamento dei contratti pubblici;
2. gli accordi tra amministrazioni non possono essere stipulati in contrasto con la normativa comunitaria, in particolare non devono interferire con il perseguimento dell’obiettivo della libera circolazione dei servizi e dell’apertura del mercato degli appalti pubblici alla concorrenza, nel rispetto dei principi illustrati nella presente determinazione.
Firmato:
Il Relatore: Piero Calandra - Il Presidente: Giuseppe Brienza
Depositato presso la Segreteria del Consiglio in data: 21 ottobre 2010