EDILIZIA - 007 - PIANI DI RECUPERO
Piani di recupero di iniziativa privata – Calcolo degli standards – Criteri e limiti – Esteso agli insediamenti preesistenti – Esclusione

QUESITO

Nell’adozione dei piani di recupero di iniziativa privata (articolo 30 della legge n. 457 del 1978), è d’uso in questo comune richiedere la cessione della aree a standards (o la loro monetizzazione) nella misura intera di cui alle norme vigenti.

(In particolare: 26,5 mq ogni abitante teorico per la residenza, 1 mq ogni mq di superficie lorda per le destinazioni terziarie e 0,10 mq ogni mq di superficie lorda dipavimento per la destinazione industriale, ex articolo 22 legge regionale Lombardia 15 aprile 1975, n. 51, che ha aumentato le misure di cui al D.M. 2 aprile 1968, n. 1444 – n.d.r.).

Anche se la cosa sembra formalmente ineccepibile, si verifica che in molti casi tali standards risultano spropositati. Ad esempio, in un piano di recupero che contempla la trasformazione di un portico rurale di 25 mq coperti in superficie commerciale in ampliamento ad un edificio commerciale, sono stati richiesti circa 2.400 mq di aree a standards per il solo fatto che il perimetro del piano di recupero inglobava un supermercato di 800 mq e 18 alloggi.

L’obbligo di piano di recupero è imposto dalle norme del piano regolatore per qualsiasi intervento edilizio che, come quello citato, comporti il cambio di destinazione d’uso delle superfici esistenti. Si noti che sia il supermercato che 13 alloggi su 18 non subivano interventi di alcun genere, mentre 5 alloggi erano oggetto di interventi di manutenzione straordinaria (parziale rivestimento di facciate, cambio serramenti, sostituzione delle coperture).

Da una piccola indagine svolta in proprio ho rilevato che tale atteggiamento deriva da un orientamento dell’organo di controllo regionale, consolidato negli anni. Anche se le deliberazioni di adozione dei piani di recupero non sono più soggette al controllo obbligatorio, l’amministrazione non ha il supporto giuridico per mutare orientamento.

Quello che si vorrebbe sapere come devono essere calcolate le aree a standards all’interno dei piani di recupero.

RISPOSTA

Il criterio di calcolo delle aree a standards previste nei piani di recupero, fattispecie particolare di piani attuativi, indipendentemente dalla loro misura base (stabilita dalla legge regionale, per la Lombardia dall’articolo 22 della legge regionale 15 aprile 1975, n. 51, o in assenza dal decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444) non può essere quello complessivo e disgiunto dall’intervento previsto, come sostenuto prima dall’organo di controllo e ora, forse più per mancanza di sensibilità che per assenza di supporto giuridico.

E’ vero che il citato decreto ministeriale, trattando degli standards connessi alla residenza li mette in rapporto genericamente gli insediamenti residenziali (articolo 2), ma trattando delle altre destinazioni esso parla di nuovi insediamenti di carattere industriale (articolo 5, numero 1) e di nuovi insediamenti di carattere commerciale e direzionale (articolo 5, numero 2), dove l’aggettivo "nuovi" non è scritto inutilmente.

E’ altrettanto vero che l’articolo 22 della legge regionale 15 aprile 1975, n. 51, parla standards in misura commisurata alla "entità degli insediamenti" e, per quelli residenziali, alla "capacità insediativa teorica", portando il lettore a pensare che essi vanno pertanto rapportati a tutti gli insediamenti compresi nel piano di recupero.

Una tale interpretazione è però abnorme, non a caso porta ad effetti assurdi, come lamentato nell’esempio del quesito (che risulta molto più gravoso di un vincolo espropriativo); a tale proposito si devono fare alcune considerazioni.

Tutto il sistema della disciplina urbanistica è permeato, anche se non è mai considerato alla lettera, dal concetto di "peso insediativo" (o carico urbanistico), inteso come aggravamento della situazione esistente per mezzo di interventi di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio. La dottrina e la giurisprudenza (costituzionale, amministrativa e penale) hanno costruito con intelligenza tale aspetto e l’hanno posto alla base di ogni loro considerazione nella materia. Sul contenuto di tale concetto è inutile dilungarsi, in quanto esso è universalmente chiaro.

Ora appare chiaro che edifici sui quali non è previsto alcun intervento (oppure sono previsti interventi di manutenzione, conservazione o ristrutturazione, il che è lo stesso) non comportano alcun aumento né alcuna modifica del peso insediativo, di conseguenza non comportano alcuna necessità di un aumento delle aree a standards. Gravarli di tale onere per il solo motivo che sono interni ad un perimetro di piano di recupero, equivale ad alzarsi un mattino e richiedere gli standards ad un qualsiasi edificio esistente, equivale cioè ad una imposizione patrimoniale non prevista da alcuna legge oltre che in contrasto con il principio di irrettroattività.

Si tenga presente che in genere ampie parti dei centri storici (in qualche caso per intero) classificate dai piani regolatori come zone omogenee A, sono individuate come zone di recupero ai sensi dell’articolo 27 della legge n. 457 del 1978, tuttavia larga parte di questi ambiti sono già stati oggetto di interventi di conservazione, spesso ristrutturati se non addirittura ricostruiti. Hanno cioè raggiunto uno stato fisico e giuridico che li sottrae al potere amministrativo in materia urbanistica ed edilizia, il cui esercizio, come noto, non può prescindere dagli interventi reali e attuali di trasformazione delle caratteristiche del territorio.

Gli interventi giurisprudenziali sul punto specifico sono limitati, tuttavia è pienamente condivisibile la tesi secondo la quale "L'articolo 22 della legge regionale Lombardia n. 51 del 1975, diversamente da quanto ritenuto dall'organo di controllo, non può trovare applicazione per l'intero intervento di recupero, ma solamente per quella parte dell'intervento che ha certamente determinato, a causa dell'incremento di volumetria realizzato, un aumento dei pesi insediativi, il solo che, a tenore della ricordata norma regionale, giustifica l'assoggettamento dell'intervento all'obbligo della prevista cessione delle aree necessarie per la realizzazione delle attrezzature pubbliche o di uso pubblico, secondo prestabiliti parametri, però sempre riferiti ai soli abitanti insediandi" (T.A.R. Lombardia, Sez. Brescia, 23 maggio 1996, n. 642).

A soccorso di questa lettura è chiamato il principio di irretroattività delle norme urbanistiche, non contestabile, il quale si realizza nel senso che l’applicabilità degli standards a carico del privato non può essere retroattiva e che mai vi può essere obbligo di reperimento se non vi è previsione di attività edilizia. In altre parole non possono essere richieste aree a standards per edifici o insediamenti preesistenti e invariati (e che nel P.R. continuano a restare invariati) ovvero soggetti a interventi di sola manutenzione e conservazione. Le stesse espressioni letterali delle norme richiamate all’inizio, riferite agli insediamenti in generale (e solo in due casi riferite ai nuovi insediamenti) possono sembrare equivoche ma esse vanno lette nel loro contesto logico e storico sulla base delle seguenti argomentazioni:

- esse sono riferite non solo ai piani attuativi ma, principalmente, ai piani regolatori generali, ed è ovvio che al fine del calcolo degli standards a livello comunale, per l’intero piano, si deve tenere conto anche degli abitanti già insediati, quindi degli insediamenti esistenti e delle domande di servizi complessive; da qui l’ovvietà del riferimento generico;
- esse sono datate agli anni dal 1968 al 1975, periodo nel quale il piano di recupero (quale appunto strumento urbanistico attuativo finalizzato all’intervento sul patrimonio edilizio esistente) non era ancora istituzionalizzato, essendo stato introdotto con la legge n. 457 del 1978.

Gli insediamenti esistenti e invariati hanno infatti scontato le aree a standards imposte all’epoca della loro realizzazione (ovvero sono stati realizzati prima dell’introduzione dell’obbligo legislativo di cessione degli standards, il che naturalmente è lo stesso); sarebbe del tutto arbitrario ed illegittimo pretendere la cessione (o la monetizzazione) di aree a standards per edifici sui quali non si attua né si prevede di attuare alcun intervento.

Certamente se all’interno del piano di recupero esistono della aree a standards cedute in precedenza e non sufficienti a coprire quanto dovuto in rapporto alla nuova trasformazione, le aree relative a quest’ultima devono essere reperite (o monetizzate) realmente ed effettivamente, non potendo computare, allo scopo, gli standards preesistenti e insufficienti; in altre parole la non retroattività agisce anche in questo senso. Si può infatti sostenere che "Il principio dell'irretroattività delle disposizioni urbanistiche che prescrivono una dotazione minima di spazi pertinenziali privati, va inteso nel senso che gli edifici preesistenti non possono essere obbligati a costituire quella dotazione, se originariamente mancante. Altro è, però, dire che sia legittimo sopprimere la dotazione minima obbligatoria di cui un edificio risulti, per avventura, già provvisto, benché costruito prima che entrasse in vigore la relativa prescrizione urbanistica" (Consiglio di Stato, Sez. IV, 14 marzo 1990, n. 176).

Si è detto che vanno considerati estranei al calcolo non solo gli insediamenti invariati ma anche quelli sottoposti ad interventi non idonei a modificare il peso insediativo, quali la manutenzione, il restauro e il risanamento conservativo, peraltro strettamente connessi al diritto di proprietà e praticamente impossibili da vietare sotto il profilo urbanistico. Gli interventi di ristrutturazione edilizia sono invece rilevanti limitatamente alle nuove superfici che contribuiscono a creare rispetto a quelle preesistenti e alle nuove destinazioni (più gravose in termini di standards urbanistici richiesti) rispetto a quelle precedenti; secondo il concetto già espresso di aumento del peso insediativo.

In definitiva le aree a standards relative ai piani di recupero andrebbero calcolate con i seguenti criteri:

- non considerando gli edifici esistenti che restano invariati ed estranei a qualsiasi trasformazione o che sono assoggettati ad interventi di manutenzione, risanamento e restauro conservativo; nonché di ristrutturazione che non comporti modifiche in relazione alla destinazione d’uso o all’aumento delle superfici o dei volumi in qualche modo utili;
- considerando gli edifici ristrutturati che subiscono modifiche alla destinazione d’uso o aumenti di volume e superficie, in relazione alla differenza tra il peso insediativo nuovo (nuova destinazione e nuovi spazi) e quello preesistente e storicamente consolidato (destinazione precedente e spazi preesistenti).

In conclusione, nell’esempio citato nel quesito era corretto richiedere la cessione (o la monetizzazione se ne sussistevano le condizioni) di aree a standards di soli 25 mq (secondo la legislazione regionale considerata, ovvero della superficie richiesta dal piano regolatore, posto che questo può prescrivere standards in un rapporto superiore ai minimi di legge), in quanto unico spazio interessato dalla modifica dell’assetto del territorio. Fermo restando che tali 25 mq erano da reperire ex novo, e non già attingendo ad eventuali aree a standards incidentalmente preesistenti e sottodimensionate rispetto ai fabbisogni complessivi del comparto.