La Corte Costituzionale si pronuncia sul condono 2003
(pronunce depositate il 28 giugno 2004:
sentenze n. 196, n. 198 e
n. 199; ordinanza n. 197)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Gustavo ZAGREBELSKY Presidente
- Valerio ONIDA Giudice
- Carlo MEZZANOTTE
- Fernanda CONTRI
- Guido NEPPI MODONA
- Piero Alberto CAPOTOSTI
- Annibale MARINI
- Franco BILE
- Giovanni Maria FLICK
- Ugo DE SIERVO (relatore)
- Romano VACCARELLA
- Alfio FINOCCHIARO
- Alfonso QUARANTA
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 32 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell'andamento dei conti pubblici), e dell'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003 come risultante dalla conversione ad opera della legge 24 novembre 2003, n. 326 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, recante disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell'andamento dei conti pubblici), promossi con due ricorsi della Regione Campania, rispettivamente notificati il 17 ottobre 2003 e il 22 gennaio 2004, depositati in cancelleria il 25 ottobre e il 30 gennaio successivi ed iscritti al n. 76 del registro ricorsi 2003 ed al n. 14 del registro ricorsi 2004, con due ricorsi della Regione Marche, rispettivamente notificati il 13 novembre 2003 e il 21 gennaio 2004, depositati in cancelleria il 19 novembre e il 26 gennaio successivi ed iscritti al n. 81 del registro ricorsi 2003 ed al n. 8 del registro ricorsi 2004, con due ricorsi della Regione Toscana, rispettivamente notificati il 12 novembre 2003 ed il 21 gennaio 2004, depositati in cancelleria il 21 novembre e il 29 gennaio successivi ed iscritti al n. 82 del registro ricorsi 2003 ed al n. 10 del registro ricorsi 2004, con due ricorsi della Regione Emilia-Romagna, rispettivamente notificati il 20 novembre 2003 e il 23 gennaio 2004, depositati in cancelleria il 26 novembre e il 29 gennaio successivi ed iscritti al n. 83 del registro ricorsi 2003 ed al n. 13 del registro ricorsi 2004, con due ricorsi della Regione Umbria, rispettivamente notificati il 25 novembre 2003 e il 23 gennaio 2004, depositati in cancelleria il 2 dicembre e il 29 gennaio successivi ed iscritti al n. 87 del registro ricorsi 2003 e al n. 11 del registro ricorsi 2004, con due ricorsi della Regione Friuli-Venezia Giulia, rispettivamente notificati il 27 novembre 2003 e il 22 gennaio 2004, depositati in cancelleria il 4 dicembre e il 30 gennaio successivi ed iscritti al n. 89 del registro ricorsi 2003 ed al n. 12 del registro ricorsi 2004, con un ricorso della Regione Basilicata, notificato il 1° dicembre 2003, depositato in cancelleria il 5 dicembre successivo ed iscritto al n. 90 del registro ricorsi 2003 e con un ricorso della Regione Lazio, notificato il 20 gennaio 2004, depositato in cancelleria il 23 gennaio successivo ed iscritto al n. 6 del registro ricorsi 2004.
Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri nonché gli atti di intervento del Comune di Salerno, del Comune di Ischia e del Comune di Lacco Ameno, dell'Associazione Italiana per il World Wide Fund For Nature (WWF) ONLUS e del CODACONS, del Comune di Roma;
udito nell'udienza pubblica dell'11 maggio 2004 il Giudice relatore Ugo De Siervo;
uditi gli avvocati Vincenzo Cocozza per la Regione Campania, Stefano Grassi per la Regione Marche, Lucia Bora e Fabio Lorenzoni per la Regione Toscana, Giandomenico Falcon per la Regione Emilia-Romagna, per la Regione Umbria e per la Regione Friuli-Venezia Giulia, Gennaro Terracciano per la Regione Basilicata, Pietro Pesacane per la Regione Lazio, Lorenzo Bruno Molinaro per il Comune di Ischia e per il Comune di Lacco Ameno, Antonio Brancaccio per il Comune di Salerno, Alessio Petretti per il World Wide Fund For Nature (WWF) ONLUS, Sebastiano Capotorto per il Comune di Roma, Nicolò Paoletti per il CODACONS e l'avvocato dello Stato Franco Favara per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. – Le Regioni Campania (con ricorso notificato il 17 ottobre 2003, depositato il 25 ottobre 2003 e iscritto al reg. ricorsi n. 76 del 2003), Marche (con ricorso notificato il 13 novembre 2003, depositato il 19 novembre 2003 e iscritto al reg. ricorsi n. 81 del 2003), Toscana (con ricorso notificato il 12 novembre 2003, depositato il 25 novembre 2003 e iscritto al reg. ric. 82 del 2003), Emilia-Romagna (con ricorso notificato il 20 novembre 2003, depositato il 26 novembre 2003 e iscritto al reg. ricorsi n. 83 del 2003), Umbria (con ricorso notificato il 25 novembre 2003, depositato il 2 dicembre 2003 e iscritto al reg. ricorsi n. 87 del 2003) e Friuli-Venezia Giulia (con ricorso notificato il 27 novembre 2003, depositato il 4 dicembre 2003 e iscritto al reg. ricorsi n. 89 del 2003) hanno impugnato l'art. 32 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell'andamento dei conti pubblici), ed in particolare i commi: 1, 2, 3, 5, 14-20; 25-31; 32 e seguenti (reg. ric. n. 76 del 2003); 1, 2, 3, 5, 6, 9, 10, 13, 14-20; 24-41 (reg. ric. n. 81 del 2003); 1, 3, 5, 6, 9, 10, 14-20; 24, 25-40 (reg. ric. n. 82 del 2003); 1, 2, 3, 4, 25, 26, lettera a), 28, 32, 35, 37, 38, 40, nonché l'Allegato 1 (reg. ric. nn. 83, 87 e 89 del 2003). La Regione Marche ha impugnato anche l'art. 32 citato nel suo complesso.
2. – Preliminarmente le ricorrenti evidenziano come – dopo la riapertura dei
termini del condono edilizio previsto dalla
legge 28 febbraio 1985, n. 47 (Norme
in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e
sanatoria delle opere edilizie), disposta per effetto dell'art. 39 della legge
23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica) –
l'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003 abbia nuovamente aperto detti termini,
riproponendo, con qualche modifica, le regole sostanziali e procedurali dei due
precedenti condoni edilizi, di modo che – sostiene la Regione Emilia-Romagna –
“sommando tutti i periodi, ne risulta che […] chiunque negli ultimi venti anni
abbia effettuato opere edilizie in spregio alle regole sostanziali e formali di
governo del territorio ha potuto o potrà trarre vantaggio dal proprio illecito”.
Sostengono le ricorrenti che il comma 2 della norma censurata dispone che la
normativa in questione è posta “nelle more dell'adeguamento della disciplina
regionale al testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in
materia edilizia, approvato con d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380”, e facendo
comunque “salve le competenze delle autonomie locali sul governo del
territorio”. Su tale base, alcune delle Regioni (ad esempio, la Regione Toscana)
sostengono che quanto appena evidenziato dovrebbe comportare l'inapplicabilità
del medesimo art. 32 nei territori di quelle Regioni che abbiano già provveduto
a dotarsi di una disciplina coerente con le linee guida fornite dallo Stato
mediante il citato testo unico. In tale evenienza verrebbe meno lo stesso motivo
di doglianza delle Regioni in questione. Le censure, viceversa, sono proposte
per il caso in cui si ritenesse che la prescrizione di cui al comma 2 citato non
valga ad escludere le Regioni che si sono già adeguate al disposto del testo
unico dall'ambito di applicabilità della disciplina impugnata. In relazione al
citato comma 2, la Regione Marche ritiene “del tutto formale e pretestuoso” il
richiamo compiuto da tale disposizione al testo unico dell'edilizia, in quanto
quest'ultimo “non ha innovato il sistema normativo, ma ha confermato e
riordinato i principi vigenti senza peraltro prevedere alcuna esigenza di
sanatoria”.
Il fulcro della disciplina oggetto delle doglianze regionali è contenuto nel
comma 25 dell'art. 32, il quale prevede che “le disposizioni di cui ai capi IV e
V della legge 28 febbraio 1985, n. 47, e successive modificazioni e
integrazioni, come ulteriormente modificate dall'articolo 39 della legge 23
dicembre 1994, n. 724, e successive modificazioni e integrazioni, nonché dal
presente articolo, si applicano alle opere abusive che risultino ultimate entro
il 31 marzo 2003 e che non abbiano comportato ampliamento del manufatto
superiore al 30 per cento della volumetria della costruzione originaria o, in
alternativa, un ampliamento superiore a 750 metri cubi”, e che “le suddette
disposizioni trovano altresì applicazione alle opere abusive realizzate nel
termine di cui sopra relative a nuove costruzioni residenziali non superiori a
750 metri cubi per singola richiesta di titolo abilitativo edilizio in
sanatoria”. Le ricorrenti riconoscono che il comma 3 dell'art. 32 afferma che
“le condizioni, i limiti e le modalità del rilascio del (…) titolo abilitativo
sono stabilite dal presente articolo e dalle normative regionali”, evidenziando
tuttavia come le minute e dettagliate disposizioni del medesimo art. 32 lascino
margini di manovra del tutto esigui alle autonomie regionali, per di più da
esercitare entro il termine temporale assai ristretto fissato dal comma 33.
In definitiva, gli spazi nei quali sarebbe ammesso l'intervento regionale
sarebbero:
a) l'aumento sino ad un massimo del 10 per cento della misura dell'oblazione;
b) l'incremento degli oneri di concessione sino ad un massimo del 100 per cento;
c) la individuazione delle modalità di attuazione della regola che consente a coloro che intendano eseguire in tutto o in parte le opere di urbanizzazione primaria di “detrarre dall'importo complessivo quanto già versato, a titolo di anticipazione degli oneri concessori”;
d) la possibilità di prevedere l'obbligo di allegare “ulteriore documentazione” alla domanda di condono;
e) la possibilità di consentire con proprie leggi la sanatoria degli abusi di minore gravità (restauro e risanamento conservativo, nonché la semplice manutenzione straordinaria), mentre per gli abusi più gravi non vi sarebbe alcun margine di scelta per le autonomie regionali.
3. – Con un primo gruppo di censure le Regioni lamentano la violazione dell'art.
117 della Costituzione.
In particolare, la Regione Marche sostiene che la
disciplina in esame dovrebbe essere collocata nell'ambito della materia
“edilizia”, la quale, non essendo “nominata” tra le materie dell'art. 117 Cost.,
ricadrebbe automaticamente nella competenza legislativa residuale delle Regioni.
Ciò basterebbe per ritenere costituzionalmente illegittime le disposizioni
impugnate, in quanto dettate in un ambito nel quale lo Stato non avrebbe alcuna
potestà legislativa. Anche a non voler considerare la disciplina dell'edilizia
come afferente ad una materia autonoma, secondo la Regione Marche, essa andrebbe
comunque collocata nell'ambito dell'urbanistica, la quale – dovendo essere
distinta, sulla base di quanto appena evidenziato, dal “governo del territorio”
– non potrebbe che essere considerata materia di competenza residuale delle
Regioni. Le conclusioni sarebbero dunque le medesime di quelle più sopra
richiamate, ossia la illegittimità costituzionale di qualunque normativa statale
in detto ambito materiale.
Analoghe sono le argomentazioni svolte dalla Regione Campania, la quale –
adducendo in termini meramente formali anche la violazione dell'art. 114 Cost. –
considera la normativa oggetto del presente giudizio ricadente nell'ambito
dell'urbanistica, e quindi afferente alla competenza residuale delle Regioni.
Quale ulteriore ipotesi interpretativa le Regioni Marche e Campania suggeriscono
la collocazione della disciplina impugnata nell'ambito della materia “governo
del territorio”, contemplata dall'art. 117, terzo comma, Cost. A tale
conclusione si giungerebbe considerando l'urbanistica – cui afferirebbe l'art.
32 del d.l. n. 269 del 2003 – non quale materia autonoma ma ricompresa in tale,
più ampia, qualificazione. A sostegno di tale impostazione viene richiamata la
sentenza di questa Corte n. 303 del 2003, nella quale si affermerebbe che la
disciplina dei titoli abilitativi alla edificazione rientrerebbe nell'ambito
dell'urbanistica, che a sua volta sarebbe compresa nel “governo del territorio”.
Anche collocandosi in tale ordine di idee, l'illegittimità costituzionale della
disciplina impugnata sarebbe del tutto evidente. Ciò in quanto, nell'ambito
della materia “governo del territorio”, lo Stato potrebbe porre solo norme
idonee ad esprimere principi fondamentali. E tali non potrebbero certo essere
considerate le norme che prevedono e regolano la sanatoria edilizia.
Le ricorrenti, infatti, evidenziano come la giurisprudenza costituzionale abbia
a più riprese sottolineato che principi fondamentali possono essere ritenuti
“solo i nuclei essenziali del contenuto normativo che quelle disposizioni
esprimono per i principi enunciati o da esse desumibili” e che, comunque, i
principi fondamentali devono essere caratterizzati da “un livello di maggior
astrattezza rispetto alle regole positivamente stabilite dal legislatore
regionale” (vengono richiamate al riguardo le sentenze di questa Corte n. 482
del 1995 e n. 65 del 2001).
La disciplina impugnata, invece, sarebbe senz'altro qualificabile come normativa
di dettaglio, contenendo una disciplina particolareggiata del procedimento di
rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria. Le ricorrenti ritengono,
in sintesi, che la normativa posta dalle disposizioni impugnate sia illegittima,
in quanto “minuziosa, dettagliata, autoapplicativa, direttamente operativa nei
confronti dei privati interessati, laddove, invece, i principi fondamentali
della materia dovrebbero essere rivolti al legislatore regionale che poi
dovrebbe articolare la normativa applicabile ai terzi interessati”. Né essa
sarebbe stata configurata come normativa cedevole rispetto alle leggi regionali.
Più in generale, secondo le ricorrenti, sarebbe la stessa idea di condono
edilizio a porsi irrimediabilmente in contrasto con la possibilità di
qualificare le norme che lo prevedono quali principi fondamentali della materia.
A questo riguardo le Regioni richiamano, tra le altre, le sentenze di questa
Corte n. 369 del 1988, n. 416 del 1995 e n. 427 del 1995. Da tali decisioni
emergerebbe con chiarezza come, secondo il giudice costituzionale, il condono
edilizio possa giustificarsi esclusivamente quale misura del tutto straordinaria
ed eccezionale, in quanto tale non reiterabile, e tale da dover trovare – per
poter essere ritenuto conforme a Costituzione – specifiche giustificazioni in
punto di ragionevolezza, le quali, pur se ritenute sussistenti nel caso dei
precedenti condoni, sarebbero del tutto assenti nel caso presente.
La correttezza di tali argomentazioni, peraltro, sarebbe corroborata – secondo
le ricorrenti – da quelle decisioni della Corte costituzionale le quali
evidenziano che, affinché si possa discorrere di principio fondamentale, è
necessario che la norma in questione esprima una consapevole scelta di politica
legislativa, o, quantomeno, sia in grado di orientare i futuri interventi
legislativi: ciò che, con tutta evidenza, mancherebbe nel caso della sanatoria.
Anzi, quest'ultima si porrebbe in contrasto con i principi fondamentali vigenti
nella materia in questione, travolgendoli senza appello, dal momento che tali
principi contemplerebbero, invece, proprio l'obbligo di perseguire e sanzionare
gli abusi, nonché la necessità di ridurre ed eliminare per quanto possibile le
conseguenze lesive di questi ultimi.
Né sarebbe possibile considerare la disciplina impugnata come espressione della
competenza statale concernente l'ordinamento penale. Al riguardo, la Regione
Emilia-Romagna ritiene che “l'irriducibilità del condono edilizio alla questione
penale [sia] già stata affermata [dalla Corte costituzionale] nel momento stesso
in cui essa ha dichiarato ammissibile il ricorso regionale avverso l'art. 39
della legge n. 724 del 1994”. In secondo luogo – espone la Regione – in
contestazione non è affatto l'esclusività del potere statale nel disporre del
“potere di clemenza in materia penale”; viceversa, ad essere oggetto di
contestazione “è che disponendo di ciò di cui lo Stato poteva disporre, lo Stato
abbia anche disposto di ciò di cui non poteva disporre, cioè della sanzionabilità in via amministrativa degli illeciti edilizi”. Secondo la Regione
Marche, nel caso di specie, lo Stato, utilizzando una norma penale di favore, in
realtà “disciplinerebbe procedimenti e norme sostanziali relative all'ordinato
assetto del territorio e al corretto esercizio delle attività edilizie,
determinando la violazione delle competenze in materia di governo del
territorio”.
Neanche in base alla norma costituzionale concernente il “coordinamento della
finanza pubblica” sarebbe possibile ritenere lo Stato legittimato a dettare
norme quali quelle impugnate. In primo luogo, non sarebbe giustificabile in base
a tale competenza “asservire” la materia urbanistica ed edilizia alle esigenze
finanziarie. In secondo luogo, in vista del coordinamento della finanza
pubblica, lo Stato potrebbe solo porre principi fondamentali; e la normativa
impugnata non sarebbe in alcun modo classificabile quale determinazione di
principi fondamentali.
4. – Diverse sono le argomentazioni svolte dalla Regione Friuli-Venezia Giulia,
in considerazione dei caratteri di specialità che contraddistinguono il suo
regime di autonomia.
In particolare, la ricorrente afferma di essere dotata – ai sensi dell'art. 14,
numero 12, della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale
della Regione Friuli-Venezia Giulia) – di competenza legislativa esclusiva in
materia urbanistica, ossia nella materia in cui ricadrebbe la disciplina posta
dalle disposizioni impugnate. Quanto alle funzioni amministrative connesse, esse
spetterebbero alla Regione in virtù dell'art. 8 dello Statuto, e sarebbero state
ad essa trasferite dall'art. 27 del d.P.R. 25 novembre 1975, n. 902 (Adeguamento
ed integrazione delle norme di attuazione dello statuto speciale della Regione
Friuli-Venezia Giulia). Quanto alla normativa regionale, la ricorrente espone di
aver fatto uso della propria potestà primaria con la legge regionale 19 novembre
1991, n. 52 (Norme regionali in materia di pianificazione territoriale ed
urbanistica).
La Regione Friuli-Venezia Giulia ritiene, nel proprio ricorso, essenzialmente
ambigua la clausola che dispone la salvezza delle attribuzioni previste dagli
Statuti per le Regioni ad autonomia speciale. In particolare, dal comma 4
dell'art. 32 – nel quale è contenuta tale clausola – non sarebbe possibile
desumere con chiarezza la applicabilità o meno della normativa dettata con le
disposizioni oggetto del presente giudizio. Nel ricorso si evidenzia che, ove si
ritenesse di interpretare il citato comma 4 nel senso di escludere la
applicabilità dell'art. 32 del d.l. n. 269 alle Regioni speciali, le doglianze
esposte nello stesso ricorso “verrebbero meno”.
Ad avviso della Regione Friuli-Venezia Giulia, stante la propria potestà
legislativa primaria nella materia sulla quale insiste la disciplina impugnata,
potrebbero vincolare legittimamente l'autonomia regionale esclusivamente la
Costituzione, i principi generali dell'ordinamento giuridico e le norme
fondamentali di grande riforma economico-sociale. Tra queste, secondo la
ricorrente, non potrebbe certo essere annoverata la previsione di un condono
edilizio. Quest'ultimo, infatti, sarebbe incompatibile sia con il concetto di
riforma che con quello di norma fondamentale.
5. – Tutte le ricorrenti censurano la disciplina impugnata anche per violazione dell'art. 118 Cost.; in particolare, le Regioni Campania, Marche e Toscana affermano che ciò deriverebbe dal fatto che la disciplina del condono edilizio determinerebbe la vanificazione degli interventi di pianificazione e controllo locale, nonché la necessità di apprestare appositi strumenti urbanistici e soluzioni di governo del territorio che tengano conto delle conseguenze della disciplina statale impugnata, cosicché le Regioni e gli enti locali sarebbero costretti a subire anziché governare le destinazioni urbanistiche del territorio.
6. – In subordine, la Regione Campania sostiene che la normativa impugnata sarebbe illegittima anche perché – ove la si volesse ritenere idonea ad esprimere principi fondamentali – questi ultimi non potrebbero essere posti mediante un decreto-legge. Il decreto-legge, in altre parole, in quanto giustificato esclusivamente dall'esistenza della straordinaria necessità ed urgenza di provvedere, non sarebbe costituzionalmente legittimo ove prevedesse principi fondamentali, dal momento che la struttura normativa dei principi non sarebbe idonea a perseguire obiettivi con assoluta urgenza. In questa prospettiva, risulterebbe dunque violato l'art. 77 Cost., dal momento che difetterebbero i presupposti costituzionali per l'esercizio della decretazione d'urgenza (il che, in tesi, è sostenuto anche dalla Regione Marche, secondo la quale l'esistenza dell'urgenza sarebbe smentita dalle modalità e dai tempi di attuazione della stessa disciplina). Ancora, secondo la Regione Campania, l'art. 32 impugnato sarebbe incostituzionale in quanto il decreto-legge nel quale è contenuto difetterebbe del requisito, costituzionalmente necessario, della omogeneità del contenuto.
7. – Altro motivo di doglianza esposto nei ricorsi regionali è la pretesa
violazione dell'autonomia organizzativa, nonché dell'art. 119 Cost. e
dell'autonomia finanziaria delle Regioni e degli enti locali in esso
contemplata.
Il condono edilizio – evidenziano le Regioni – è disposto in vista di esigenze
finanziarie del bilancio statale, ma comporta spese particolarmente ingenti, e
di vario genere, a carico delle finanze delle autonomie territoriali, a fronte
di una compartecipazione al gettito delle operazioni di condono che risulterebbe
decisamente esigua.
Tali spese sarebbero – come nota la Regione Campania – presumibilmente superiori
a quanto lo stesso condono è in grado di far recuperare all'erario statale e
sarebbero individuabili, in primo luogo, nelle risorse necessarie allo
svolgimento delle attività amministrative finalizzate alla attuazione della
normativa impugnata, che è demandata alle amministrazioni regionali e locali. In
secondo luogo, l'autonomia finanziaria sarebbe violata anche perché sarebbe
necessario – nel caso in cui venissero concessi titoli di abilitazione a
edificare in sanatoria – procedere alla realizzazione di opere di urbanizzazione
primaria e secondaria, il cui costo peserebbe non poco sui bilanci delle
autonomie territoriali.
8. – Secondo la Regione Marche, inoltre, le disposizioni impugnate violerebbero il principio di tassatività e certezza delle norme penali sancito dall'art. 25 Cost. Ciò in quanto la reiterazione con cadenza novennale della sanatoria edilizia implicherebbe “non solo la lesione del principio di legalità”, ma lederebbe “soprattutto la fiducia dei cittadini nella effettiva capacità degli organi pubblici di garantire il rispetto dei valori costituzionali coinvolti nella disciplina urbanistica ed edilizia”.
9. – L'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003 contrasterebbe, altresì, con il
principio di eguaglianza.
Infatti, la disciplina in esame, riaprendo ed estendendo i termini del condono,
introdurrebbe un sistema di sfavore nei confronti di coloro che, rispettando la
normativa, non hanno costruito perché privi del titolo abilitativo, dovendo
subire però le conseguenze in termini di degrado urbanistico del condono. Tale
normativa, in primo luogo, ingiustamente tratterebbe in modo uguale situazioni
diverse, ossia quella di chi ha costruito in base ad un titolo legittimo e
quella di chi ha costruito abusivamente; in secondo luogo, altrettanto
ingiustamente, non consentirebbe “di riportare ad uguaglianza, attraverso la
sanzione, chi si è astenuto da comportamenti illeciti e chi illecitamente li ha
compiuti”.
Ancora, secondo le ricorrenti, sarebbe irrimediabilmente violato il principio di
ragionevolezza.
Come statuito da questa Corte con la sentenza n. 416 del 1995, la previsione di
un provvedimento di condono deve essere considerata costituzionalmente legittima
solo a patto di essere del tutto straordinaria ed eccezionale, e di essere
giustificata da situazioni altrettanto straordinarie ed eccezionali. Viceversa,
una ulteriore reiterazione del condono edilizio farebbe venir meno tali
caratteri, e costituirebbe una indubbia violazione dei parametri costituzionali,
secondo quanto affermato esplicitamente nella sentenza richiamata.
Dunque, per le Regioni ricorrenti, la illegittimità costituzionale delle
disposizioni impugnate dipenderebbe già semplicemente – alla luce della citata
giurisprudenza costituzionale – dalla circostanza che esse pongono in essere una
reiterazione del condono; in secondo luogo, nel caso in questione mancherebbero
del tutto quelle circostanze eccezionali che, nelle precedenti situazioni, hanno
portato la Corte costituzionale a ritenere giustificata la sanatoria. Inoltre,
si afferma che se i precedenti condoni trovavano una giustificazione
costituzionale nelle carenze legislative e gestionali delle Regioni e degli enti
locali, oggi ciò non sarebbe più vero, poiché le Regioni si sarebbero ormai
dotate degli strumenti normativi ed amministrativi necessari al fine di
reprimere e sanzionare gli episodi di illegalità, ed avrebbero in concreto
intrapreso con incisività l'attività di controllo.
Il principio di ragionevolezza, peraltro, secondo la Regione Campania, sarebbe
violato anche per il fatto che la normativa introdotta dall'impugnato art. 32
inciderebbe in modo significativo su numerosi principi costituzionali senza però
riuscire a perseguire adeguatamente l'obiettivo per il quale essa è stata posta.
Ciò sarebbe vero innanzi tutto in relazione all'obiettivo “dichiarato”,
desumibile dal comma 2 dell'art. 32, in quanto “non si riesce in alcun modo a
comprendere in qual maniera si possa collegare questa terza sanatoria edilizia
con una eventuale, già intervenuta, modifica legislativa di settore”; né sarebbe
comprensibile “il rapporto tra questa disciplina e la successiva di livello
regionale”.
La Regione Campania, peraltro, evidenzia come il fine esclusivo
della disciplina impugnata sia quello di “recuperare gettito all'erario”: ma
anche in relazione a tale fine lo strumento del condono sarebbe del tutto
inadeguato – e quindi viziato da irragionevolezza – in quanto non terrebbe conto
“degli effetti ulteriori e deleteri” determinati a carico degli enti
territoriali, i quali “dovranno far fronte a spese per l'urbanizzazione e il
recupero ambientale”. Spese che – si prosegue – solo in modo molto limitato
potranno essere coperte dagli oneri di urbanizzazione a carico di coloro che si
avvantaggeranno della sanatoria.
Quanto detto, peraltro, secondo le ricorrenti, renderebbe palese anche la
violazione di altri parametri costituzionali. In particolare, risulterebbero
violati il principio di imparzialità dei pubblici poteri, nonché il principio di
buon andamento dell'amministrazione. Tale principio, infatti, sarebbe frustrato
dalla inanità degli sforzi compiuti dalle amministrazioni locali al fine di
reprimere l'abusivismo.
10. – Altro parametro che secondo le ricorrenti sarebbe violato dalla normativa
oggetto del giudizio è l'art. 9 Cost., nonché, secondo la Regione Campania, la
competenza regionale in tema di valorizzazione dei beni ambientali e, secondo la
Regione Emilia, il principio costituzionale di indisponibilità dei valori
costituzionalmente tutelati. Tra questi rientrerebbe sicuramente “l'ordinato
assetto del territorio”, il quale non potrebbe “essere scambiato con valori
puramente finanziari”, come invece avviene nel caso della sanatoria edilizia. Da
questo punto di vista, ben diversa sarebbe la situazione del condono edilizio
rispetto al condono fiscale, dal momento che in quest'ultimo caso lo Stato
“rinuncia ad una pretesa economica in vista di una diversa, e sia pure più
ridotta, pretesa economica: sicché la questione acquista, nel suo oggetto
specifico, un connotato quasi di transazione ordinaria in relazione ad una lite
patrimoniale”. Viceversa, il condono edilizio finirebbe per sacrificare ad un
interesse economico “beni e interessi indisponibili e costituzionalmente
tutelati della comunità”.
Similmente, la Regione Marche censura la norma impugnata anche con riferimento
agli artt. 9, 32, 41 e 42 Cost., dal momento che la sanatoria prevista dalla
disciplina impugnata inciderebbe negativamente nei confronti di valori
costituzionali che tutti i livelli di governo – e in particolare le Regioni –
hanno il diritto-dovere di tutelare nella loro effettività: i valori
paesistico-ambientali, il valore della salute, il valore del corretto e ordinato
svolgimento dell'attività imprenditoriale in materia edilizia, la tutela del
diritto di proprietà.
In relazione a tali parametri costituzionali, nonché a tutti i parametri
invocati che risultino diversi da quelli che specificamente presiedono al
riparto di competenze tra Stato e Regioni, le ricorrenti sostengono la
sussistenza del proprio interesse a dedurne in giudizio la violazione. Ciò in
quanto i vizi di costituzionalità derivanti da tali violazioni si tradurrebbero
automaticamente in un danno alla sfera di competenza delle Regioni, che
vedrebbero irrimediabilmente frustrata la propria attività legislativa ed
amministrativa di governo del territorio, dal momento che gli abusi futuri
potrebbero sfuggire alle sanzioni amministrative risultando così incentivati.
11. – Ancora, a risultare violato – a giudizio delle Regioni – sarebbe il
principio di leale collaborazione tra i diversi livelli di governo, dal momento
che né in sede di adozione del decreto-legge, né in sede di adozione del disegno
di legge di conversione, le autonomie regionali sono state consultate attraverso
la Conferenza Stato-Regioni. In particolare, sarebbe stato contraddetto l'art. 2
del d.lgs. 28 agosto 1997, n. 281 (Definizione e ampliamento delle attribuzioni
della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le
province autonome di Trento e Bolzano ed unificazione, per le materie ed i
compiti di interesse comune delle regioni, delle province e dei comuni, con la
Conferenza Stato-città ed autonomie locali), il quale prevede che la Conferenza
debba obbligatoriamente essere sentita “in ordine agli schemi di disegni di
legge e di decreto legislativo o di regolamento del Governo nelle materie di
competenza delle regioni o delle province autonome di Trento e di Bolzano”.
D'altra parte, il contrasto con le prescrizioni del d.lgs. n. 281 del 1997
sarebbe evidente anche ove si reputasse che nel caso in questione la Conferenza
non dovesse essere sentita preventivamente, a causa dell'urgenza di provvedere:
in situazioni similari, infatti, l'art. 2, comma 5, del citato decreto
legislativo prevede la consultazione successiva della Conferenza, e dispone che
“il Governo tiene conto dei suoi pareri: a) in sede di esame parlamentare dei
disegni di legge o delle leggi di conversione dei decreti-legge”. Quindi, anche
in caso di urgenza, il coinvolgimento della Conferenza – secondo le ricorrenti –
non sarebbe potuto mancare.
Ad ulteriore sostegno delle argomentazioni appena richiamate, la Regione
Emilia-Romagna ritiene che dall'art. 11 della legge costituzionale 18 ottobre
2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione)
sarebbe desumibile – pur in assenza dell'attivazione della “speciale
composizione integrata della Commissione parlamentare per le questioni
regionali” in esso prevista – l'esistenza di un principio costituzionale che
prescrive “la partecipazione regionale al procedimento legislativo delle leggi
statali ordinarie, quando queste intervengono in materia di competenza
concorrente”.
12. – Secondo la Regione Campania, inoltre, a risultare travolto per effetto della normativa impugnata sarebbe lo stesso giudicato costituzionale; in particolare, sarebbero state violate le sentenze di questa Corte n. 427 del 1995, n. 416 del 1995, n. 231 del 1993, n. 369 del 1988 e n. 302 del 1988, concernenti i precedenti condoni edilizi. Con tali decisioni, infatti, il giudice costituzionale avrebbe chiaramente riconosciuto al regime di sanatoria carattere episodico, delimitandolo temporalmente, pena la illegittimità costituzionale.
13. – Le Regioni ricorrenti, in subordine, per il caso in cui le censure appena
illustrate fossero ritenute infondate, prospettano alcune doglianze rivolte nei
confronti di specifiche disposizioni dell'art. 32 impugnato.
In particolare, viene dedotta anzitutto l'illegittimità costituzionale del comma
26, lettera a), nella parte in cui subordina alla legge regionale la sanabilità
degli abusi minori in zone non vincolate, mentre sottrae alla decisione
regionale gli abusi maggiori e gli abusi minori in zone vincolate. Ciò
determinerebbe la evidente violazione dei principi di eguaglianza e
ragionevolezza, nonché, in via mediata, degli artt. 117 e 118 Cost.
Ancora, incostituzionale sarebbe il comma 25, “in quanto non eccettua dal
condono gli abusi per i quali il procedimento sanzionatorio sia già iniziato”
(così la Regione Emilia-Romagna). La illegittimità costituzionale dipenderebbe
dal fatto che in casi di questo tipo la possibilità del condono risulterebbe
“ancor più irragionevole”, in quanto il condono edilizio non porterebbe nessun
vantaggio al pubblico interesse, né – ovviamente – in termini di “uscita allo
scoperto” di situazioni di illegalità, né in termini economici.
Incostituzionali sarebbero, altresì, i commi 3, 25, 26, lettera a), 28, 32, 35,
lettere b) e c), 37, 38 e 40, nonché l'Allegato 1, in quanto – con disciplina
dettagliata ed autoapplicativa – stabiliscono le modalità, i termini e le
procedure relative al condono edilizio, così violando l'art. 117 Cost. La
competenza dello Stato a dettare norme non cedevoli non sarebbe giustificata,
nel caso di specie, né dall'art. 117, secondo comma, Cost., né dall'attrazione
di funzioni amministrative allo Stato in base all'art. 118, Cost.
Le Regioni censurano inoltre i commi 25 e 35 per violazione del principio di
ragionevolezza, dal momento che, estendendo il condono agli abusi compiuti sino
a sei mesi prima dell'entrata in vigore del decreto-legge impugnato,
renderebbero particolarmente difficile distinguere le opere ultimate da quelle
non ultimate, complicando notevolmente l'attività di vigilanza amministrativa.
Peraltro, tale norma – collegata al disposto del comma 35 in forza del quale è
sufficiente, ove l'opera abusiva non superi i 450 metri cubi, una
autocertificazione per la prova dello “stato dei lavori” – consentirebbe di far
passare per già costruite opere in corso di costruzione. Il comma 25 non
andrebbe esente da censure di incostituzionalità anche da un differente punto di
vista: esso sarebbe infatti lesivo degli artt. 3, 9, 97, 117 e 118 Cost., nella
parte in cui prevede un limite di volume (750 metri cubi) per ogni singola
richiesta di sanatoria, senza però precisare che non sono ammesse più richieste
riferite alla medesima area.
Costituzionalmente illegittimo sarebbe inoltre il comma 37, nella parte in cui
prevede la formazione del silenzio-assenso nei confronti delle istanze di
sanatoria, dal momento che sarebbe palese la irragionevolezza di una norma che
sana gli abusi in virtù del solo decorso del tempo. La norma, inoltre,
contrasterebbe con gli artt. 9, 97, 117 e 118 Cost. (e con gli artt. 4 e 8 dello
Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia), perché renderebbe
eventuale il controllo dei Comuni sull'ammissibilità delle domande di condono,
ledendo altresì le competenze regionali in materia di governo del territorio.
Secondo le ricorrenti, andrebbero dichiarati incostituzionali anche i commi da
14 a 20 ed il comma 24, i quali disciplinano la sanatoria degli abusi commessi
sulle aree di proprietà statale, facendola dipendere unicamente dalla volontà e
dalla decisione dello Stato proprietario, senza dare “alcuna rilevanza a quanto
in merito stabilito dal legislatore regionale, cui, invece, l'art. 117 Cost.
affida la competenza a disciplinare l'ammissibilità urbanistica degli interventi
anche sulle aree di proprietà dello Stato” (in questi termini la Regione
Toscana). Le norme in parola violerebbero altresì gli artt. 118 e 119 Cost.,
perché la decisione sulla ammissibilità della sanatoria verrebbe riservata al
soggetto proprietario dell'area, senza possibilità di contraddittorio con gli
enti locali interessati e in assenza di una previa intesa con le Regioni.
Specifiche censure sono rivolte anche nei confronti del comma 6, il quale affida
al Ministro delle infrastrutture l'individuazione degli interventi da ammettere
a finanziamento tra quelli di riqualificazione urbanistica attivati dalle
Regioni previo parere della Conferenza unificata. Tale disposizione sarebbe
incostituzionale, nella prospettazione delle ricorrenti, perché in una materia
regionale determinerebbe la avocazione di funzioni amministrative al centro
senza prevedere, come richiesto dalla sentenza n. 303 del 2003, l'intesa con la
Regione interessata; essa contrasterebbe, peraltro, anche con l'art. 119 Cost.,
il quale non ammette finanziamenti vincolati alla realizzazione di interventi
scelti dal Ministro. Incostituzionali, infine, sarebbero i commi 9 e 10, per
ragioni analoghe a quelle appena illustrate.
14. – Le Regioni Campania, Marche, Toscana ed Emilia-Romagna (quest'ultima con atto separato, notificato il 9 febbraio 2004 e depositato il 10 febbraio 2004) hanno formulato istanza di sospensione in via cautelare dell'atto impugnato, ritenendo sussistenti le condizioni previste dall'art. 35 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), come sostituito dall'art. 9 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3). In particolare, vi sarebbe il rischio di un pregiudizio irreparabile all'interesse pubblico, in quanto in caso contrario si dovrebbe dar luogo alla attivazione delle procedure di condono da parte dei Comuni, con notevoli spese per far fronte all'organizzazione dell'attività. Peraltro, ulteriore danno deriverebbe dal fatto che – come insegnerebbe la passata esperienza – provvedimenti legislativi del tipo di quello impugnato, “producendo nella società una notevole aspettativa di sanatoria, inevitabilmente [determinerebbero] un aumento vertiginoso […] dei fenomeni di abusivismo” (così la Regione Campania). Tutto ciò quando, invece, l'eventuale sospensione dell'efficacia dell'atto impugnato non comporterebbe alcuna conseguenza dannosa.
15. – In tutti i giudizi si è costituito il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato,
contestando i singoli motivi che i ricorsi pongono a fondamento della richiesta
declaratoria di incostituzionalità.
Infondata sarebbe la violazione dell'art. 77 Cost., dal momento che la
sussistenza dei presupposti di straordinaria necessità ed urgenza formerebbe
oggetto di una valutazione “rimessa a ciascuna Camera”, e comunque la loro
eventuale mancanza sarebbe destinata ad essere sanata per effetto della
conversione in legge. In ogni caso, tale doglianza sarebbe inammissibile in
quanto non sarebbe ravvisabile alcun interesse delle Regioni a farla valere.
Peraltro, la situazione di straordinaria necessità ed urgenza sarebbe in
concreto ravvisabile nella finalità dell'art. 32 in esame di “supportare la
manovra annuale finanziaria e di bilancio attraverso gli introiti del condono
edilizio”.
Quanto alle censure concernenti la presunta violazione del riparto di competenze
legislative costituzionalmente garantito, l'Avvocatura dello Stato ritiene che
il titolo abilitativo dell'intervento statale, nel caso de quo, sarebbe
ravvisabile nell'art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., riguardante
l'ordinamento penale, nonché, “seppur indirettamente”, nella competenza
legislativa statale in materia di ordinamento civile. Ciò in quanto la sanatoria
edilizia sarebbe “rilevante in occasione delle compravendite immobiliari”.
Ancora, titolo di intervento statale sarebbe ravvisabile nell'art. 81 Cost. e
nell'art. 119 Cost., in quanto “essenziale dovere costituzionale dello Stato è
assicurare a se stesso e agli enti a finanza derivata le risorse occorrenti”.
Del resto, secondo l'Avvocatura, sarebbe infondata la pretesa di alcune delle
ricorrenti di ricondurre la normativa in esame all'edilizia o all'urbanistica, e
dunque al quarto comma dell'art. 117 Cost. Se peraltro si volesse considerare
l'art. 32 in questione insistente nella materia “governo del territorio”,
egualmente le doglianze regionali dovrebbero essere respinte, giacché la
disciplina dei titoli abilitativi è stata riconosciuta spettare allo Stato dalla
sentenza n. 303 del 2003, in quanto relativa alla competenza statale a dettare i
principi fondamentali della materia.
La normativa in esame, inoltre, sfuggirebbe anche alle censure che ne denunciano
la natura “di dettaglio” anziché “di principio”, poiché “esigenze
tecnico-giuridiche impongono una normazione esaustiva, self executing, unitaria
per l'intero territorio nazionale, e […] idonea a confluire nell'ordinamento
penale”.
La pretesa lesione dell'art. 9 Cost. sarebbe anch'essa infondata, dal momento
che la normativa in esame conterrebbe l'indicazione di una serie di tipi di
opere abusive non suscettibili di essere sanate, proprio in considerazione del
valore in tale articolo cristallizzato.
Le censure concernenti gli artt. 32, 41 e 97 Cost., mosse dalla Regione Marche,
sarebbero inammissibili, in quanto non argomentate. Analogo discorso dovrebbe
farsi per la dedotta violazione dell'art. 25, secondo comma, Cost., il quale
peraltro opererebbe “a senso unico”, posto che esso non escluderebbe la
costituzionalità di norme che eliminino la rilevanza penale di determinati
fatti.
In relazione al preteso contrasto con il principio di eguaglianza, l'Avvocatura
osserva che, al fine di poter ritenere sussistente la violazione dell'art. 3
Cost., è necessario che la comparazione compiuta nella relativa doglianza sia
“non diacronica” e sia possibile “tra situazioni uguali o almeno confrontabili”:
cosa questa che non accadrebbe nel caso di specie.
Quanto alle spese per l'urbanizzazione cui dovrebbero far fronte gli enti
territoriali, l'Avvocatura osserva, in primo luogo, che si tratterebbe di una
doglianza “attinente alla convenienza politico-economica”, e quindi
inammissibile; in secondo luogo, tale censura sarebbe comunque infondata, in
quanto le Regioni potrebbero far fronte a tali spese aumentando fino al 100 per
cento gli oneri di concessione relativi alle opere abusive oggetto di sanatoria.
Del resto, secondo la difesa erariale, sarebbe inammissibile la doglianza in
questione nella parte in cui intendesse far valere un preteso squilibrio
finanziario degli enti locali, non rappresentati dalle Regioni.
Quanto alla coerenza del condono con il disposto della sentenza n. 416 del 1995,
l'Avvocatura dello Stato osserva come “eccezionalità e straordinarietà si
ripropongono ora, a distanza di dieci anni, ove si consideri la persistenza del
fenomeno dell'abusivismo, con conseguente indefettibile esigenza di recupero
della legalità”.
La richiesta di sospensione avanzata dalle ricorrenti, secondo l'Avvocatura,
sarebbe del tutto inammissibile, in quanto l'atto impugnato “non è un
provvedimento amministrativo”, e comunque non sussisterebbero le condizioni
previste dall'art. 35 della legge n. 87 del 1953, come sostituito dall'art. 9
della legge n. 131 del 2003.
16. – Con atto depositato il 27 novembre 2003 il Comune di Salerno è intervenuto
ad adiuvandum nel giudizio concernente il decreto-legge n. 269 del 2003 promosso
con il ricorso della Regione Campania. Il Comune espone innanzi tutto di essere
dotato di competenze costituzionalmente garantite – in virtù dell'art. 118 Cost.,
così come riformato dalla legge costituzionale n. 3 del 2001 – inerenti
l'esercizio di tutte le funzioni amministrative non espressamente conferite ad
enti “superiori”. Tra tali funzioni rientrerebbe anche quella di “pianificazione
del territorio”, a mezzo del piano regolatore generale. Ciò basta al Comune
interveniente per affermare che “l'ennesimo condono edilizio […] pregiudica […]
gli interessi pubblici primari perseguiti” dallo stesso in ordine “alla tutela
dell'ambiente, del paesaggio e del corretto sviluppo del territorio”.
Il Comune di Salerno propone poi argomentazioni a sostegno delle censure
prospettate dalla Regione Campania, per vero spesso coincidenti con quelle
contenute nel ricorso di quest'ultima.
17. – Hanno presentato atto di intervento ad opponendum, depositato per entrambi in data 3 marzo 2004, il Comune di Ischia e il Comune di Lacco Ameno, anch'essi nel giudizio introdotto con il ricorso della Regione Campania. Tali Comuni, con deduzioni sostanzialmente identiche, dopo aver affermato la propria legittimazione ad intervenire in virtù di una “posizione individualizzata” in relazione alla normativa impugnata, nonché in virtù della qualità di “destinatari” di quest'ultima, argomentano nel senso della declaratoria di infondatezza del ricorso, “previa reiezione” dell'istanza di sospensione cautelare.
18. – Con atti depositati rispettivamente il 3 febbraio 2004 e 13 gennaio 2004
il CODACONS – Coordinamento delle Associazioni e dei Comitati per la tutela dei
consumatori e dell'ambiente è intervenuto ad adiuvandum nei giudizi aventi ad
oggetto il d.l. n. 269 del 2003 promossi con i ricorsi della Regione
Emilia-Romagna e della Regione Toscana.
Quanto alla propria legittimazione ad intervenire in giudizio, il CODACONS
ritiene che questa derivi, da un lato, dalla circostanza secondo la quale il
perseguimento di obiettivi di tutela ambientale e sanitaria è previsto dal
proprio statuto; dall'altro, dal fatto che svariati atti normativi riconoscono
allo stesso CODACONS la legittimazione ad agire in giudizio a tutela degli
interessi diffusi di rango costituzionale dei quali è portatore.
Nel merito, il CODACONS espone argomentazioni a sostegno delle doglianze
proposte dalla Regione Emilia-Romagna, tali peraltro da coincidere spesso con
quelle contenute nel ricorso di quest'ultima.
19. – Anche il Comune di Roma, con atto depositato il 2 febbraio 2004, è
intervenuto ad adiuvandum nel giudizio promosso dalla Regione Umbria avverso il
d.l. n. 269 del 2003, chiedendo l'accoglimento delle questioni di legittimità
costituzionale sollevate nel ricorso.
Preliminarmente, a sostegno della ammissibilità del proprio intervento, il
Comune sostiene che le competenze normative riconosciute ai Comuni dagli artt.
117, sesto comma, e 118 Cost. renderebbero gli enti locali titolari di interessi
costituzionalmente qualificati che li legittimerebbero ad agire avanti alla
Corte a tutela di tali interessi.
Nel merito, l'interveniente ritiene che un nuovo ed esteso condono incida
negativamente sulle capacità normative e sulle funzioni amministrative dell'ente
locale, azzerandone il ruolo, oltre ad “alterare” il principio della
legislazione concorrente.
20. – La Regione Marche (con ricorso notificato il 21 gennaio 2004, depositato
il 26 gennaio 2004 e iscritto al reg. ricorsi n. 8 del 2004), ha sollevato
questioni di legittimità costituzionale anche nei confronti della legge 24
novembre 2003, n. 326 (Conversione in legge, con modificazioni, del
decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, recante disposizioni urgenti per
favorire lo sviluppo e per la correzione dell'andamento dei conti pubblici); in
particolare, la ricorrente impugna l'art. 32 del decreto-legge, così come
convertito dalla legge sopra indicata, nel suo complesso, nonché, più
specificamente, i commi 1, 2, 3, 5, 6, 9, 10, 13, 14-20; 24-41.
La Regione Toscana (con ricorso notificato il 21 gennaio 2004, depositato il 29
gennaio 2004 e iscritto al reg. ricorsi n. 10 del 2004), ha impugnato i commi 1,
3, 5, 14-20; 25-43 e 49-ter, mentre la Regione Emilia-Romagna (con ricorso
notificato il 23 gennaio 2004, depositato il 29 gennaio 2004 e iscritto al reg.
ricorsi n. 13 del 2004) ha impugnato i commi 1, 2, 3, 25, 26, lettera a), 28,
32, 35, 37, 38, 40, e l'Allegato 1.
La Regione Campania (con ricorso notificato il 22 gennaio 2004, depositato il 30
gennaio 2004 e iscritto al reg. ricorsi n. 14 del 2004) ha invece sollevato
questioni di legittimità costituzionale sia nei confronti dell'art. 32 del d.l.
n. 269 del 2003, così come convertito dalla legge n. 326 del 2003, nel suo
complesso, sia specificamente con riguardo ai commi 1, 2, 3, 5, 14-20, 25-50.
Peraltro, la Regione Toscana ha proposto impugnazione anche dell'art. 14 del
decreto-legge in questione, così come risultante dalla conversione in legge, il
quale introduce modifiche in tema di servizi pubblici locali di rilevanza
economica; la Regione Emilia-Romagna contesta la legittimità costituzionale
anche dell'art. 21 del medesimo atto normativo (concernente l'assegno per ogni
secondo figlio e l'incremento del fondo nazionale politiche sociali), nonché
dell'art. 32, commi 21 e 22 (sull'aumento dei canoni per le concessioni d'uso
del demanio marittimo per finalità turistico-ricreative); la Regione Campania
invece coinvolge nell'impugnativa, in ambedue i suoi ricorsi, i commi 21-23 del
citato art. 32.
Hanno sollevato questione sull'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003, nel testo
risultante dalla conversione in legge, anche la Regione Lazio (con ricorso
notificato il 20 gennaio 2004, depositato il 23 gennaio 2004 e iscritto al reg.
ricorsi n. 6 del 2004), la Regione Umbria (con ricorso notificato il 23 gennaio
2004, depositato il 29 gennaio 2004 e iscritto al reg. ricorsi n. 11 del 2004),
la Regione Friuli-Venezia Giulia (con ricorso notificato il 23 gennaio 2004,
depositato il 29 gennaio 2004 e iscritto al reg. ricorsi n. 12 del 2004) e la
Regione Basilicata (con ricorso notificato il 1° dicembre 2003, depositato il 5
dicembre 2003 e iscritto al reg. ricorsi n. 90 del 2003). Da evidenziare,
peraltro, che tale ultima Regione ha impugnato congiuntamente sia il
decreto-legge che la legge di conversione.
In particolare, la Regione Lazio – nel ricorso notificato solo all'Avvocatura
dello Stato e non anche al Presidente del Consiglio dei ministri – impugna i
commi 1, 2, 3, 9, 14-23; 25, 26, 32-38; 41 e 42 dell'art. 32 così come
risultante a seguito della conversione; le Regioni Umbria e Friuli-Venezia
Giulia impugnano i commi 1, 2, 3, 4, 25, 26, lettera a), 28, 32, 35, 37, 38, 40
e l'Allegato 1, mentre la Regione Basilicata rivolge le proprie censure in
generale nei confronti dell'intero art. 32.
21. – Tutti i ricorsi ripropongono sostanzialmente le censure già prospettate
nelle impugnazioni dell'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003 nel testo originario,
tenendo tuttavia conto sia delle modifiche introdotte in sede di conversione,
sia della abrogazione – per effetto della legge 24 dicembre 2003, n. 350
(Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato –
Legge finanziaria 2004) – dei commi 6, 9, 11, e 24.
I ricorsi espongono innanzi tutto doglianze di carattere generale, fondate
sull'assunto secondo il quale il difetto dei presupposti di necessità ed urgenza
– che contraddistingueva, secondo la prospettazione delle ricorrenti, il d.l. n.
269 del 2003 – si estenderebbe, quale vizio in procedendo, anche alla legge di
conversione, con conseguente violazione dell'art. 77 Cost.
Ancora, secondo la Regione Marche sarebbe violato anche l'art. 79 Cost., in
quanto il provvedimento impugnato costituirebbe, nella sostanza, una vera e
propria amnistia, adottata senza percorrere le vie del procedimento aggravato
previsto dalla citata disposizione costituzionale.
Inoltre, secondo le ricorrenti, dalla normativa risultante dalle modifiche
operate in sede di conversione e derivanti dalle abrogazioni disposte dalla
legge finanziaria per il 2004, emergerebbe chiaramente che sarebbe rimasto
soltanto il condono edilizio, mentre sarebbero stati abrogati i fondi per la
riqualificazione urbanistica e ambientale, pur ritenuti evidentemente
insufficienti dalle Regioni. Ciò renderebbe palese, secondo la Regione
Emilia-Romagna, “la irragionevolezza e la scarsa attendibilità del meccanismo
congegnato attraverso le varie disposizioni di cui all'art. 32, per realizzare
finalità di reale e credibile intento di riqualificazione del territorio”.
La Regione Friuli-Venezia Giulia propone argomentazioni sostanzialmente
coincidenti con quelle svolte in occasione dell'impugnazione, da parte di questa
Regione, del d.l. n. 269 del 2003.
La Regione Lazio evidenzia di aver favorito numerose opere di demolizione, nella
logica di una inversione di tendenza rispetto al passato. Tali scelte politiche
regionali sarebbero tuttavia irrimediabilmente frustrate dalla legge impugnata.
La ricorrente, inoltre, sottopone alla Corte ulteriori ragioni per le quali la
disciplina in esame dovrebbe essere considerata irragionevole: in particolare,
osserva che la modifica dell'art. 32 della legge n. 47 del 1985, ad opera della
norma censurata, renderebbe applicabile il condono anche alle pratiche restate
inevase sotto l'egida di precedenti condoni, con il risultato di realizzare
l'effetto di un «condono 'open'».
Sarebbe violato, secondo tale Regione, anche il principio di eguaglianza. Al
riguardo, oltre a proporre le medesime argomentazioni svolte negli altri
ricorsi, si evidenzia come tale principio costituzionale verrebbe leso anche
dalla perdita di valore degli immobili dei cittadini rispettosi della legge a
causa della immissione sul mercato di immobili abusivi, nonché dall'aumento
della pressione fiscale a carico dei medesimi cittadini al fine di reperire le
risorse finanziarie volte alla realizzazione delle opere di urbanizzazione.
22. – Le ricorrenti censurano, inoltre, talune disposizioni modificate in sede
di conversione e successivamente abrogate. Così, il comma 6, che, anche dopo la
conversione, continuerebbe ad attribuire la competenza al Ministro. Il comma 9,
nel testo risultante a seguito della conversione, prevedrebbe l'intesa con la
Conferenza unificata, laddove prima disponeva che questa dovesse essere soltanto
sentita; tale disposizione, tuttavia – e di qui il persistere della doglianze
regionali – prevederebbe comunque che sia data priorità alle aree oggetto di
programmi di riqualificazione approvati con decreto del Ministro dei lavori
pubblici.
Quanto ai commi da 14 a 20 e al comma 24, concernenti la sanatoria in terreni di
proprietà statale, nei ricorsi si ripropongono le medesime doglianze già
illustrate in precedenza, con la precisazione che il comma 24, modificato in
sede di conversione nel senso di prevedere un programma di interventi di
riqualificazione delle aree demaniali in relazione al quale era previsto che
fosse “sentita” la Conferenza Stato-Regioni, è stato successivamente abrogato
dalla legge n. 350 del 2003 (art. 2, comma 70). Comunque, secondo quanto
espongono le ricorrenti, sarebbe necessario acquisire non il mero parere, ma
l'intesa della Regione interessata.
Viene ribadita anche la censura concernente il comma 25, pur modificato in sede
di conversione. A seguito di tale modifica, la norma prevede un limite massimo
per la costruzione abusiva considerata nel suo complesso pari a 3000 metri cubi.
Tale disposizione violerebbe gli artt. 9, 97, 117 e 118 Cost., per la parte in
cui non preciserebbe che non sono ammesse più richieste riferite alla medesima
area. Poiché tuttavia gli emendamenti – si afferma nel ricorso – potrebbero
valere solo pro futuro, le censure sono rivolte al presente comma sia nella sua
versione originaria che in quella risultante a seguito della conversione.
È inoltre censurato il comma 49-ter, introdotto in sede di conversione. Tale
disposizione viene ritenuta costituzionalmente illegittima per violazione degli
artt. 117, terzo comma, e 118 Cost., in quanto determinerebbe l'accentramento
della competenza concernente le demolizioni in capo al prefetto. La norma – si
osserva – non esprimerebbe un principio fondamentale, né del resto sarebbe
giustificabile in base ad esigenze unitarie, in quanto l'amministrazione statale
non sarebbe adeguata allo svolgimento della funzione di demolizione, non
disponendo nemmeno dei dati per effettuare il controllo degli interventi
edilizi.
23. – Le Regioni Marche, Toscana e Campania, nei rispettivi ricorsi, hanno proposto anche istanza di sospensione dell'atto impugnato ai sensi dell'art. 35 della legge n. 87 del 1953, così come novellato dall'art. 9 della legge n. 131 del 2003, con argomentazioni non dissimili da quelle poste a fondamento dell'istanza di sospensione degli effetti del decreto-legge. La Regione Emilia-Romagna ha proposto istanza di sospensione con il già richiamato atto autonomo, separato dall'atto introduttivo del giudizio e formalmente relativo al ricorso n. 83 del 2003, ma rivolto congiuntamente a decreto-legge e legge di conversione.
24. – In tutti i giudizi si è costituito il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato,
proponendo argomentazioni non dissimili da quelle, più sopra esposte, contenute
negli atti di costituzione nei giudizi aventi per oggetto l'art. 32 del d.l. n.
269 del 2003.
L'Avvocatura dello Stato evidenzia, in aggiunta, come “se la spettanza regionale
di alcuni (invero moltissimi) settori costituisse limite alla potestà
legislativa del Parlamento nazionale, questo in pratica solo in pochi casi
potrebbe deliberare interventi o manovre di politica economica”.
In relazione alle doglianze svolte con riguardo ai commi da 14 a 20,
l'Avvocatura rileva che la Regione non sarebbe legittimata a ricorrere, in
quanto essa pretenderebbe di far valere non una competenza propria, ma, semmai,
degli enti locali.
Quanto alle censure concernenti il comma 25, l'Avvocatura ritiene che esse
prospettino un inammissibile intervento additivo della Corte; e inammissibile
sarebbe anche l'intervento additivo richiesto in ordine al comma 37, anche se –
si riconosce – tale intervento “potrebbe fugare le addotte preoccupazioni”.
Con riferimento al giudizio promosso dalla Regione Lazio, la difesa erariale
evidenzia come a suo avviso andrebbe delimitata, in ragione della motivazione
offerta nel ricorso, la materia del contendere, escludendo da quest'ultima i
commi da 14 a 24 e il comma 41, in quanto ad essi non sarebbe riferita alcuna
doglianza.
Nel merito, l'Avvocatura dello Stato ritiene innanzi tutto che il “monito”
indirizzato al legislatore dalla sentenza n. 416 del 1995 – ed orientato nel
senso di vietare una ulteriore reiterazione del condono – non varrebbe ad
escludere la legittimità costituzionale della normativa oggetto del giudizio, in
quanto, dinanzi ad un abusivismo “di massa” (quale sarebbe quello che ha
contraddistinto il periodo successivo alla citata sentenza), il legislatore
statale non potrebbe rimanere “indifferente o estraneo”, dovendo viceversa
intervenire per necessità “sia di carattere economico […] sia di carattere
giuridico”.
Quanto alla pretesa violazione dell'art. 3 Cost., e del principio di
eguaglianza, nelle difese dell'Avvocatura si evidenzia come, nel caso de quo, si
tratterebbe di disuguaglianze di mero fatto, “empiriche”, e in quanto tali non
suscettibili di essere censurate in punto di legittimità costituzionale.
In relazione alle pretese spese di urbanizzazione che conseguirebbero al condono
edilizio, l'Avvocatura nota come tali spese sussisterebbero comunque, dal
momento che, per quanto le costruzioni abusive possano soddisfare un effettivo
fabbisogno abitativo od un fabbisogno di spazi per attività produttive, le spese
per l'urbanizzazione sarebbero ineludibili.
Il fulcro dei ricorsi regionali, secondo la difesa erariale, sarebbe però non
già l'incostituzionalità in sé del condono, ma la circostanza che la disciplina
in questione pretermetta il ruolo delle autonomie territoriali. L'Avvocatura, al
riguardo, ribadisce che “esigenze tecnico-giuridiche” imporrebbero, nel caso
de
quo, “una normazione esaustiva, self executing, unitaria per l'intero territorio nazionale, e – in sintesi – idonea a confluire
nell'ordinamento penale”.
25. – Il Comune di Salerno ha depositato atto di intervento
ad adiuvandum nel
giudizio promosso con il ricorso della Regione Campania avverso l'art. 32 del
d.l. n. 269 del 2003, come convertito dalla legge n. 326 del 2003, sostenendo
nel merito la fondatezza del ricorso e associandosi alla richiesta di
sospensione dell'atto impugnato.
Il Comune di Roma è intervenuto ad adiuvandum nel giudizio promosso dalla
Regione Lazio, chiedendo l'accoglimento della questione di legittimità
costituzionale con motivazioni identiche a quelle addotte a sostegno
dell'intervento nel ricorso proposto dalla Regione Umbria avverso l'art. 32 nel
testo originario di cui al d.l. n. 269 del 2003.
Nello stesso giudizio, promosso dalla Regione Lazio, nonché in quello promosso
dalla Regione Marche avverso l'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003, come convertito
dalla legge n. 326 del 2003, ha presentato atto di intervento ad adiuvandum
l'Associazione italiana per il World Wide Fund for Nature (WWF) – ONLUS, la
quale svolge argomentazioni sostanzialmente coincidenti con quelle proposte nei
ricorsi introduttivi dei giudizi, e conclude nel senso della declaratoria di
illegittimità costituzionale delle disposizioni impugnate.
26. – In prossimità della camera di consiglio del 24 marzo 2004, fissata per la
trattazione delle istanze di sospensione degli atti impugnati, la Regione
Marche, la Regione Campania e la Regione Toscana hanno depositato memorie nelle
quali espongono le proprie argomentazioni in relazione alle istanze proposte,
oltre che in relazione al merito dei ricorsi.
La Regione Marche evidenzia come lo strumento predisposto dall'art. 35 della
legge n. 87 del 1953, così come modificato dall'art. 9 della legge n. 131 del
2003, sarebbe utilizzabile non solo nel caso di giudizi promossi dallo Stato nei
confronti di leggi regionali, ma anche ove siano state le Regioni ad impugnare
un atto normativo primario dello Stato.
Quanto alle motivazioni poste a fondamento dell'istanza, la Regione osserva come
la disciplina impugnata esponga l'ordinamento giuridico al rischio di numerosi
pregiudizi irreparabili. Tra questi, innanzi tutto, vi sarebbe quello della
ineffettività, con particolare riguardo alla “funzione preventiva delle norme
penali, […] all'efficacia delle funzioni di polizia amministrativa e locale […],
alla coerenza e alla certezza nell'attuazione delle funzioni di programmazione
in materia di gestione del territorio”. Viceversa, la tempestiva sospensione
delle disposizioni oggetto del giudizio sarebbe in grado di restituire, almeno
in parte, effettività ai valori costituzionali conculcati. Peraltro, si nota,
l'utilità della sospensione sarebbe ancor maggiore ove risultasse fondata la
notizia di un provvedimento normativo del Governo di proroga del termine per la
presentazione delle istanze di sanatoria. Secondo la Regione Marche sarebbero
pregiudicati dalla mancata sospensione della normativa statale anche i diritti
dei cittadini. Infatti, se la legge di conversione impugnata fosse dichiarata
incostituzionale, le norme penali di favore in essa previste non potrebbero
essere applicate a quei soggetti che nel frattempo avessero già presentato
l'istanza di sanatoria, denunciando spontaneamente gli illeciti commessi, e ciò
in virtù del principio secondo il quale le norme penali che prevedono un
trattamento più favorevole non possono trovare applicazione, se dichiarate
incostituzionali, ai fatti anteriori rispetto alla loro entrata in vigore. Di
qui la menzionata lesione dei diritti dei cittadini, ed in particolare di quelli
tutelati dall'art. 24 Cost.
La Regione Toscana ribadisce le motivazioni già esposte in sede di ricorso,
evidenziando come il rigetto dell'istanza di sospensione comporterebbe la
necessaria attivazione delle procedure di condono da parte dei Comuni, con
conseguenti spese a carico degli stessi. In relazione a tale profilo, peraltro,
la Regione Marche sottolinea come la irreparabilità del suddetto danno
risulterebbe chiaramente dalla circostanza che, ove la disciplina del condono
fosse dichiarata incostituzionale, verrebbero meno i pur esigui finanziamenti,
da quest'ultimo derivanti, previsti in favore delle autonomie territoriali.
Ancora, si evidenzia come l'esecuzione della normativa statale determinerebbe la
necessità di adeguare gli strumenti urbanistici di programmazione, “piegando
così le esigenze pubbliche di corretta pianificazione territoriale alla volontà
di alcuni che, pur avendo commesso illeciti, sono riusciti ad incidere sull'uso
del territorio”. La sospensione della normativa statale sarebbe inoltre
necessaria al fine di preservare il ruolo della Regione “quale ente di governo
del territorio”. Rilevante sarebbe inoltre – sempre nel senso dell'accoglimento
dell'istanza cautelare – “la situazione di incertezza che si crea, in attesa
della definizione del […] giudizio, per i cittadini destinatari della
normativa”.
Ancora, si evidenzia come la mancata sospensione della normativa
impugnata determinerebbe il blocco dell'attività di controllo che le
amministrazioni stanno eseguendo sul territorio regionale, nonché dei
procedimenti giurisdizionali aventi ad oggetto l'irrogazione di sanzioni per
abusi che potrebbero rientrare nel nuovo condono.
La Regione Campania sostiene che la propria domanda cautelare andrebbe accolta
in quanto vi sarebbe la “ragionevole possibilità di conformare rapporti in base
ad una normativa la cui legittimità è contestata”: ciò determinerebbe una
situazione di fatto tale da rendere “assai difficile e costoso” riportare lo
status quo ante nel caso di esito positivo della decisione nel merito.
Secondo le Regioni ricorrenti le istanze di sospensione andrebbero accolte anche
perché, a fronte di danni di tale gravità in caso di perdurante efficacia della
normativa statale impugnata, non deriverebbe nessun pregiudizio ad interessi
costituzionalmente garantiti ove invece quest'ultima fosse sospesa. Le esigenze
di tipo finanziario cui si intende far fronte con il condono edilizio, infatti,
ben potrebbero essere soddisfatte con altri strumenti, e comunque lo Stato ben
potrebbe incassare gli stessi introiti “da condono” successivamente alla
decisione di merito della proposta questione di costituzionalità, ove tale
decisione fosse orientata nel senso del rigetto dei ricorsi.
27. – L'Avvocatura dello Stato ha depositato una memoria per argomentare
l'infondatezza delle istanze di sospensione formulate dalle Regioni.
Preliminarmente, la difesa erariale afferma che dalle espressioni contenute nel
novellato art. 35 della legge n. 87 del 1953 per indicare i presupposti in
presenza dei quali la Corte è chiamata a sospendere l'efficacia degli atti
normativi impugnati sarebbe desumibile la conseguenza che la sospensione può
essere disposta solo su leggi regionali, e non anche in relazione a leggi
statali. In particolare, la formula “ordinamento giuridico della Repubblica”
sarebbe “sostanzialmente equivalente” a quella “ordinamento giuridico dello
Stato”, contenuta in diversi statuti speciali: tale conclusione sarebbe
corroborata, oltre che dall'argomento letterale – ossia l'utilizzazione del
termine “ordinamento” al singolare – anche dalla considerazione della
“intrinseca unitarietà” dell'ordinamento italiano. Quanto all'espressione
“interesse pubblico” (che l'Avvocatura qualifica ulteriormente “della
Repubblica”), secondo la difesa erariale esso andrebbe assimilato – in virtù di
argomentazioni analoghe a quelle appena esposte – all'interesse nazionale. La
possibilità di sospendere solo le leggi regionali, e non anche quelle statali,
inoltre, risponderebbe anche alla ratio politico-sistematica legata alla
necessità di porre un “contrappeso” alla abolizione del rinvio governativo delle
leggi regionali previsto dal previgente sistema di controllo di costituzionalità
di cui all'art. 127 Cost.
Ciò, peraltro, sarebbe confermato anche dal fatto che la competenza statale non
sarebbe “circoscritta alle sole materie 'elencate' nei commi secondo e terzo
dell'art. 117 Cost.”, risultando semplicemente “compressa dall'esterno” nei casi
– come quello de quo – “in cui la pluralità di 'materie' congiuntamente
coinvolte impedisce di assegnare integralmente la competenza” alla sfera
regionale. Lo Stato, non essendo titolare di una competenza “racchiusa in una
sfera”, potrebbe “esprimere quei parametri e quei valori […] cui l'art. 35
citato rimanda”.
In relazione all'ultimo dei presupposti in presenza dei quali può essere sospesa
l'efficacia della legge oggetto di impugnazione, l'Avvocatura evidenzia innanzi
tutto che il “rischio di pregiudizio” debba ritenersi connesso, non tanto alla
disposizione legislativa in sé, quanto piuttosto alla illegittimità
costituzionale della stessa, dal momento che, “se tale illegittimità non fosse
ravvisabile, mancherebbe la configurabilità dei diritti”, e, conseguentemente,
il rischio del pregiudizio agli stessi.
In astratto, secondo la difesa erariale, anche una legge dello Stato è idonea a
generare un simile pregiudizio; tuttavia, poiché la Regione può agire nel
giudizio in via principale solo a tutela della propria sfera di competenza, la
sospensione di cui all'art. 35 citato potrà disporsi nei confronti di una legge
statale solo quando questa comporti prima facie il rischio di un pregiudizio sia
alla sfera di competenza della Regione che ai diritti dei cittadini (che,
comunque, andrebbero intesi come “diritti costituzionalmente garantiti”).
In relazione alla sussistenza in concreto dei presupposti di cui all'art. 35
della legge n. 87 del 1953 per la sospensione della efficacia degli atti
legislativi impugnati, l'Avvocatura osserva che gli argomenti proposti dalle
Regioni dovrebbero ritenersi inammissibili, in quanto non concernenti i “diritti
dei cittadini”, salvo quello addotto dalla Regione Marche, secondo cui
l'esecuzione della normativa oggetto del giudizio determinerebbe il pregiudizio
irreparabile del diritto dei cittadini ad un territorio rispettoso dei valori
costituzionali.
Tuttavia tale argomento, seppur ammissibile, sarebbe, secondo la difesa
erariale, del tutto infondato. Ciò, innanzi tutto, in quanto “all'immagine […]
di un diritto […] al 'territorio rispettoso' non corrisponde una situazione
giuridica riconosciuta dall'ordinamento ed attribuita ai singoli individui”; in
secondo luogo, in quanto la compromissione di tali “diritti” non deriverebbe da
fatto del legislatore, ma di coloro che, in passato, hanno posto in essere i
comportamenti abusivi; infine, in quanto, comunque, la normativa impugnata
escluderebbe la possibilità di sanare abusi compiuti “in presenza di vincoli pre-urbanistici o di altre situazioni di particolare lesività dell'ambiente e/o
di pericolo per l'incolumità”.
Una ulteriore ragione di inammissibilità, propria delle istanze aventi per
oggetto il decreto-legge, sarebbe inoltre individuabile nella circostanza che
quest'ultimo, in quanto tale, non sarebbe più esistente, in quanto convertito in
legge.
28. – L'Avvocatura dello Stato ha depositato una memoria separata per difendersi
nel giudizio instaurato dal ricorso della Regione Emilia-Romagna avverso il d.l.
n. 269 del 2003, nella quale si osserva come l'argomento che fa perno
sull'incertezza dei rapporti giuridici nelle more della decisione di merito non
meriterebbe considerazione, in quanto tale circostanza caratterizzerebbe ogni
controversia costituzionale. Peraltro – si evidenzia – il “dubbio circa
l'operatività delle norme impugnate” è stato provocato dalla stessa Regione Emilia-Romagna, che non potrebbe dunque avvalersene in questa sede.
A ciò la difesa erariale aggiunge la considerazione secondo la quale la
circostanza che le autodenunce di abusi non ancora “scoperti” solitamente
attendono la decisione nel merito della controversia da parte della Corte,
“unitamente al probabile differimento del termine” per proporre istanza di
condono “potrebbe indurre le parti a non chiedere un duplice esame della
controversia”.
Infine, sarebbe ingiustificata la preoccupazione addotta dalla
Regione secondo cui essa non potrebbe emanare una disciplina legislativa
dell'attività urbanistico-edilizia finché permangano i vincoli posti dalle
disposizioni impugnate; la Regione infatti non avrebbe ancora predisposto
“quanto occorre per la produzione legislativa”.
Chiedendo il rigetto dell'istanza di sospensione, l'Avvocatura si richiama per
ogni altra considerazione alle memorie relative alle controversie instaurate con
i ricorsi delle Regioni Toscana, Marche e Campania.
29. – Successivamente, le Regioni Toscana, Marche e Campania hanno depositato
ulteriori atti nei quali – in considerazione della rinuncia da parte dello Stato
alla immediata pronunzia sulle istanze di sospensione da essa presentate in
separati giudizi promossi nei confronti delle leggi regionali concernenti il
condono edilizio – hanno aderito alla “richiesta di differimento” dell'esame
delle istanze cautelari auspicata dall'Avvocatura contestualmente alla propria
rinuncia.
Preso atto di tale rinuncia, con ordinanza n. 116 del 2004 la Corte ha disposto
il rinvio dell'esame di tali istanze unitamente al merito.
30. – In prossimità dell'udienza pubblica, la Regione Campania ha depositato una
memoria integrativa delle argomentazioni in precedenza svolte.
La ricorrente, in
particolare, contesta le affermazioni dell'Avvocatura secondo le quali gli
“scopi di recupero erariale” determinerebbero la acquisizione della disciplina
oggetto del giudizio all'ambito di una materia diversa dal “governo del
territorio”. Tale tesi avrebbe, infatti, effetti “devastanti” sul riparto di
competenze tra Stato e Regioni e “sulla stessa effettiva rigidità della
Costituzione” e contrasterebbe con la recente giurisprudenza di questa Corte,
che avrebbe chiarito come i singoli ambiti di legislazione devono essere
qualificati in base all'oggetto cui afferiscono e non in base a criteri
finalistici.
Anche la Regione Emilia-Romagna ha depositato una memoria, replicando alle
osservazioni dell'Avvocatura. In particolare, la Regione sostiene che allo Stato
sarebbe vietato “sovvertire qualsiasi norma costituzionale” invocando le
“ragioni di bilancio”. Infatti, il riconoscimento del rilievo costituzionale del
valore dell'equilibrio di bilancio implicherebbe soltanto che “gli interessi
costituzionali che porterebbero ad imporre spese allo Stato vanno […]
contemperati con le esigenze di bilancio, al quale non si possono addossare
indiscriminatamente ulteriori spese”. Viceversa, nel reperimento delle risorse
finanziarie lo Stato dovrebbe “rispettare i limiti posti dalla Costituzione”: da
tale assunto deriverebbe il carattere eccezionale riconosciuto da questa Corte
al condono del 1994.
Quanto alla pretesa dell'Avvocatura di giustificare il carattere dettagliato ed
autoapplicativo della normativa impugnata in ragione della competenza penale
riconosciuta allo Stato, la ricorrente nota come “la previsione del condono
penale non giustifichi l'esenzione dalle sanzioni amministrative, e tanto meno
una disciplina dettagliata della materia”. Ancora, la Regione sostiene
l'infondatezza del rilievo dell'Avvocatura secondo il quale mancherebbe nella
doglianza regionale avverso il meccanismo del silenzio-assenso la proposta di
“una soluzione alternativa”, dal momento che, automaticamente, dall'accoglimento
di detta doglianza risulterebbe “la necessità di un provvedimento esplicito di
sanatoria”.
Anche la Regione Umbria ha depositato una memoria, relativa ad entrambi i
ricorsi da essa presentati, replicando alle osservazioni contenute nelle memorie
dell'Avvocatura dello Stato con argomentazioni del tutto analoghe a quelle
svolte dalla Regione Emilia-Romagna nella memoria sopra richiamata.
La Regione Toscana, nelle memorie depositate in entrambi i giudizi promossi,
afferma innanzitutto l'infondatezza dell'eccezione, sollevata dall'Avvocatura
nei propri scritti difensivi, di inammissibilità dell'impugnazione delle norme
della legge di conversione del decreto-legge non impugnate nel ricorso
presentato avverso il d.l. n. 269 del 2003. La giurisprudenza costituzionale
avrebbe ormai pacificamente affermato che la mancata impugnazione di una norma
di un decreto-legge convertito in legge senza modificazioni non preclude
l'impugnazione delle norme della legge di conversione, perché questa stabilisce
in via definitiva la disciplina normativa. Sarebbe quindi ammissibile
l'impugnazione dei commi 41, 42 e 43 dell'art. 32 del decreto-legge così come
convertito dalla legge di conversione.
La Regione precisa, poi, di non aver riproposto, nel ricorso avente ad oggetto
il testo del decreto-legge convertito, la censura sui commi 9 e 10, perché
modificati in sede di conversione nel senso di prevedere l'intesa con la
Conferenza unificata per la individuazione degli ambiti territoriali oggetto di
riqualificazione e di messa in sicurezza; la ricorrente evidenzia inoltre che il
comma 9 è stato successivamente abrogato dalla legge n. 350 del 2003.
La ricorrente ribadisce che l'art. 32 censurato, relativamente agli effetti
amministrativi del condono edilizio, non sarebbe applicabile nel proprio
territorio in forza della previsione del secondo comma dello stesso art. 32.
Infatti, la Regione Toscana si sarebbe già dotata di una compiuta normativa
edilizia che disciplina anche le conseguenze degli illeciti, consentendo la
regolarizzazione di quelli meramente formali e di quelli sostanzialmente non
rilevanti, secondo quanto previsto dall'art. 34-ter della legge della Regione
Toscana 5 agosto 2003, n. 43 [Modifiche e integrazioni alla legge regionale 14
ottobre 1999, n. 52 (Norme sulle concessioni, le autorizzazioni e le denunce
d'inizio delle attività edilizie disciplina dei controlli nelle zone soggette al
rischio sismico disciplina del contributo di concessione sanzioni e vigilanza
sull'attività urbanistico/edilizia, modifiche ed integrazioni alla legge
regionale 23 maggio 1994, n. 39 e modifica della legge regionale 17 ottobre
1983, n. 69)], nonché escludendo del tutto la sanatoria degli illeciti compiuti
in difformità dalla disciplina urbanistica ed edilizia (art. 37 della medesima
legge regionale). Conseguentemente, il ricorso della Regione contro l'art. 32
impugnato dovrebbe ritenersi inammissibile per carenza di interesse e
parallelamente infondata sarebbe la questione sollevata dallo Stato avverso la
legge regionale Toscana 4 dicembre 2003, n. 55 (Accertamento di conformità delle
opere edilizie eseguite in assenza di titoli abilitativi, in totale o parziale
difformità o con variazioni essenziali, nel territorio della Regione Toscana).
In subordine, la Regione Toscana ribadisce le proprie censure avverso la norma
impugnata che violerebbe gli artt. 117 e 118 Cost., in quanto l'art. 32 sarebbe
in contrasto con la politica regionale in materia di abusi edilizi, volta a
sanare solo quelli minori e non invece quelli più gravi; inoltre, sarebbe
violata la potestà normativa regionale in conseguenza del carattere di dettaglio
proprio della norma censurata e dell'impossibilità di configurare il condono
edilizio come un principio fondamentale della materia del governo del
territorio. La ricorrente, infine, riafferma che l'intervento statale non può
ritenersi legittimo in quanto strumento di coordinamento della finanza pubblica,
sia perché questo non potrebbe essere utilizzato per scardinare l'ordine delle
competenze posto dalla Costituzione, sia perché tale coordinamento in realtà non
si realizzerebbe, comportando per i Comuni spese aggiuntive ed impreviste per lo
svolgimento delle procedure amministrative per evadere le domande di condono e
per la realizzazione delle opere di urbanizzazione, nonché una riduzione delle
entrate degli enti locali conseguente al venir meno degli introiti delle
sanzioni amministrative per gli abusi edilizi.
La Regione Friuli-Venezia Giulia, nella sua ulteriore memoria, si richiama
esplicitamente alle argomentazioni esposte dalla Regione Emilia-Romagna.
Inoltre, evidenzia come l'art. 119, secondo comma, – invocato dall'Avvocatura
unitamente all'art. 118 per affermare la competenza statale in relazione alla
“gestione complessiva della finanza pubblica” – e l'art. 117, terzo comma, Cost.,
non affiderebbero allo Stato una potestà esclusiva, ma solo il compito di
dettare principi fondamentali.
Anche la Regione Lazio ha depositato una memoria integrativa delle
argomentazioni svolte nel proprio ricorso. Innanzi tutto, la Regione evidenzia
come le censure proposte, pur se riferite specificamente nei confronti di alcuni
commi, debbano essere intese – come già evidenziato nel ricorso – come relative
all'intero art. 32. In secondo luogo – sempre sul versante processuale – nella
memoria si richiama quella giurisprudenza costituzionale che ha ritenuto
ammissibili i ricorsi nei confronti della legge di conversione di un
decreto-legge, anche se non contenente emendamenti allo stesso, pur quando non
sia stato impugnato il decreto.
Nel merito, la Regione Lazio ribadisce le argomentazioni già esposte,
sottolineando ulteriormente come solo il carattere di straordinarietà,
eccezionalità e non ulteriore ripetibilità avesse consentito alla Corte
costituzionale di “salvare” i precedenti condoni edilizi. Ragionando in termini
diversi, infatti, si giungerebbe a “teorizzare la legittimità costituzionale di
un condono edilizio sine die, i cui effetti, com'è intuibile, paralizzerebbero
ogni tentativo di dare una soluzione al problema attraverso lo strumento della
legislazione ordinaria”.
Ancora, del tutto infondato sarebbe l'argomento dell'Avvocatura secondo il quale
il fondamento della normativa oggetto di impugnazione andrebbe reperito
nell'art. 120 Cost., dal momento che non vi sarebbero emergenze istituzionali di
particolare gravità che sole possono consentire l'attivarsi del potere
contemplato da tale disposizione, peraltro esclusivamente nei casi ivi
tassativamente previsti. Da ultimo, si evidenzia come anche la Corte dei conti
avrebbe avanzato dubbi sulla razionalità, da un punto di vista finanziario,
dell'operazione realizzata con il d.l. n. 269 del 2003.
La Regione Marche, nella propria memoria, contesta le eccezioni di
inammissibilità dei ricorsi sollevate dalla difesa dello Stato. In particolare,
sulle censure concernenti la violazione dell'art. 77 Cost., richiama la
giurisprudenza costituzionale che ne ha riconosciuto l'ammissibilità quando “la
violazione denunciata sia potenzialmente idonea a determinare una vulnerazione
delle attribuzioni costituzionali delle Regioni o delle Province autonome
ricorrenti”.
In ordine alla ammissibilità del ricorso regionale anche a tutela
di posizioni costituzionalmente garantite agli enti locali, la ricorrente
richiama l'attuale testo dell'art. 32 della legge n. 87 del 1953, che prevede la
possibilità per la Regione di sollevare questione di legittimità costituzionale
anche su proposta del Consiglio delle autonomie. Nel merito, insiste sulle
censure già proposte.
31. – In prossimità dell'udienza pubblica, anche il Comune di Roma ha depositato una nuova memoria, svolgendo ulteriori rilievi in ordine alla ammissibilità dello stesso e richiamando, nel merito, le argomentazioni dell'atto di intervento e dei ricorsi delle Regioni Umbria e Lazio.
32. – L'Avvocatura dello Stato ha presentato una memoria nei giudizi instaurati
dalla Regione Campania, evidenziando come in essi siano intervenuti alcuni
Comuni esponendo punti di vista differenti. Ciò proverebbe, secondo
l'Avvocatura, la difficoltà degli enti locali minori, che non sarebbero in grado
di fronteggiare le situazioni in cui si trovano.
Nel merito, si osserva come “una manovra di finanza statale che ricolleghi
introiti all'esercizio (eventuale) da parte dei proprietari di edifici in tutto
o in parte abusivi della facoltà di definire gli illeciti commessi, rimane pur
sempre una manovra di finanza statale autonomamente giustificata dalle esigenze
di questa, e radicata nella competenza legislativa dello Stato ai sensi
dell'art. 117, secondo comma, lettera e), e dell'art. 119, comma secondo, Cost.”.
Da ultimo, la difesa erariale precisa che il richiamo all'art. 120 Cost. deve
essere inteso nel senso che da tale disposizione sarebbe desumibile un principio
generale, consistente nella possibilità (anzi, necessità) di interventi di
carattere straordinario e aggiuntivo per evitare la compromissione di interessi
superiori.
Con la memoria depositata nel giudizio instaurato dalla Regione Lazio,
l'Avvocatura dello Stato ribadisce che il ricorso deve considerarsi
inammissibile, in quanto rivolto nei confronti della legge di conversione, anche
in relazione alle parti del decreto non modificate, pur non essendo stato
quest'ultimo oggetto di impugnazione.
Anche nei giudizi instaurati dalla Regione Toscana, l'ulteriore memoria
difensiva dell'Avvocatura ribadisce l'eccezione di inammissibilità del ricorso
avverso il testo del decreto-legge convertito, in quanto avrebbe ad oggetto
anche disposizioni vigenti fin dal 2 ottobre 2003, le quali dunque sarebbero
state impugnate oltre il termine fissato dall'art. 127, secondo comma, Cost.
Inoltre l'impugnazione dei commi 41, 42 e 43 dell'art. 32 non sarebbe sorretta
da alcuna motivazione. Nel merito, l'Avvocatura sostiene l'infondatezza della
censura concernente il comma 49-ter dell'art. 32, dal momento che la norma si
limiterebbe ad assegnare alla prefettura compiti meramente esecutivi delle
ordinanze di demolizione o di acquisizione gratuita delle opere abusive,
disposte dagli enti locali, e pertanto nessun potere autonomo verrebbe
riconosciuto alla prefettura. In ordine alle altre censure mosse dalla Regione,
la difesa erariale richiama le argomentazioni già svolte nei precedenti scritti
difensivi.
Nella memoria concernente i giudizi promossi dalla Regione Marche, l'Avvocatura
ribadisce l'eccezione di inammissibilità conseguente all'impossibilità per la
Regione di far valere parametri costituzionali diversi da quelli che definiscono
l'assetto delle competenze. Nel merito ritiene che il ricorso regionale sarebbe
carente di attualità dell'interesse ove fosse vera la situazione di efficienza
di tutela del territorio sotto il profilo urbanistico-edilizio che la ricorrente
vorrebbe accreditare.
Considerato in diritto
1. – Le Regioni Campania, Marche, Toscana, Emilia-Romagna, Umbria e
Friuli-Venezia Giulia hanno impugnato l'art. 32 del decreto-legge 30 settembre
2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione
dell'andamento dei conti pubblici), ed in particolare i commi: 1, 2, 3, 5,
14-20; 25-31; 32 e seguenti (reg. ric. n. 76 del 2003); 1, 2, 3, 5, 6, 9, 10,
13, 14-20; 24-41; (reg. ric. n. 81 del 2003); 1, 3, 5, 6, 9, 10, 14-20; 24,
25-40 (reg. ric. n. 82 del 2003); 1, 2, 3, 25, 26, lettera a), 28, 32, 35, 37,
38, 40, nonché l'Allegato 1 (reg. ric. nn. 83, 87 del 2003); 1, 2, 3, 4, 25, 26,
lettera a), 28, 32, 35, 37, 38, 40, nonché l'Allegato 1 (reg. ric. n. 89 del
2003). La Regione Marche ha impugnato anche l'art. 32 citato nel suo complesso.
Le prospettazioni contenute nei ricorsi introduttivi dei giudizi sollevano
rilievi di costituzionalità sostanzialmente analoghi e sintetizzabili nella
pretesa violazione dei seguenti parametri costituzionali:
-
l'art. 117, quarto comma, della Costituzione (nonché, secondo i ricorsi della
Regione Campania, l'art. 114 Cost.), in quanto la normativa impugnata
interverrebbe nella materia dell'edilizia, affidata alla competenza residuale
delle Regioni; ovvero, in subordine, l'art. 117, quarto comma, Cost., in quanto
interverrebbe nella materia dell'urbanistica, affidata alla competenza residuale
delle Regioni (così, in particolare, i ricorsi della Regione Campania e della
Regione Marche); ovvero, in via ulteriormente subordinata, l'art. 117, terzo
comma, Cost., in quanto interverrebbe con una disciplina di dettaglio in una
materia, quale quella del “governo del territorio”, affidata alla competenza
concorrente di Stato e Regioni, e non essendo, più in generale, la stessa idea
di condono edilizio idonea ad essere qualificata quale principio fondamentale
della materia;
-
l'art. 118 Cost., in quanto la disciplina del condono edilizio determinerebbe la
vanificazione degli interventi di pianificazione e controllo locale, nonché la
necessità di apprestare appositi strumenti urbanistici e soluzioni di governo
del territorio che tengano conto delle conseguenze della disciplina statale
impugnata, cosicché le Regioni e gli enti locali sarebbero costretti a subire,
anziché governare, le destinazioni urbanistiche del territorio (così, in
particolare, i ricorsi della Regione Campania, della Regione Marche e della
Regione Toscana);
-
l'art. 77 Cost., dal momento che difetterebbero i presupposti costituzionali per
l'esercizio della decretazione d'urgenza (così i ricorsi della Regione Campania
e della Regione Marche); difetterebbe inoltre il requisito, costituzionalmente
necessario, della omogeneità del contenuto del decreto-legge (così i ricorsi
della Regione Campania); infine, il decreto-legge sarebbe inidoneo a porre i
principi fondamentali di cui all'art. 117, terzo comma, Cost.;
-
l'art. 119 Cost., e l'autonomia finanziaria delle regioni e degli enti locali in
esso contemplata, in quanto il condono edilizio, disposto in vista di esigenze
finanziarie del bilancio statale, comporterebbe spese particolarmente ingenti e
di vario genere a carico delle finanze delle autonomie territoriali, a fronte di
una compartecipazione al gettito delle operazioni di condono che sarebbe
decisamente esigua;
-
l'art. 25 Cost., in quanto la reiterazione con cadenza novennale della sanatoria
edilizia, implicando “non solo la lesione del principio di legalità”, ma ledendo
“soprattutto la fiducia dei cittadini sulla effettiva capacità degli organi
pubblici di garantire il rispetto dei valori costituzionali coinvolti nella
disciplina urbanistica ed edilizia”, determinerebbe la violazione del principio
di tassatività e certezza delle norme penali (così i ricorsi della Regione
Marche);
-
l'art. 3 Cost., in quanto la disciplina in esame, riaprendo ed estendendo i
termini del condono, introdurrebbe un sistema discriminatorio a svantaggio di
coloro che, rispettando la normativa, non hanno costruito perché privi del
titolo abilitativo, dovendo subire però le conseguenze in termini di degrado
urbanistico del condono, trattando in modo uguale situazioni diverse, ossia
quella di chi ha costruito in base ad un titolo legittimo e quella di chi ha
costruito abusivamente, e non consentendo “di riportare ad uguaglianza,
attraverso la sanzione, chi si è astenuto da comportamenti illeciti e chi
illecitamente li ha compiuti”;
-
l'art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza, in quanto la reiterazione
del condono edilizio farebbe venir meno i caratteri di assoluta straordinarietà,
eccezionalità ed irripetibilità che soli, secondo la giurisprudenza
costituzionale, possono giustificare la sanatoria; nel caso in questione
mancherebbero del tutto quelle circostanze eccezionali che, nelle precedenti
situazioni, hanno portato la Corte costituzionale a ritenere giustificata la
sanatoria; sarebbero incisi numerosi principi costituzionali, senza però che sia
perseguito adeguatamente l'obiettivo della stessa disciplina impugnata;
-
l'art. 97 Cost., ed in particolare i principi di imparzialità dei pubblici
poteri e di buon andamento dell'amministrazione, che sarebbero frustrati dalla
inanità degli sforzi compiuti dalle amministrazioni locali al fine di reprimere
l'abusivismo;
-
l'art. 9 e l'art. 117, terzo comma, Cost. (che sancisce la competenza regionale
in tema di valorizzazione dei beni ambientali), nonché il “principio
costituzionale di indisponibilità dei valori costituzionalmente tutelati”, in
quanto il valore costituzionale dell'ordinato assetto del territorio non
potrebbe “essere scambiato con valori puramente finanziari”, come invece avviene
nel caso del condono edilizio;
-
gli artt. 9, 32, 41 e 42 Cost., dal momento che la sanatoria prevista dalla
disciplina impugnata inciderebbe negativamente nei confronti di valori
costituzionali che tutti i livelli di governo e in particolare le regioni hanno
il diritto-dovere di tutelare nella loro effettività, quali: i valori
paesistico-ambientali, il valore della salute, il valore del corretto e ordinato
svolgimento dell'attività imprenditoriale in materia edilizia, la tutela del
diritto di proprietà (così i ricorsi della Regione Marche);
-
il principio di leale collaborazione tra i diversi livelli di governo, nonché
l'art. 2 del d.lgs. 28 agosto 1997, n. 281 (Definizione e ampliamento delle
attribuzioni della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni
e le province autonome di Trento e Bolzano ed unificazione, per le materie ed i
compiti di interesse comune delle regioni, delle province e dei comuni, con la
Conferenza Stato-città ed autonomie locali), che tale principio recepisce, e il
principio costituzionale che prescrive “la partecipazione regionale al
procedimento legislativo delle leggi statali ordinarie, quando queste
intervengano in materia di competenza concorrente”, desumibile dall'art. 11
della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della
parte seconda della Costituzione), dal momento che, in sede di adozione del
decreto-legge, le autonomie regionali non sono state consultate attraverso la
Conferenza Stato-Regioni;
-
il giudicato costituzionale, ed in particolare le sentenze di questa Corte n.
427 del 1995, n. 416 del 1995, n. 231 del 1993, n. 369 del 1988 e n. 302 del
1988, con cui sarebbe stato “attribuito al regime di sanatoria […] carattere
episodico e delimitato temporalmente”, pena la illegittimità costituzionale
(così i ricorsi della Regione Campania);
-
l'art. 4, numero 12, e l'art. 8 della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1
(Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia), in riferimento
all'autonomia legislativa e amministrativa della Regione nella materia
urbanistica, in quanto le competenze regionali in detta materia potrebbero
essere legittimamente vincolate solo dalla Costituzione, dai principi generali
dell'ordinamento giuridico e dalle norme fondamentali di grande riforma
economico-sociale, tra le quali non potrebbe certo essere annoverata la
previsione di un condono edilizio.
2. – Le ricorrenti hanno altresì proposto, in via subordinata, le seguenti
specifiche censure:
il comma 26, lettera a), dell'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003, nella parte in
cui subordina la sanabilità alla legge regionale nel caso degli abusi minori in
zone non vincolate, sottraendo viceversa alla decisione regionale gli abusi
maggiori e gli abusi minori in zone vincolate, violerebbe i principi di
eguaglianza e ragionevolezza, nonché gli
artt. 117 e 118 Cost.;
-
il comma 25, “in quanto non eccettua dal condono gli abusi per i quali il
procedimento sanzionatorio sia già iniziato”, violerebbe il principio di
ragionevolezza, poiché – una volta iniziato il procedimento sanzionatorio – il
condono edilizio non porterebbe alcun vantaggio al pubblico interesse, né in
termini di “uscita allo scoperto” di situazioni di illegalità, né in termini
economici, poiché le sanzioni urbanistiche sono essenzialmente di carattere
pecuniario;
-
i commi 3, 25, 26, lettera a), 28, 32, 35, lettere b) e c), 37, 38, 40 e
l'Allegato 1, in quanto con disciplina dettagliata ed autoapplicativa
stabiliscono le modalità, i termini e le procedure relative al condono edilizio,
violerebbero l'art. 117 Cost., perché la competenza dello Stato a dettare norme
non cedevoli non sarebbe giustificata, nel caso di specie, né da materie
indicate dall'art. 117, secondo comma, né dall'attrazione di funzioni
amministrative allo Stato in base all'art. 118;
-
i commi 25 e 35 violerebbero il principio di ragionevolezza, in quanto la
disciplina del comma 25 estende il condono agli abusi compiuti sino a sei mesi
prima dell'entrata in vigore del decreto-legge impugnato (mentre nel caso dei
due precedenti condoni il termine era rispettivamente di un anno e di
diciassette mesi) e ciò renderebbe particolarmente difficile distinguere le
opere ultimate da quelle non ultimate, complicando notevolmente l'attività di
vigilanza amministrativa; la disciplina risulterebbe collegata al disposto del
comma 35, in forza del quale è sufficiente, ove l'opera abusiva non superi i 450
metri cubi, una autocertificazione per la prova dello “stato dei lavori”,
consentendo così di far passare per già costruite opere in corso di costruzione
o ancora da costruire;
-
il comma 25 violerebbe gli artt. 3, 9, 97, 117 e 118 Cost., nella parte in cui
prevede un limite di volume (750 metri cubi) per ogni singola richiesta di
sanatoria, senza però precisare che non sono ammesse più richieste riferite alla
medesima area;
-
il comma 37 violerebbe il principio di ragionevolezza, dal momento che sarebbe
“palese” il contrasto con tale principio di una norma che sana gli abusi in
virtù del solo decorso del tempo con un meccanismo di “silenzio-assenso”, nonché
gli artt. 9, 97, 117 e 118 Cost. (e gli artt. 4 e 8 dello Statuto speciale della
Regione Friuli-Venezia Giulia), perché renderebbe eventuale il controllo dei
Comuni sull'ammissibilità delle domande di condono, ledendo altresì le
competenze regionali in materia di governo del territorio;
-
i commi da 14 a 20 ed il comma 24, che disciplinano la sanatoria degli abusi
commessi sulle aree di proprietà statale, facendola dipendere unicamente dalla
volontà e dalla decisione dello Stato proprietario, senza dare alcuna rilevanza
a quanto in merito stabilito dal legislatore regionale, violerebbero l'art. 117
Cost., che affida alle Regioni la competenza a disciplinare l'ammissibilità
urbanistica degli interventi anche sulle aree di proprietà dello Stato, nonché
gli artt. 118 e 119, perché la decisione sulla ammissibilità della sanatoria
viene riservata al soggetto proprietario dell'area, senza possibilità di
contraddittorio con gli enti locali interessati e in assenza di una previa
intesa con le Regioni;
-
il comma 5, il quale affida al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti un
ruolo di coordinamento per l'applicazione della normativa sul condono,
violerebbe gli artt. 117 e 118 Cost., perché non vi sarebbe alcuna esigenza
unitaria in grado di giustificare l'attribuzione ad un organo statale di tale
funzione, in una materia, come il “governo del territorio”, attribuita alla
competenza regionale;
-
il comma 6 violerebbe l'art. 118 Cost., perché in una materia regionale
determinerebbe la avocazione di funzioni amministrative al centro senza
prevedere, come richiesto dalla sentenza n. 303 del 2003, l'intesa con la
Regione interessata, nonché l'art. 119 Cost., il quale non ammette finanziamenti
vincolati alla realizzazione di interventi scelti dal Ministro;
-
i commi 9 e 10 violerebbero gli artt. 118 e 119 Cost. per ragioni analoghe a
quelle appena richiamate.
3. – Le Regioni Campania, Marche, Toscana ed Emilia-Romagna (quest'ultima con atto separato, notificato il 9 febbraio 2004 e depositato il 10 febbraio 2004) chiedono inoltre l'applicazione dell'art. 35 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), come sostituito dall'art. 9 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), ritenendo sussistenti le condizioni ivi previste perché la Corte possa sospendere in via cautelare l'esecuzione della normativa impugnata.
4. – Le Regioni Lazio, Marche, Toscana, Umbria, Friuli-Venezia Giulia,
Emilia-Romagna e Campania hanno impugnato l'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003,
così come risultante dalla conversione in legge ad opera della legge 24 novembre
2003, n. 326 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 30
settembre 2003, n. 269, recante disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e
per la correzione dell'andamento dei conti pubblici), ed in particolare i commi:
1, 2, 3, 9, 14-23; 25, 26, 32-38; 41 e 42 (reg. ric. n. 6 del 2004); 1, 2, 3, 5,
6, 9, 10, 13, 14-20; 24-41 (reg. ric. n. 8 del 2004); 1, 3, 5, 14-20; 25-43;
49-ter (reg. ric. n. 10 del 2004); 1, 3, 25, 26, lettera a), 28, 32, 35, 37, 38,
40 e l'Allegato 1 (reg. ric. n. 11 del 2004); 1, 3, 4, 25, 26, lettera a), 28,
32, 35, 37, 38, 40 e l'Allegato 1 (reg. ric. n. 12 del 2004); 1, 2, 3, 25, 26,
lettera a), 28, 32, 35, 37, 38, 40 e l'Allegato 1 (reg. ric. n. 13 del 2004); 1,
2, 3, 5, 14-20; 25-50 (reg. ric. n. 14 del 2004). Le Regioni Marche e Campania
hanno impugnato anche l'art. 32 citato nel suo complesso.
Le ricorrenti ripropongono sostanzialmente le medesime censure già sollevate nei
confronti dell'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003 nel testo originario, con le
seguenti precisazioni e aggiunte.
L'art. 77 Cost. sarebbe violato anche dalla legge n. 326 del 2003, dal momento
che la carenza dei requisiti costituzionalmente previsti per la decretazione
d'urgenza si ripercuoterebbe, quale vizio in procedendo, anche nei confronti
della legge di conversione.
La Regione Marche lamenta la violazione dell'art. 79 Cost., in quanto il
provvedimento normativo impugnato costituirebbe, nella sostanza, una vera e
propria amnistia, adottata senza percorrere le vie del procedimento aggravato
previsto dalla citata disposizione costituzionale
L'art. 3 Cost. è invocato, nel ricorso della Regione Lazio, anche in quanto la
disciplina impugnata violerebbe il principio di eguaglianza a causa della
perdita di valore degli immobili dei cittadini rispettosi della legge
conseguente alla immissione sul mercato di immobili abusivi, nonché dell'aumento
della pressione fiscale a carico dei medesimi cittadini al fine di reperire le
risorse finanziarie volte alla realizzazione delle opere di urbanizzazione.
Sempre secondo la Regione Lazio, il principio di ragionevolezza, sancito dal
medesimo art. 3 Cost., sarebbe violato anche perché dalla normativa risultante
dalle modifiche operate in sede di conversione e derivante dalle abrogazioni
disposte dalla legge finanziaria per il 2004, emergerebbe chiaramente che
sarebbe rimasto soltanto il condono edilizio, mentre sarebbero stati abrogati i
fondi per la riqualificazione urbanistica e ambientale, pur ritenuti
evidentemente insufficienti dalle Regioni, ciò che renderebbe palese “la
irragionevolezza e la scarsa attendibilità del meccanismo congegnato attraverso
le varie disposizioni di cui all'art. 32, per realizzare finalità di reale e
credibile intento di riqualificazione del territorio”; inoltre, la modifica
dell'art. 32 della legge n. 47 del 1985 renderebbe applicabile il condono anche
alla pratiche restate inevase sotto l'egida di precedenti condoni, con il
risultato di realizzare l'effetto di un «condono 'open'».
Per quel che concerne le singole disposizioni contenute nell'art. 32 del d.l. n.
269 del 2003, così come risultante dalla conversione ad opera della legge n. 326
del 2003, le Regioni ricorrenti ribadiscono le censure già proposte nei
confronti del testo originario del decreto-legge, evidenziando, tuttavia, alcuni
profili nuovi di impugnazione connessi con le modifiche normative introdotte
dalla legge di conversione.
Il comma 25 dell'art. 32 viene censurato in quanto, prevedendo un limite massimo
per la costruzione abusiva considerata nel suo complesso pari a 3000 metri cubi,
violerebbe gli artt. 3, 9, 97, 117 e 118 Cost., poiché non preciserebbe che non
sono ammesse più richieste riferite alla medesima area; viene peraltro mantenuta
ferma la censura rivolta al medesimo comma 25 nella versione originaria del d.l.
n. 269 del 2003, in quanto gli emendamenti introdotti in sede di conversione
opererebbero soltanto pro futuro.
Dei commi 9 e 10 si ribadisce il contrasto con l'art. 118 Cost., nonostante che
il comma 9, nel testo risultante a seguito della conversione, preveda l'intesa
con la Conferenza unificata, in quanto risulterebbe comunque riconosciuta una
priorità alle aree oggetto di programmi di riqualificazione approvati con
decreto del Ministro dei lavori pubblici.
Nei ricorsi suddetti si propone, infine, censura avverso il comma 49-ter,
introdotto in sede di conversione, il quale, determinando l'accentramento della
competenza concernente le demolizioni in capo al prefetto, violerebbe gli artt.
117, terzo comma, e 118 Cost.; ciò in quanto tale norma non esprimerebbe un
principio fondamentale, né del resto sarebbe giustificabile in base ad esigenze
unitarie, in quanto l'amministrazione statale non sarebbe adeguata allo
svolgimento di tale funzione, non disponendo nemmeno dei dati per effettuare il
controllo degli interventi edilizi.
5. – Le Regioni Campania, Marche, Toscana ed Emilia-Romagna chiedono inoltre, anche nei confronti dell'art. 32 come risultante dalle modifiche operate in sede di conversione, l'applicazione dell'art. 35 della legge n. 87 del 1953, come sostituito dall'art. 9 della legge n. 131 del 2003, ritenendo sussistenti le condizioni ivi previste perché la Corte possa sospendere in via cautelare l'esecuzione della normativa impugnata.
6. – La Regione Basilicata ha impugnato, con un unico ricorso, l'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003, sia nel testo originario che nel testo risultante dalla legge di conversione, esponendo censure rivolte in generale nei confronti dell'intero art. 32, e sostanzialmente corrispondenti, nel merito, a quelle più sopra richiamate.
7. – La Regione Toscana, con il ricorso n. 10 del 2004, ha impugnato anche
l'art. 14, commi 1 e 2, del d.l. n. 269 del 2003, come convertito della legge di
conversione n. 326 del 2003, mentre la Regione Emilia-Romagna, con il ricorso n.
13 del 2004, ha impugnato anche l'art. 21, nonché i commi 21 e 22 dell'art. 32.
Tali ultime disposizioni, congiuntamente al comma 23, risultano impugnate
altresì dalla Regione Campania, con entrambi i propri ricorsi (n. 76 del 2003 e
n. 14 del 2004).
Per ragioni di omogeneità di materia, tali questioni di costituzionalità
verranno trattate separatamente da quelle concernenti la disciplina del condono
edilizio di cui all'art. 32 sollevate con i medesimi ricorsi e appena
illustrate, per essere definite con distinte decisioni di questa Corte.
8. – In considerazione dell'identità della materia, nonché dei profili di illegittimità costituzionale fatti valere, i ricorsi, per la parte relativa all'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003, sia nel testo originario, che in quello risultante dalla conversione ad opera della legge n. 326 del 2003, possono essere riuniti per essere decisi con un'unica pronuncia.
9. – Con ordinanza letta nella pubblica udienza dell'11 maggio 2004 e allegata alla presente sentenza, sono stati dichiarati inammissibili gli interventi spiegati nel giudizio dai Comuni di Roma, Salerno, Ischia e Lacco Ameno, dal CODACONS e dal World Wide Fund for Nature (WWF) ONLUS.
10. – Deve essere dichiarata l'inammissibilità del ricorso n. 6 del 2004, proposto dalla Regione Lazio, in quanto notificato al Presidente del Consiglio dei ministri presso l'Avvocatura generale dello Stato e non presso la Presidenza del Consiglio dei ministri (cfr., da ultimo, la sentenza n. 333 del 2000).
11. – Il ricorso della Regione Basilicata si rivolge genericamente nei confronti dell'intero art. 32, pur motivando soltanto in relazione al condono edilizio. È possibile tuttavia – non essendo specificamente indicati i commi dell'articolo nei cui confronti vengono rivolte le doglianze – interpretare il ricorso come rivolto esclusivamente nei confronti delle disposizioni che disciplinano il condono edilizio (cfr., ad esempio, sentenza n. 15 del 2004). Analogamente è da dirsi in relazione ai ricorsi delle Regioni Marche e Campania, nella parte in cui si rivolgono all'art. 32 nella sua interezza.
12. – Inammissibili, invece, devono essere ritenute le censure rivolte dalla
Regione Campania specificamente nei confronti dei commi 44, 45, 46, 47, 48, 49 e
50 del d.l. n. 269 del 2003 e dei medesimi commi, nonché dei commi 49-bis e
49-quater, del testo dell'art. 32 convertito dalla legge n. 326 del 2003, in
quanto non sorrette da alcuna delle argomentazioni in diritto rinvenibili nei
ricorsi. Ciò a prescindere dal fatto che la medesima Regione Campania, nel
ricorso n. 14 del 2004 avverso il testo del decreto-legge così come convertito
in legge dalla legge n. 326 del 2003, impugna erroneamente i commi 48 e 49,
soppressi in sede di conversione in legge.
Ancora, va esclusa l'ammissibilità delle censure sollevate dalla Regione Marche,
con i ricorsi n. 81 del 2003 e n. 8 del 2004, in relazione ai parametri
costituiti dagli artt. 32, 41 e 42 Cost., in quanto non viene fornita alcuna
motivazione autonoma rispetto agli altri profili di doglianza.
Del pari inammissibile è la censura proposta dalla Regione Campania, con i
ricorsi n. 76 del 2003 e n. 14 del 2004, in riferimento al parametro dell'art.
114 Cost., anch'essa non motivata in alcun modo.
Il rilievo di incostituzionalità di cui alla sopra indicata lettera h) – fondato
sulla violazione dell'art. 97 Cost., in quanto i principi di imparzialità dei
pubblici poteri e di buon andamento dell'amministrazione sarebbero frustrati
dalla inanità degli sforzi compiuti dalle amministrazioni locali al fine di
reprimere l'abusivismo – deve invece essere dichiarato inammissibile perché
eccessivamente generico.
Quanto alla censura concernente il comma 10 dell'art. 32, formulata in entrambi
i ricorsi della Regione Marche e nel ricorso della Regione Toscana avverso il
testo del d.l. n. 269 del 2003, ne va dichiarata l'inammissibilità con
riferimento al ricorso n. 8 del 2004 della Regione Marche per carenza di
qualunque autonoma motivazione, mentre le modifiche apportate dalla legge di
conversione debbono ritenersi satisfattive delle doglianze prospettate delle
ricorrenti in relazione al testo originario del decreto-legge, consentendo – in
assenza di un'attuazione medio tempore della norma impugnata – di dichiarare la
cessazione della materia del contendere (cfr., da ultimo, ordinanza n. 137 del
2004).
13. – Numerose tra le questioni proposte dalle Regioni ricorrenti fanno
riferimento a parametri differenti da quelli specificamente concernenti il
riparto di competenze tra le stesse e lo Stato. Non possono essere ritenute
ammissibili le censure relative ad aspetti che non siano potenzialmente idonei
“a determinare una vulnerazione delle attribuzioni costituzionali delle Regioni
o Province autonome ricorrenti” (sentenza n. 303 del 2003; cfr., inoltre, le
sentenze n. 353 del 2001, n. 503 del 2000, n. 408 del 1998, n. 87 del 1996).
Alla luce di tale criterio deve essere dichiarata l'inammissibilità della
questione di cui alla sopra indicata lettera f), secondo la quale la disciplina
impugnata violerebbe l'art. 3 Cost., sotto il profilo del principio di
eguaglianza, perché discriminerebbe tra cittadini rispettosi della legalità e
cittadini che non lo siano, in sfavore dei primi.
È del tutto evidente, infatti,
che tale vizio non sarebbe in grado di incidere in alcun modo sulla sfera di
autonomia delle ricorrenti. Per le medesime ragioni è inammissibile anche la
censura di cui alla sopra indicata lettera e), secondo la quale la disciplina
impugnata violerebbe l'art. 25 Cost. e, in particolare, i principi di legalità, tassatività e certezza delle norme penali.
14. – Vanno disattese, invece, le eccezioni di inammissibilità formulate
dall'Avvocatura dello Stato nei confronti delle censure di cui alle sopra
indicate lettere d) e t), secondo le quali le Regioni non sarebbero legittimate
a ricorrere avverso la disciplina impugnata, in quanto pretenderebbero di far
valere competenze non solo proprie, ma anche degli enti locali.
Infatti, la stretta connessione, in particolare in materia urbanistica e in tema
di finanza regionale e locale, tra le attribuzioni regionali e quelle delle
autonomie locali consente di ritenere che la lesione delle competenze locali sia
potenzialmente idonea a determinare una vulnerazione delle competenze regionali.
Ciò al di là del fatto che il nuovo quarto comma dell'art. 123 Cost. ha
configurato il Consiglio delle autonomie locali come organo necessario della
Regione e che l'art. 32, secondo comma, della legge n. 87 del 1953 (così come
sostituito dall'art. 9, comma 2, della legge n. 131 del 2003), ha attribuito
proprio a tale organo un potere di proposta alla Giunta regionale relativo al
promovimento dei giudizi di legittimità costituzionale in via diretta contro le
leggi dello Stato.
15. – Nel periodo intercorrente tra l'approvazione della legge di conversione n.
326 del 2003 e la proposizione dei ricorsi nei confronti di quest'ultima, è
intervenuta la legge 24 dicembre 2003, n. 350 (Disposizioni per la formazione
del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2004), che ha
abrogato i commi 6, 9 e 24 dell'art. 32 in questione.
Tale sopravvenienza
normativa, in considerazione del tenore delle censure rivolte avverso le
disposizioni menzionate, deve essere ritenuta satisfattiva delle pretese
regionali. Conseguentemente, anche alla luce della evidente inattuazione medio
tempore di tali disposizioni, deve essere dichiarata la cessazione della materia
del contendere riguardo alle predette censure.
16. – A questo punto è possibile passare ad esaminare i profili di merito delle rimanenti censure prospettate dalle Regioni ricorrenti, tenendo conto che i riferimenti che si faranno di seguito alle disposizioni oggetto del giudizio devono intendersi relativi, salvo diversa esplicita indicazione, al testo dell'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003 quale convertito in legge dalla legge n. 326 del 2003.
17. – In via preliminare appare opportuno evidenziare alcune caratteristiche
generali di questo nuovo condono edilizio.
Malgrado la titolazione dell'art. 32 sia “Misure per la riqualificazione
urbanistica, ambientale e paesaggistica, per l'incentivazione dell'attività di
repressione dell'abusivismo edilizio, nonché per la definizione degli illeciti
edilizi e delle occupazioni delle aree demaniali”, l'oggetto fondamentale di
tale disposizione è la previsione e la disciplina di un nuovo condono edilizio
esteso all'intero territorio nazionale, di carattere temporaneo ed eccezionale
rispetto all'istituto a carattere generale e permanente del “permesso di
costruire in sanatoria”, disciplinato dagli
artt. 36 e 45 del d.P.R. 6 giugno
2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in
materia edilizia), ancorato a presupposti in parte diversi e comunque sottoposto
a condizioni assai più restrittive.
Si tratta, peraltro, di un condono che si ricollega sotto molteplici aspetti ai
precedenti condoni edilizi che si sono succeduti dall'inizio degli anni ottanta:
ciò è reso del tutto palese dai molteplici rinvii contenuti nell'art. 32 alle
norme concernenti i precedenti condoni, ma soprattutto dal comma 25 dell'art.
32, il quale espressamente rinvia alle disposizioni dei “capi IV e V della legge
28 febbraio 1985, n. 47, e successive modificazioni e integrazioni, come
ulteriormente modificate dall'art. 39 della legge 23 dicembre 1994, n. 724, e
successive modificazioni e integrazioni”, disponendo che tale normativa, come
ulteriormente modificata dal medesimo art. 32, si applica “alle opere abusive”
cui la nuova legislazione appunto si riferisce. Attraverso questa tecnica
normativa, consistente nel rinvio alle disposizioni dell'istituto del condono
edilizio come configurato in precedenza, si ha una esplicita saldatura fra il
nuovo condono ed il testo risultante dai due precedenti condoni edilizi di tipo
straordinario, cui si apportano solo alcune limitate innovazioni.
Resta, in particolare, la caratteristica fondamentale di mantenere collegato il
condono penale con la sanatoria amministrativa: l'integrale pagamento
dell'oblazione, oltre a costituire il presupposto per l'estinzione dei reati
edilizi, estingue anche i relativi procedimenti di esecuzione delle sanzioni
amministrative (cfr. art. 38, secondo comma, della legge n. 47 del 1985) e
costituisce uno dei requisiti per il rilascio del titolo abilitativo in
sanatoria (commi 32 e 37 dell'art. 32 in questione); ancora, l'oblazione
interamente corrisposta costituisce condizione perché la sanatoria renda
inapplicabili le sanzioni amministrative, “ivi comprese le pene pecuniarie e le
sovrattasse previste per le violazioni delle disposizioni in materia di imposte
sui redditi relativamente ai fabbricati abusivamente eseguiti” (cfr. art. 38,
quarto comma, della legge n. 47 del 1985).
Ciò non esclude, peraltro, che – ove sia stata effettuata l'oblazione – pur in
presenza di diniego di sanatoria, si estinguano i reati edilizi e le sanzioni
amministrative consistenti nel pagamento di una somma di denaro siano “ridotte
in misura corrispondente all'oblazione versata” (art. 39 della legge n. 47 del
1985).
Rispetto ai precedenti, l'attuale condono risulta per alcuni profili più
ristretto, dal momento che il comma 25, relativamente alle nuove costruzioni
residenziali, pone un limite complessivo di 3.000 metri cubi ai volumi sanabili,
e definisce analiticamente le tipologie di abusi condonabili (comma 26 e
Allegato 1), introducendo altresì alcuni nuovi limiti all'applicabilità del
condono (comma 27), che si aggiungono a quanto previsto negli artt. 32 e 33
della legge n. 47 del 1985. A fianco di tali previsioni, viene disciplinata
analiticamente la possibilità di sanare opere abusive edificate su aree di
proprietà dello Stato o facenti parte del demanio statale o su aree gravate da
diritti di uso civico (commi da 14 a 20).
Il richiamo all'intero capo IV della legge n. 47 del 1985 rende applicabile
anche al presente condono la sospensione dei procedimenti amministrativi e
giurisdizionali disposta dall'art. 44 della legge n. 47 del 1985, con effetto
dalla data di entrata in vigore del decreto e fino alla scadenza dei termini
fissati per la presentazione delle domande di sanatoria [stabilito, come è noto,
originariamente al 31 marzo 2004, quindi differito al 31 luglio 2004 dal
decreto-legge 31 marzo 2004, n. 82 (Proroga di termini in materia edilizia),
convertito in legge ad opera della legge 28 maggio 2004 n. 141 (Conversione in
legge del decreto-legge 31 marzo 2004, n. 82, recante proroga di termini in
materia edilizia)].
La regolare e tempestiva presentazione di tale domanda al Comune competente,
nonché il versamento dell'oblazione, “sospende il procedimento penale e quello
per le sanzioni amministrative” (art. 38, primo comma, della legge n. 47 del
1985).
Il titolo abilitativo è rilasciato dal Comune, ove non vi siano motivi ostativi
(art. 35 della legge n. 47 del 1985), ma il comma 37 dell'art. 32 del d.l. n.
269 del 2003 dispone che il decorso di 24 mesi dalla consegna della
documentazione, senza che l'amministrazione abbia adottato un provvedimento
negativo, integra un'ipotesi di silenzio-assenso, che equivale al rilascio del
titolo abilitativo in sanatoria.
Da notare, infine, che permane l'atipicità dell'oblazione delineata da questa
legislazione (e destinata all'erario statale, ai sensi dell'art. 34, primo
comma, della legge n. 47 del 1985), che differisce sotto più profili
dall'istituto disciplinato in generale dagli artt. 162 e 162-bis del codice
penale, e la cui quantificazione è determinata o forfetariamente o in misura
rapportata alla tipologia dell'abuso, alla qualità degli immobili e alla
superficie della costruzione abusivamente realizzata (si veda, al riguardo, la
sentenza n. 369 del 1988).
Quanto al ruolo riconosciuto in questa legislazione alle autonomie territoriali,
i Comuni, principali titolari dei poteri pianificatori in materia urbanistica
nonché dei poteri gestionali, ivi compreso – come accennato – il “permesso di
costruire in sanatoria”, sono tenuti da questa legislazione a rilasciare il
titolo abilitativo in sanatoria (artt. 31 e 35, quattordicesimo comma, della
legge n. 47 del 1985), anche per le opere edilizie contrastanti con i loro atti
di pianificazione. A seguito della sanatoria sono altresì vincolati a rilasciare
“il certificato di abitabilità o agibilità anche in deroga ai requisiti fissati
da norme regolamentari, qualora le opere sanate non contrastino con le
disposizioni vigenti in materia di sicurezza statica” (art. 35, diciottesimo
comma, della legge n. 47 del 1985).
Tutto ciò comporta, come già ricordato, prima la sospensione del procedimento
relativo alle sanzioni amministrative, poi l'estinzione dei relativi
procedimenti di esecuzione, e infine, ove si giunga al rilascio del titolo in
sanatoria, la loro inapplicabilità. Al tempo stesso, questo condono
straordinario di fatto esclude, o comunque limita fortemente, la possibilità per
i Comuni di rilasciare l'ordinario “permesso di costruire in sanatoria”.
Per quel che concerne i maggiori costi che le amministrazioni comunali devono
affrontare, sia per lo svolgimento delle procedure amministrative sia per la
realizzazione delle opere di urbanizzazione e in genere per gli interventi di
riqualificazione delle aree interessate dalle opere abusive, l'art. 32 prevede
il ricorso a quattro diverse forme di introiti. La legge regionale può disporre
un incremento dell'oblazione fino al massimo del 10 per cento della misura
indicata dallo stesso art. 32 (Tabella C dell'Allegato 1) “ai fini della
attivazione di politiche di repressione degli abusi edilizi e per la promozione
di interventi di riqualificazione dei nuclei interessati da fenomeni di
abusivismo edilizio”, nonché per l'effettuazione di controlli periodici del
territorio (comma 33). La legge regionale, ancora, può incrementare “fino al
massimo del 100 per cento” gli oneri di concessione relativi alle opere abusive
oggetto di sanatoria (comma 34). La stessa amministrazione comunale può
aumentare fino ad un massimo del 10 per cento i diritti ed oneri ordinariamente
previsti per il rilascio dei titoli abilitativi edilizi “da utilizzare con le
modalità di cui all'articolo 2, comma 46, della legge 23 dicembre 1996, n. 662”
(comma 40). Infine, il Ministero dell'economia attribuisce ai Comuni il 50 per
cento delle somme riscosse a conguaglio dell'oblazione, “al fine di incentivare
la definizione delle domande di sanatoria” (comma 41).
La nuova normativa sul condono, peraltro, prevede direttamente (al comma 38, che
rinvia all'Allegato 1) la misura dell'anticipazione degli oneri concessori, la
cui determinazione è, invece, di competenza del Comune e della legge regionale (cfr.
art. 37 della legge n. 47 del 1985, nonché art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001).
Quanto alle Regioni, malgrado l'intervenuto accrescimento dei loro poteri in
conseguenza della riforma del Titolo V della parte II della Costituzione, l'art.
32 del d.l. n. 269 del 2003 riserva loro ambiti di intervento assai ristretti ed
entro termini molto esigui. Infatti, la normativa oggetto del presente giudizio
prevede che le Regioni mediante leggi possano intervenire solo in questi limiti:
per i soli illeciti relativi ad opere di restauro e risanamento conservativo o
ad opere di manutenzione straordinaria realizzate in aree non soggette ai
vincoli di cui all'art. 32 della legge n. 47 del 1985, come modificato dal comma
43 dell'impugnato art. 32, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore
della disciplina qui esaminata, la Regione, con propria legge, può determinare
“la possibilità, le condizioni e le modalità per l'ammissibilità a sanatoria di
tali tipologie di abuso edilizio” (comma 26, lettera b); entro i medesimi
sessanta giorni, possono anche essere emanate “norme per la definizione del
procedimento amministrativo relativo al rilascio del titolo abilitativo edilizio
in sanatoria” (comma 33); inoltre, nello stesso termine, può essere previsto,
tra l'altro, “un incremento dell'oblazione fino al massimo del 10 per cento
della misura determinata nella tabella C” (comma 33); ancora, è possibile
aumentare “gli oneri di concessione relativi alle opere abusive oggetto di
sanatoria […] fino al massimo del 100 per cento”, nonché individuare modalità di
attuazione della norma secondo cui chi esegua in tutto o in parte le opere di
urbanizzazione primaria o secondaria può detrarre dall'importo complessivo degli
oneri concessori quanto già versato a titolo di anticipazione (comma 34);
infine, si può prevedere l'obbligo di allegare alla domanda di definizione
dell'illecito ulteriore documentazione rispetto a quella già determinata dalla
legge statale (comma 35, lettera c).
18. – La pluralità ed eterogeneità dei profili di costituzionalità sollevati
dalle ricorrenti rende opportuno esaminare, in via prioritaria, le censure mosse
nei confronti dell'intero istituto disciplinato dall'art. 32 oggetto del
presente giudizio e delle sue caratteristiche complessive. A tale riguardo, è
ovviamente preliminare l'analisi dei rilievi di costituzionalità relativi alla
fonte utilizzata.
Le Regioni ricorrenti hanno anzitutto impugnato l'art. 32 del d.l. n. 269 del
2003 per asserito contrasto con l'art. 77 Cost., sia per carenza dei presupposti
di necessità e urgenza, sia per la disomogeneità del contenuto del
decreto-legge, sia, infine, perché il decreto-legge sarebbe inidoneo a porre i
principi fondamentali di cui all'art. 117, terzo comma, Cost. Inoltre, le
ricorrenti hanno negato la legittimità costituzionale della conversione in legge
dell'art. 32 ad opera della legge n. 326 del 2003, in quanto i vizi del
decreto-legge si ripercuoterebbero come vizi in procedendo sulla stessa legge di
conversione.
Le questioni non sono fondate.
Per ciò che riguarda in particolare l'art. 32 nel testo originario del
decreto-legge n. 269 del 2003, non può negarsi che la delicata materia del
condono edilizio potrebbe meritare una più meditata elaborazione tramite
l'ordinario procedimento di formazione delle leggi; al tempo stesso, peraltro,
potrebbero essere addotti per questo particolare istituto anche alcuni specifici
motivi per un'immediata adozione ed entrata in vigore del testo normativo,
destinato ad avere – come prima esposto – efficacia sulle procedure
giurisdizionali ed amministrative in corso, ma soprattutto per evitare o ridurre
spinte alla modifica del disegno di legge sotto la pressione di interessi
favorevoli a nuove opere abusive.
Se a ciò si aggiunge che in questo caso sembra aver pure pesato – seppur
opinabilmente – la necessità di inserire questo provvedimento in un assai più
ampio decreto-legge intitolato “Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e
per la correzione dell'andamento dei conti pubblici”, non può negarsi che ci si
trovi in un contesto nel quale la Corte costituzionale non può rilevare un caso
di “evidente mancanza” dei presupposti di necessità e di urgenza prescritti dal
secondo comma dell'art. 77 Cost., secondo la sua ormai consolidata
giurisprudenza in materia (fra le molte, cfr. da ultimo la sentenza n. 341 del
2003 e la sentenza n. 6 del 2004).
Quanto poi alla presunta carenza di omogeneità dell'oggetto del decreto-legge, è
sufficiente rilevare che non si tratta di requisito costituzionalmente imposto
(seppur opportunamente previsto dal comma 3 dell'art. 15 della legge 23 agosto
1988, n. 400, recante “Disciplina dell'attività di Governo ed ordinamento della
Presidenza del Consiglio dei Ministri”).
In ordine alla pretesa secondo la quale il decreto-legge sarebbe una fonte
strutturalmente inidonea alla posizione di principi fondamentali, deve essere
osservato che questa Corte ha già più volte chiarito che “un decreto-legge può
di per sé costituire legittimo esercizio dei poteri legislativi che la
Costituzione affida alla competenza statale, ivi compresa anche la
determinazione dei principi fondamentali nelle materie di cui al terzo comma
dell'art. 117 Cost.” (sentenza n. 6 del 2004).
Tali considerazioni, peraltro, valgono anche ad escludere la lamentata
violazione dell'art. 77 Cost. da parte della legge di conversione, senza che
occorra in questa sede prendere in esame la possibilità secondo la quale i vizi
del decreto-legge relativi alla carenza dei presupposti costituzionali per la
sua adozione si riverberino anche su quest'ultima quali vizi in procedendo (sul
punto, cfr. comunque le sentenze n. 341 del 2003, n. 29 e n. 16 del 2002, n. 398
del 1998 e n. 330 del 1996).
19. – La Regione Marche, nel ricorso contro l'art. 32 convertito dalla legge n.
326 del 2003, ha sollevato anche la questione di legittimità costituzionale
dell'intero istituto del condono in riferimento alla presunta lesione dell'art.
79 Cost., così riproponendo una tesi che già più volte in passato era stata
sostenuta in atti introduttivi di giudizi di legittimità costituzionale. In base
a tale ricostruzione, il condono costituirebbe in realtà un tipo di amnistia
impropria, che quindi andrebbe prevista e disciplinata solo tramite una legge
conforme alle rigide prescrizioni di cui all'art. 79 Cost.
La questione non è fondata.
L'assoluta mancanza di nuove argomentazioni a sostegno del rilievo di
costituzionalità sollevato, rispetto a quelle già in passato affrontate da
questa Corte, induce a confermare gli esiti della precedente giurisprudenza: se
nella sentenza n. 369 del 1988 si era negata la natura di amnistia impropria al
condono, a causa della “complessa fattispecie estintiva” del reato, che “viene
ad essere […] almeno di regola, costitutiva (di effetti amministrativi) ed estintiva (di effetti penali)”, e nella quale la non punibilità si produce
“soltanto a seguito delle manifestazioni di concrete volontà degli interessati e
dell'autorità amministrativa”, nella sentenza n. 427 del 1995 – adottata dopo la
modificazione dell'art. 79 Cost. ad opera della legge costituzionale 6 marzo
1992 n. 1 (Revisione dell'articolo 79 della Costituzione in materia di
concessione di amnistia e indulto) – questa tesi è stata esplicitamente
confermata, sottolineandosi inoltre come esistano nell'ordinamento casi di altre
leggi determinanti “lo stesso effetto estintivo del reato prodotto dal condono
edilizio”.
D'altra parte – come in precedenza evidenziato – l'attuale testo dell'art. 45
del d.P.R. n. 380 del 2001 prevede un analogo effetto estintivo del reato a
seguito del rilascio del permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell'art.
36 del medesimo d.P.R.
20. – In relazione alle censure di ordine sostanziale che le ricorrenti muovono
nei confronti dell'intero istituto disciplinato nelle disposizioni impugnate,
nonostante alcune di esse si rivolgano a contestare la stessa ammissibilità di
un condono edilizio, è opportuno prendere in esame anzitutto i rilievi fondati
sulla lamentata violazione del sistema costituzionale delle competenze, dal
momento che tutte le Regioni ricorrenti contestano primariamente la legittimità
costituzionale dell'art. 32 sulle base delle proprie attribuzioni costituzionali
in tema di edilizia, di urbanistica o di governo del territorio: se le Regioni
ad autonomia ordinaria lo fanno in riferimento ai commi terzo o quarto dell'art.
117 e all'art. 118 Cost., la Regione Friuli-Venezia Giulia lo fa in riferimento
all'art. 4, numero 12, e all'art. 8 della legge costituzionale n. 1 del 1963
(Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia).
Solo la Regione Campania e la Regione Marche sostengono la tesi secondo la quale
il condono edilizio inciderebbe in una materia di competenza residuale delle
Regioni di cui al quarto comma dell'art. 117 Cost. (l'edilizia o l'urbanistica),
mentre tutte le Regioni ad autonomia ordinaria ritengono che, ove la disciplina
oggetto del presente giudizio dovesse essere collocata nell'ambito di una
materia affidata alla competenza concorrente di Stato e Regioni (nel caso di
specie, “governo del territorio”), comunque contrasterebbe con l'art. 117, terzo
comma, Cost., per violazione dei limiti posti da tale disposizione al
legislatore statale. Ciò, innanzi tutto, in quanto l'art. 32 detterebbe una
normativa di dettaglio, per di più intrinsecamente non cedevole; in secondo
luogo, a causa della circostanza secondo la quale la stessa idea di condono
edilizio, in quanto disciplina eccezionale, non sarebbe idonea ad essere
qualificata quale principio fondamentale della materia.
Inoltre, si sostiene che, anche non contestandosi il pieno ed esclusivo potere
del legislatore statale in materia penale, che lo abilita ad escludere la
punibilità di determinate condotte, sarebbe inammissibile che la legge statale
incida contestualmente sulla sanzionabilità amministrativa degli illeciti
edilizi, che invece spetta all'autonomia regionale in quanto relativa alla
disciplina del “governo del territorio”.
La Regione Friuli-Venezia Giulia sostiene che, disponendo essa di competenza
legislativa primaria in materia di urbanistica, l'autonomia regionale in tale
ambito potrebbe essere legittimamente vincolata esclusivamente dalla
Costituzione, dai principi generali dell'ordinamento giuridico e dalle norme
fondamentali delle leggi di grande riforma economico-sociale, tra le quali non
potrebbe essere annoverata la previsione di un condono edilizio quale
disciplinato dall'art. 32 anche sul versante della disciplina urbanistica.
A loro volta, alcune Regioni ad autonomia ordinaria (la Regione Campania, la
Regione Marche e la Regione Toscana) evidenziano che alcune parti significative
della disciplina del condono di cui all'art. 32 contrasterebbero con il nuovo
art. 118 Cost., specie in riferimento al radicale svuotamento del principio di
sussidiarietà che deriverebbe dalla disciplina impugnata in un ambito
caratterizzato sia da funzioni indubbiamente proprie delle regioni, che da
un'area di tradizionale titolarità di funzioni di gestione amministrativa da
parte dei Comuni. Né, certo, la natura delle funzioni amministrative di gestione
in materia urbanistica potrebbe legittimare la loro attribuzione al livello
centrale in nome del principio di adeguatezza, come dimostrato dalla stessa
legislazione sul condono, che le mantiene ai Comuni pur vincolandone
radicalmente l'esercizio.
I suddetti rilievi appaiono in parte fondati, secondo quanto meglio di seguito
specificato.
Il condono edilizio di tipo straordinario, quale finora configurato nella nostra
legislazione, appare essenzialmente caratterizzato dalla volontà dello Stato di
intervenire in via straordinaria sul piano della esenzione dalla sanzionabilità
penale nei riguardi dei soggetti che, avendo posto in essere determinate
tipologie di abusi edilizi, ne chiedano il condono tramite i Comuni direttamente
interessati, assumendosi l'onere del versamento della relativa oblazione e dei
costi connessi all'eventuale rilascio del titolo abilitativo edilizio in
sanatoria, appositamente previsto da questa legislazione.
Non vi è dubbio sul fatto che solo il legislatore statale può incidere sulla
sanzionabilità penale (per tutte, v. la sentenza n. 487 del 1989) e che esso,
specie in occasione di sanatorie amministrative, dispone di assoluta
discrezionalità in materia “di estinzione del reato o della pena, o di non
procedibilità” (sentenze n. 327 del 2000, n. 149 del 1999 e n. 167 del 1989).
Peraltro, la circostanza che il comune sia titolare di fondamentali poteri di
gestione e di controllo del territorio rende necessaria la sua piena
collaborazione con gli organi giurisdizionali, poiché, come questa Corte ha
affermato, “il giudice penale non ha competenza «istituzionale» per compiere
l'accertamento di conformità delle opere agli strumenti urbanistici” (sentenza
n. 370 del 1988). Tale doverosa collaborazione per concretizzare la scelta del
legislatore statale di porre in essere un condono penale si impone quindi su
tutto il territorio nazionale, inerendo alla strumentazione indispensabile per
dare effettività a tale scelta.
Al tempo stesso rileva la parallela sanatoria amministrativa, anche attraverso
la previsione da parte del legislatore statale di uno straordinario titolo
abilitativo edilizio, a causa dell'evidente interesse di coloro che abbiano
edificato illegalmente ad un condono su entrambi i versanti, quello penale e
quello amministrativo; ma sul piano della sanatoria amministrativa i vincoli che
legittimamente possono imporsi all'autonomia legislativa delle Regioni,
ordinarie e speciali, non possono che essere quelli ammissibili sulla base
rispettivamente delle disposizioni contenute nel nuovo art. 117 Cost. e degli
statuti speciali.
Per ciò che riguarda l'art. 117 Cost., la giurisprudenza di questa Corte ha già
chiarito (cfr. le sentenze n. 303 e n. 362 del 2003) che nei settori
dell'urbanistica e dell'edilizia i poteri legislativi regionali sono senz'altro
ascrivibili alla nuova competenza di tipo concorrente in tema di “governo del
territorio”. E se è vero che la normativa sul condono edilizio di cui
all'impugnato art. 32 certamente tocca profili tradizionalmente appartenenti
all'urbanistica e all'edilizia, è altresì innegabile che essa non si esaurisce
in tali ambiti specifici ma coinvolge l'intera e ben più ampia disciplina del
“governo del territorio” – che già questa Corte ha ritenuto comprensiva, in
linea di principio, di “tutto ciò che attiene all'uso del territorio e alla
localizzazione di impianti o attività” (cfr. sentenza n. 307 del 2003) – ossia
l'insieme delle norme che consentono di identificare e graduare gli interessi in
base ai quali possono essere regolati gli usi ammissibili del territorio. Se poi
si considera anche l'indubbio collegamento della disciplina con la materia della
“valorizzazione dei beni culturali ed ambientali”, appare evidente che alle
Regioni è oggi riconosciuta al riguardo una competenza legislativa più ampia,
per oggetto, di quella contemplata nell'originario testo dell'art. 117 Cost.;
ciò – è bene ricordarlo – mentre le potestà legislative dello Stato di tipo
esclusivo, di cui al secondo comma dell'art. 117 Cost., sono state
consapevolmente inserite entro un elenco conchiuso.
Inoltre, nel nuovo art. 118 Cost. per la prima volta si è stabilito che, in
virtù del principio di sussidiarietà garantito in una disposizione
costituzionale, i Comuni sono normalmente titolari delle funzioni di gestione
amministrativa, riconoscendosi inoltre che “i Comuni, le Province e le Città
metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie”. A sua volta, il
quarto comma del nuovo art. 119 Cost. per la prima volta afferma che le normali
entrate dei Comuni devono consentire “di finanziare integralmente le funzioni
pubbliche loro attribuite”.
Tutto ciò implica necessariamente che, in riferimento alla disciplina del
condono edilizio (per la parte non inerente ai profili penalistici,
integralmente sottratti al legislatore regionale, ivi compresa – come già
affermato in precedenza – la collaborazione al procedimento delle
amministrazioni comunali), solo alcuni limitati contenuti di principio di questa
legislazione possono ritenersi sottratti alla disponibilità dei legislatori
regionali, cui spetta il potere concorrente di cui al nuovo art. 117 Cost. (ad
esempio certamente la previsione del titolo abilitativo edilizio in sanatoria di
cui al comma 1 dell'art. 32, il limite temporale massimo di realizzazione delle
opere condonabili, la determinazione delle volumetrie massime condonabili). Per
tutti i restanti profili è invece necessario riconoscere al legislatore
regionale un ruolo rilevante – più ampio che nel periodo precedente – di
articolazione e specificazione delle disposizioni dettate dal legislatore
statale in tema di condono sul versante amministrativo.
Al tempo stesso, se i Comuni possono, nei limiti della legge, provvedere a
sanare sul piano amministrativo gli illeciti edilizi, viene in evidente rilievo
l'inammissibilità di una legislazione statale che determini anche la misura
dell'anticipazione degli oneri concessori e le relative modalità di versamento
ai Comuni; d'altronde, l'ordinaria disciplina vigente attribuisce il potere di
determinare l'ammontare degli oneri concessori agli stessi Comuni, sulla base
della legge regionale (art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001).
Per ciò che riguarda le Regioni ad autonomia particolare, ove nei rispettivi
statuti si prevedano competenze legislative di tipo primario, lo spazio di
intervento affidato al legislatore regionale appare maggiore, perché in questo
caso possono operare solo il limite della “materia penale” (comprensivo delle
connesse fasi procedimentali) e quanto è immediatamente riferibile ai principi
di questo intervento eccezionale di “grande riforma” (il titolo abilitativo
edilizio in sanatoria, la determinazione massima dei fenomeni condonabili),
mentre spetta al legislatore regionale la eventuale indicazione di ulteriori
limiti al condono, derivanti dalla sua legislazione sulla gestione del
territorio: d'altra parte, su questo piano esiste il precedente costituito dalla
sentenza di questa Corte n. 418 del 1995, pronunciata appunto in relazione al
rapporto tra le competenze statali relative al condono edilizio del 1994 e le
competenze della Provincia autonoma di Trento, dotata in materia di potestà
legislativa primaria.
È significativo che questa stessa sentenza prendesse positivamente atto
dell'avvenuta adozione, nelle more del giudizio, della legge della Provincia
autonoma di Trento 18 aprile 1995, n. 5 (Definizione agevolata delle violazioni
edilizie – condono edilizio), che, determinando “disposizioni di coordinamento
per l'applicazione nel territorio nella Provincia delle norme contenute
nell'articolo 39 della legge 23 dicembre 1994, n. 724”, subordinava la
sanabilità amministrativa delle opere abusive anche al rispetto di tutta una
serie di vincoli determinati dalla legislazione provinciale (cfr., in
particolare, gli artt. 1 e 8), da accertare tramite speciali procedimenti
dell'amministrazione provinciale, con esiti vincolanti per le amministrazioni
comunali (cfr. gli artt. 5, 6 e 7).
Questa legislazione conferma, in una particolare realtà territoriale, quella che
è una più generale caratteristica della legislazione sul condono, nella quale
normalmente quest'ultimo ha effetti sia sul piano penale che sul piano delle
sanzioni amministrative, ma che non esclude la possibilità che le procedure
finalizzate al conseguimento dell'esenzione dalla punibilità penale si
applichino ad un maggior numero di opere edilizie abusive rispetto a quelle per
le quali operano gli effetti estintivi degli illeciti amministrativi; ciò è reso
d'altra parte evidente nelle disposizioni dello stesso Capo IV della legge n. 47
del 1985, e successive modificazioni e integrazioni, che nell'art. 38 disciplina
separatamente, al secondo ed al quarto comma, i presupposti del condono penale
(il versamento dell'intera oblazione) ed amministrativo (il conseguimento del
titolo abilitativo in sanatoria) e nell'art. 39 prevede che, ove si sia
effettuata l'oblazione, si produca comunque l'estinzione dei reati anche ove “le
opere non possano conseguire la sanatoria”.
D'altra parte, anche l'art. 32 impugnato prevede, al comma 36, i presupposti per
il verificarsi dell'effetto estintivo penale, mentre i diversi presupposti per
il conseguimento del titolo abilitativo in sanatoria sono regolati dal comma 37,
così confermando che i due effetti possono essere indipendenti l'uno dall'altro,
dal momento che l'effetto penale si produce a prescindere dall'intervenuta
concessione della sanatoria amministrativa e anche se la sanatoria
amministrativa non possa essere concessa.
21. – L'insieme delle considerazioni fin qui sviluppate induce a ritenere alcune
parti della nuova disciplina del condono edilizio contenuta nell'art. 32
impugnato contrastanti con gli artt. 117 e 118 Cost., per ciò che riguarda le
Regioni ad autonomia ordinaria, nonché con gli artt. 4, numero 12, e 8 della
legge costituzionale n. 1 del 1963, per ciò che riguarda la Regione
Friuli-Venezia Giulia: ciò perché questa norma, in particolare, comprime
l'autonomia legislativa delle Regioni, impedendo loro di fare scelte diverse da
quelle del legislatore nazionale, ancorché nell'ambito dei principi legislativi
da questo determinati.
L'individuazione di profili di sicura competenza statale nella disciplina in
esame, sia per la parte relativa agli aspetti penalistici sia per la parte
relativa alla determinazione dei principi fondamentali sul governo del
territorio, inducono questa Corte ad una dichiarazione di illegittimità
costituzionale solo parziale, limitandola a quelle disposizioni del testo
legislativo che, in contraddizione con gli stessi enunciati dell'art. 32 (il
comma 3 afferma che “le condizioni, i limiti e le modalità del rilascio del
predetto titolo abilitativo sono stabilite dal presente articolo e dalle
normative regionali”, mentre il comma 4 stabilisce che “sono in ogni caso fatte
salve le competenze delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome
di Trento e di Bolzano”), escludono il legislatore regionale da ambiti materiali
che invece ad esso spettano, sulla base delle disposizioni costituzionali e
statutarie.
Il riconoscimento in capo alle regioni di adeguati poteri legislativi, da
esercitare entro termini congrui, rafforza indirettamente anche il ruolo dei
Comuni, dal momento che indubbiamente questi possono influire sul procedimento
legislativo regionale in materia, sia informalmente sia, in particolare,
usufruendo dei vari strumenti di partecipazione previsti dagli statuti e dalla
legislazione delle Regioni (in anticipazione o in attuazione di quanto ora
previsto dal nuovo quarto comma dell'art. 123 Cost.).
Alla stregua di quanto sopra detto, deve essere dichiarato costituzionalmente
illegittimo anzitutto il comma 26 dell'art. 32, nella parte in cui non prevede
che la legge regionale possa determinare la possibilità, le condizioni e le
modalità per l'ammissibilità a sanatoria di tutte le tipologie di abuso edilizio
di cui all'Allegato 1 del d.l. n. 269 del 2003.
Analoga dichiarazione di illegittimità costituzionale va pronunziata per il
comma 25 dell'art. 32, nella parte in cui non prevede che la legge regionale di
cui al comma 26 possa determinare limiti volumetrici inferiori a quelli indicati
nella medesima disposizione.
In terzo luogo, i possibili diversi limiti opponibili dalla legge regionale non
possono non riguardare anche quelle opere situate nel territorio regionale cui i
commi 14 e seguenti dell'art. 32 rendono applicabile il condono, malgrado si
tratti di beni che insistono su aree di proprietà dello Stato o facenti parte
del demanio statale: da ciò la dichiarazione di illegittimità costituzionale del
comma 14, nella parte in cui non prevede che la legge regionale di cui al comma
26 si applichi anche a questa categoria particolare di opere.
In quarto luogo, appare del tutto incongrua, rispetto alla complessità delle
scelte spettanti alle autonomie regionali, la determinazione nel comma 33 di un
termine perentorio di sessanta giorni – connesso alla previsione di cui alla
lettera b) del comma 26 – entro il quale le Regioni dovrebbero esercitare il
loro potere normativo; da ciò la dichiarazione di illegittimità costituzionale
dell'inciso “entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente
decreto” e la necessità che esso sia sostituito con il rinvio esplicito alla
legge regionale di cui al comma 26.
In quinto luogo, va altresì dichiarata la incostituzionalità del comma 37, nella
parte in cui non prevede che la legge regionale di cui al comma 26 possa
disciplinare diversamente gli effetti del silenzio, protratto oltre il termine
ivi previsto, del Comune cui gli interessati abbiano presentato la
documentazione richiesta.
In sesto luogo, va dichiarata l'illegittimità costituzionale del comma 38, nella
parte in cui prevede che sia l'Allegato 1 dello stesso d.l. n. 269 del 2003,
anziché la legge regionale di cui al comma 26, a determinare la misura
dell'anticipazione degli oneri concessori, nonché le relative modalità di
versamento; conseguentemente, è da dichiarare costituzionalmente illegittimo lo
stesso Allegato 1, nelle parti in cui determina la misura dell'anticipazione
degli oneri concessori e le relative modalità di versamento.
In settimo luogo, deve essere dichiarata l'illegittimità costituzionale
dell'art. 32 impugnato, nella parte in cui non prevede che la legge regionale di
cui al comma 26 debba essere emanata entro un congruo termine da stabilirsi ad
opera del legislatore statale.
Infatti, il necessario riconoscimento del ruolo legislativo delle regioni nella
attuazione della legislazione sul condono edilizio straordinario esige, ai fini
dell'operatività della normativa in esame, che il legislatore nazionale provveda
alla rapida fissazione di un termine, che dovrà essere congruo perché le regioni
e le province autonome possano determinare tutte le specificazioni cui sono
chiamate dall'art. 32 – quale risultante dalla presente sentenza – sulla base
del dettato costituzionale e dei rispettivi statuti speciali. Il legislatore
nazionale dovrà inoltre provvedere a ridefinire i termini previsti, per gli
interessati, nei commi 15 e 32 dell'art. 32, nonché nell'Allegato 1 al d.l. n.
269 del 2003, convertito in legge ad opera della legge n. 326 del 2003, di
recente già prorogati dal d.l. n. 82 del 2004, convertito dalla legge n. 141 del
2004 (ciò ovviamente facendo salve le domande già presentate). È peraltro
evidente che la facoltà degli interessati di presentare la domanda di condono
dovrà essere esercitabile in un termine ragionevole a partire dalla scadenza del
termine ultimo posto alle Regioni per l'esercizio del loro potere legislativo.
In considerazione della particolare struttura del condono edilizio straordinario
qui esaminato, che presuppone un'accentuata integrazione fra il legislatore
statale ed i legislatori regionali, l'adozione della legislazione da parte delle
Regioni appare non solo opportuna, ma doverosa e da esercitare entro il termine
determinato dal legislatore nazionale; nell'ipotesi limite che una Regione o
Provincia autonoma non eserciti il proprio potere legislativo in materia nel
termine massimo prescritto, a prescindere dalla considerazione se ciò
costituisca, nel caso concreto, un'ipotesi di grave violazione della leale
cooperazione che deve caratterizzare i rapporti fra Regioni e Stato, non potrà
che trovare applicazione la disciplina dell'art. 32 e dell'Allegato 1 del d.l.
n. 269 del 2003, così come convertito in legge dalla legge n. 326 del 2003
(fatti salvi i nuovi termini per gli interessati).
Le suddette considerazioni assorbono i rilievi mossi contro i commi 1, 2, 3 e 4
dell'art. 32.
22. – Le conclusioni appena raggiunte circa la parziale illegittimità costituzionale delle disposizioni impugnate per violazione delle attribuzioni costituzionalmente riconosciute alle autonomie regionali non possono non influire sulla valutazione delle ulteriori e più generali censure di ordine sostanziale proposte dalle Regioni ricorrenti.
23. – Alcune delle Regioni ricorrenti contestano la complessiva legittimità
costituzionale della nuova legislazione sul condono edilizio poiché opererebbe
un illegittimo bilanciamento fra valori costituzionali primari ed altri
interessi pubblici: in particolare, si sacrificherebbe irrimediabilmente la
tutela dei beni ambientali e paesaggistici di cui al secondo comma dell'art. 9
Cost., così violando anche l'art. 117, terzo comma, Cost., che affida alla
competenza regionale la valorizzazione dei beni ambientali. La giurisprudenza
costituzionale avrebbe elaborato un “principio costituzionale di indisponibilità
dei valori costituzionalmente tutelati”; conseguentemente, il valore
costituzionale di un ordinato assetto del territorio non potrebbe “essere
scambiato con valori puramente finanziari”, come invece avverrebbe nel caso
della sanatoria edilizia.
La questione non è fondata.
Non v'è dubbio che gli interessi coinvolti nel condono edilizio, in particolare
quelli relativi alla tutela del paesaggio come “forma del territorio e
dell'ambiente”, siano stati ripetutamente qualificati da questa Corte come
“valori costituzionali primari” (cfr., tra le molte, le sentenze n. 151 del
1986, n. 359 e n. 94 del 1985); primarietà che la stessa giurisprudenza
costituzionale ha esplicitamente definito come “insuscettibilità di
subordinazione ad ogni altro valore costituzionalmente tutelato, ivi compresi
quelli economici” (in questi termini, v. sentenza n. 151 del 1986). Tale
affermazione rende evidente che questa “primarietà” non legittima un primato
assoluto in una ipotetica scala gerarchica dei valori costituzionali, ma origina
la necessità che essi debbano sempre essere presi in considerazione nei concreti
bilanciamenti operati dal legislatore ordinario e dalle pubbliche
amministrazioni; in altri termini, la “primarietà” degli interessi che assurgono
alla qualifica di “valori costituzionali” non può che implicare l'esigenza di
una compiuta ed esplicita rappresentazione di tali interessi nei processi
decisionali all'interno dei quali si esprime la discrezionalità delle scelte
politiche o amministrative.
Il bilanciamento che nel caso di specie verrebbe in considerazione, secondo le
ricorrenti, è quello tra i valori tutelati in base all'art. 9 Cost. e le
esigenze di finanza pubblica; a questo proposito, però, le Regioni ritengono che
nella disciplina impugnata si opererebbe una totale e definitiva compromissione
dell'interesse paesistico-ambientale: ciò in quanto uno dei due interessi
(quello relativo alla tutela dell'ambiente, del paesaggio e del territorio)
apparirebbe, a differenza dell'altro, sacrificato in via del tutto definitiva (e
ciò a differenza di altri condoni, come quello fiscale, che pure comportano
effetti di clemenza penale).
In realtà, questa Corte, nella sua copiosa giurisprudenza in tema di condono
edilizio, ha più volte riconosciuto – in particolare nella sentenza n. 85 del
1998 – come in un settore del genere vengano in rilievo una pluralità di
interessi pubblici, che devono necessariamente trovare un punto di equilibrio,
poiché il fine di questa legislazione è quello di realizzare un contemperamento
dei valori in gioco: quelli del paesaggio, della cultura, della salute, della
conformità dell'iniziativa economica privata all'utilità sociale, della funzione
sociale della proprietà da una parte, e quelli, pure di fondamentale rilevanza
sul piano della dignità umana, dell'abitazione e del lavoro, dall'altra
(sentenze n. 302 del 1996 e n. 427 del 1995).
Alla luce di tali considerazioni, la disciplina del condono edilizio di cui
all'art. 32 impugnato, come risultante dalle già argomentate dichiarazioni di
illegittimità costituzionale parziale (che ne determinano, tra l'altro, la
sostanziale discontinuità rispetto ai precedenti condoni del 1985 e del 1994),
non appare, allo stato attuale, in contrasto con la primarietà dei valori
sanciti nell'art. 9 Cost. È infatti evidente che la tutela di un fondamentale
valore costituzionale sarà tanto più effettiva quanto più risulti garantito che
tutti i soggetti istituzionali cui la Costituzione affida poteri legislativi ed
amministrativi siano chiamati a contribuire al bilanciamento dei diversi valori
in gioco. E il doveroso riconoscimento alla legislazione regionale di un ruolo
specificativo – all'interno delle scelte riservate al legislatore nazionale –
delle norme in tema di condono contribuisce senza dubbio a rafforzare la più
attenta e specifica considerazione di quegli interessi pubblici, come la tutela
dell'ambiente e del paesaggio, che sono – per loro natura – i più esposti a
rischio di compromissione da parte delle legislazioni sui condoni edilizi.
24. – Non pochi rilievi di costituzionalità sollevati dalle Regioni concernono
la violazione dell'art. 3 Cost., sotto il profilo della pretesa irragionevolezza
del nuovo condono edilizio, in relazione ad una serie di elementi convergenti,
essenzialmente caratterizzati dalla mancata considerazione, da parte del
legislatore statale, dei mutamenti che si sono prodotti nel periodo più recente
nella legislazione e nella gestione urbanistica. In sostanza, la attuale
disciplina in tema di condono edilizio si porrebbe in contrasto con il principio
di ragionevolezza, poiché mancherebbero del tutto quelle circostanze eccezionali
che, nelle precedenti situazioni, avevano portato la Corte costituzionale a
ritenere giustificata la sanatoria; inoltre, l'irragionevolezza scaturirebbe
dalla inidoneità intrinseca dello strumento rispetto agli scopi perseguiti in
modo esplicito o implicito.
Le predette argomentazioni sono basate sulla circostanza secondo la quale, nelle
precedenti occasioni, il condono era stato ritenuto strumento costituzionalmente
accettabile in quanto inteso come “chiusura di una epoca di illegalità e punto
di partenza di una nuova legalità”; e ciò in considerazione sia delle
caratteristiche della normativa urbanistica allora in vigore, che appariva
arcaica e farraginosa, sia della evidente incapacità dei Comuni di assicurare il
rispetto della medesima normativa.
Secondo le ricorrenti, invece, occorrerebbe prendere atto che – al momento
attuale – da una parte la ripetizione nel tempo del condono vanificherebbe i
suoi effetti positivi, rinviando di continuo il punto di “ripartenza” della
nuova legalità, mentre, dall'altra, sarebbe venuta meno quella situazione di farraginosità normativa che aveva giustificato la sanatoria del 1985 e che già
nel 1994 (sentenza n. 427 del 1995) non era più considerata elemento rilevante.
Inoltre, nel periodo più recente si sarebbe potuto registrare non solo il
consolidamento della nuova legislazione urbanistica, specie tramite l'adozione
del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, ma anche un significativo incremento
delle attività di repressione degli illeciti edilizi e dunque un aumento del
tasso complessivo di legalità nel settore.
Conseguentemente, la disciplina di sanatoria in esame, per le ricorrenti, da un
lato sarebbe priva degli antichi presupposti che ne potevano sorreggere
l'intrinseca adeguatezza rispetto agli obiettivi di riassetto del territorio,
dall'altro assumerebbe inevitabilmente una potenzialità dannosa rispetto ai
medesimi obiettivi, poiché si vanificherebbe quanto fino ad oggi è stato
realizzato con il decisivo apporto delle autonomie territoriali.
In relazione agli obiettivi impliciti (l'entrata finanziaria), le Regioni
ricorrenti affermano che la quantificazione delle risorse acquisibili alle casse
dello Stato risulterebbe fondata su elementi assolutamente incerti e aleatori;
in secondo luogo, si afferma che alle entrate programmate dovrebbero
corrispondere certamente ingenti oneri di spesa aggiuntiva a carico degli enti
territoriali per la realizzazione delle opere di urbanizzazione e per la
riqualificazione del territorio, oneri che non sarebbero stati stimati
esattamente dal legislatore statale, così impedendo ogni corretto bilanciamento
dei valori costituzionali in gioco.
Le questioni, nei termini appena precisati, non sono fondate.
Questa Corte, nella già richiamata giurisprudenza in tema di condono edilizio,
ha più volte messo in evidenza che fondamento giustificativo di questa
legislazione è stata la necessità di “chiudere un passato illegale” in attesa di
poter infine giungere ad una repressione efficace dell'abusivismo edilizio, pur
se non sono state estranee a simili legislazioni anche “ragioni contingenti e
straordinarie di natura finanziaria” (tra le altre, cfr. sentenze n. 256 del
1996, n. 427 del 1995 e n. 369 del 1988, nonché ordinanza n. 174 del 2002).
Ciò a giustificazione di un provvedimento normativo senza dubbio eccezionale e
straordinario, che deve trovare la propria ratio sia nella “persistenza del
fenomeno dell'abusivismo, con conseguente esigenza di recupero della legalità”,
sia nella imputabilità di tale fenomeno di abusivismo “almeno in parte, proprio
alla scarsa incisività e tempestività dell'azione di controllo del territorio da
parte degli enti locali e delle Regioni” (cfr. sentenza n. 256 del 1996 e,
analogamente, sentenze n. 302 del 1996 e n. 270 del 1996).
Su questo piano, non può negarsi che la legislazione statale negli ultimi anni
sia profondamente mutata, prevedendo ormai strumenti preventivi e repressivi
adeguati, e che abbia trovato anche una sua relativa stabilizzazione nel recente
testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia
adottato con d.P.R. n. 380 del 2001 (non a caso, il comma 2 dello stesso art. 32
impugnato si riferisce appunto – seppur con norma contestata dalle ricorrenti ed
alla quale si farà riferimento oltre – a questo testo unico come ad una fonte
idonea a creare discontinuità nella stessa legittimazione ad adottare un condono
edilizio).
Al tempo stesso, non poche realtà comunali e regionali sembrano aver assunto
linee di politica amministrativa e legislativa coerenti con un'azione di
contrasto dell'abusivismo edilizio, anche se certo non in modo omogeneo in tutto
il territorio nazionale.
In realtà, la giurisprudenza di questa Corte ha sempre considerato ogni condono
edilizio, che incide – come si è ripetutamente sottolineato – sulla
sanzionabilità penale e sulla stessa certezza del diritto, nonché sulla tutela
di valori essenziali come il paesaggio e l'equilibrato sviluppo del territorio,
solo come un istituto “a carattere contingente e del tutto eccezionale” (in tale
senso, ad esempio, sentenze n. 427 del 1995 e n. 416 del 1995), ammissibile solo
“negli stretti limiti consentiti dal sistema costituzionale” (sentenza n. 369
del 1988), dovendo in altre parole “trovare giustificazione in un principio di
ragionevolezza” (sentenza n. 427 del 1995).
Pertanto questa Corte, specie dinanzi alla sostanziale reiterazione – tramite
l'art. 39 della legge n. 724 del 1994 – del condono edilizio degli anni ottanta,
più volte ha ammonito che non avrebbe superato il vaglio di costituzionalità una
ulteriore reiterazione sostanziale della preesistente legislazione del condono
(fra le molte, cfr. sentenze n. 427 del 1995 e n. 416 del 1995, nonché ordinanze
n. 174 del 2002, n. 45 del 2001 e n. 395 del 1996).
Tali affermazioni, tuttavia, non implicano l'illegittimità costituzionale di
ogni tipo di condono edilizio straordinario, mai affermata da questa Corte.
Piuttosto, occorre uno stretto esame di costituzionalità del testo legislativo
che preveda un nuovo condono edilizio, al fine di individuare un ragionevole
fondamento, nonché elementi di discontinuità rispetto ai precedenti condoni
edilizi, in modo da evitare l'obiezione secondo cui si sarebbe in realtà
prodotto un vero e proprio ordinamento legislativo stabile, diverso e
contrapposto a quello ordinario, della cui gestione per di più sono in larga
parte titolari soggetti istituzionali diversi dallo Stato.
Sottoponendo l'art. 32 oggetto del presente giudizio all'esame se sussista una
giustificazione del condono, rileva il comma 2 di questo articolo, il quale
esprime – seppure con linguaggio in parte improprio – l'opportunità che si
preveda ancora una volta un intervento straordinario di condono edilizio nelle
contingenze particolari della recente entrata in vigore del testo unico delle
disposizioni in materia edilizia (che – tra l'altro – disciplina analiticamente
la vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia e le relative responsabilità e
sanzioni), nonché dell'entrata in vigore del nuovo Titolo V della seconda Parte
della Costituzione, che consolida ulteriormente nelle regioni e negli enti
locali la politica di gestione del territorio. In tale particolare contesto, pur
trattandosi ovviamente di scelta nel merito opinabile, non sembrano rilevare
elementi di irragionevolezza tali da condurre ad una dichiarazione di
illegittimità costituzionale dell'art. 32.
In realtà, il comma 2 dell'art. 32 è stato interpretato da alcune ricorrenti
come finalizzato a sospendere l'esercizio dei poteri legislativi delle stesse
Regioni “nelle more dell'adeguamento della disciplina regionale ai principi
contenuti nel testo unico” e quindi a legittimare l'intervento legislativo
statale, che supplirebbe al mancato intervento delle Regioni. Peraltro,
un'interpretazione del genere urterebbe in modo palese sia con la nuova
disciplina costituzionale, che non subordina l'esercizio dei poteri regionali al
previo recepimento dei principi fondamentali, sia con l'indirizzo
giurisprudenziale di questa Corte sul principio di continuità legislativa (cfr.
fra le altre, sentenze n. 383 e n. 376 del 2002, nonché ordinanza n. 270 del
2003).
Da ciò la necessità che, invece, al comma 2 dell'art. 32 si dia
l'interpretazione prima esposta, compatibile con l'attuale ordinamento
costituzionale, tra l'altro così valorizzando il dato testuale dell'inciso in
esso contenuto “in conformità al titolo V della Costituzione”.
25. – Quanto agli altri rilievi di costituzionalità formulati dalle Regioni
ricorrenti in relazione alla complessiva normativa di cui all'art. 32, va
anzitutto fatto riferimento a quello fondato sulla pretesa violazione del
giudicato costituzionale e cioè di quanto previsto dal terzo comma dell'art. 137
Cost.: a tal fine vengono citate, in particolare, le sentenze n. 427 e n. 416 e
del 1995, n. 231 del 1993, n. 369 e n. 302 del 1988, con cui sarebbe stato
“attribuito al regime di sanatoria […] carattere episodico e delimitato temporalmente”, pena la sua illegittimità costituzionale.
La questione non è fondata.
Anche volendosi prescindere dal fatto che, come affermato in precedenza, la
giurisprudenza di questa Corte non può essere interpretata come assolutamente
preclusiva rispetto alla ammissibilità di condoni edilizi straordinari, la
censura è priva di fondamento, in quanto l'ultimo comma dell'art. 137 Cost.
non
può essere riferito ad un nuovo atto legislativo ritenuto contrastante con
precedenti affermazioni di questa Corte relative ad altri atti legislativi.
26. – Le ricorrenti sostengono, inoltre, che l'art. 32 contrasterebbe con l'art.
119 Cost., in quanto il condono edilizio previsto dalla normativa impugnata
sarebbe stato disposto in vista di esigenze finanziarie del bilancio statale, ma
comporterebbe spese particolarmente ingenti, di vario genere, a carico delle
finanze comunali, a fronte di una compartecipazione al gettito delle operazioni
di condono che sarebbe decisamente esigua.
La questione non è fondata.
All'evidente interesse dello Stato agli introiti straordinari derivanti
dall'oblazione (solo parzialmente ridotti dalla previsione, di cui al comma 41,
secondo cui spetta ai Comuni la metà delle somme riscosse a conguaglio
dell'oblazione), corrispondono, nell'art. 32 impugnato, quattro diverse forme di
possibile incremento delle finanze locali, previste dai commi 33, 34, 40 e 41;
tali entrate non solo sono di ardua quantificazione, ma sono difficilmente
raffrontabili con gli impegni finanziari delle amministrazioni comunali
conseguenti all'applicazione del condono edilizio (a loro volta di incerta
entità). Inoltre, l'attribuzione al legislatore regionale del potere di
specificare la disciplina del condono sul piano amministrativo, secondo quanto
esposto al precedente punto 21, potrà far considerare in questa legislazione
regionale i profili attinenti alle conseguenze del condono sulle finanze
comunali.
27. – In relazione alla censura concernente la pretesa illegittimità
costituzionale dell'art. 32, per violazione del principio di leale
collaborazione nei procedimenti legislativi – che sarebbe affermato o deducibile
dall'art. 2 del d.lgs. n. 281 del 1997 – e del principio costituzionale che
prescriverebbe “la partecipazione regionale al procedimento legislativo delle
leggi statali ordinarie, quando queste intervengono in materia di competenza
concorrente”, che sarebbe desumibile dall'art. 11 della legge costituzionale n.
3 del 2001, secondo le ricorrenti tale violazione sarebbe resa palese dal fatto
che le Regioni non sono state consultate attraverso la Conferenza Stato-Regioni
né in sede di adozione del decreto-legge, né in sede di adozione del disegno di
legge di conversione.
La questione non è fondata.
Ciò anzitutto perché non è individuabile un fondamento costituzionale
dell'obbligo di procedure legislative ispirate alla leale collaborazione tra
Stato e Regioni (né risulta sufficiente il sommario riferimento all'art. 11
della legge costituzionale n. 3 del 2001).
Quanto alla disciplina contenuta nell'art. 2 del d.lgs. n. 281 del 1997 (atto
normativo primario), essa prevede solo un parere non vincolante della Conferenza
Stato-Regioni sugli “schemi di disegni di legge e di decreto legislativo o di
regolamento”, mentre non prevede ovviamente nulla di analogo per i
decreti-legge, la cui adozione è consentita, ai sensi dell'art. 77, secondo
comma, Cost., solo “in casi straordinari di necessità e di urgenza”; né è
pensabile che il parere della Conferenza Stato-Regioni possa essere chiesto sul
disegno di legge di conversione, che deve essere presentato immediatamente alle
Camere e non può che avere il contenuto tipico di un testo di conversione. In
relazione alla previsione, nel comma 5 dell'art. 2 del d.lgs. n. 281 del 1997,
che il Governo debba sentire la Conferenza Stato-Regioni successivamente, nella
fase della conversione dei decreti-legge, la procedura ivi prevista appare
configurata come una mera eventualità.
28. – Debbono a questo punto essere esaminati gli specifici profili di censura
di singole disposizioni avanzati dalle ricorrenti nell'ipotesi in cui questa
Corte non avesse dichiarato la complessiva illegittimità costituzionale
dell'art. 32.
Al riguardo sono da considerare assorbiti non soltanto i rilievi relativi alle
disposizioni in precedenza dichiarate in parte costituzionalmente illegittime –
commi 25, 26 e 37 – ma anche la specifica impugnazione del comma 35 (relativo
alla documentazione da allegare alla domanda di condono), in quanto il
particolare ruolo che viene ad essere riconosciuto ai legislatori regionali
consente di ritenere soddisfatte le pretese delle ricorrenti. Analogamente è da
dirsi in riferimento alla censura relativa ai commi da 14 a 20 dell'art. 32, dal
momento che la dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale del comma
14 risponde pienamente alle ragioni di doglianza fatte valere nei ricorsi
introduttivi del giudizio.
Va invece dichiarata non fondata la particolare questione concernente il comma 5
in relazione agli artt. 117 e 118 Cost., là dove è affidato al Ministero delle
infrastrutture e dei trasporti, d'intesa con le Regioni interessate, un compito
di supporto alle amministrazioni comunali ai fini dell'applicazione della
disciplina oggetto del presente giudizio e per il coordinamento con la legge n.
47 del 1985 e con l'art. 39 della legge n. 724 del 1994. La previsione
dell'intesa con ciascuna delle Regioni interessate, quale condizione affinché il
Ministero possa esercitare questa attività di semplice “supporto” agli enti
locali, rende evidente l'assenza di qualunque profilo di lesione delle
competenze costituzionalmente riconosciute alle ricorrenti.
29. – Da ultimo, viene in considerazione la questione concernente il comma
49-ter, introdotto dalla legge di conversione, che viene impugnato in quanto,
concentrando nell'autorità prefettizia la competenza a far effettuare le
demolizioni conseguenti ad abusi edilizi, violerebbe il terzo comma dell'art.
117 Cost., in quanto norma di dettaglio e non principio fondamentale, e l'art.
118 Cost., in quanto sottrarrebbe ai Comuni una funzione amministrativa,
concentrandola in un organo statale senza che ciò sia giustificabile in base ad
esigenze unitarie.
La questione è fondata.
La norma in oggetto sostituisce l'art. 41 del d.P.R. n. 380 del 2001, che, nella
sua formulazione originaria, prevedeva le diverse procedure che il Comune poteva
seguire in tutti i casi in cui la demolizione dovesse avvenire a cura dello
stesso Comune (anche con l'intervento a sostegno di organi statali), con la
possibilità, qualora si rivelasse impossibile l'affidamento dei lavori di
demolizione, di darne notizia all'ufficio territoriale del Governo, il quale
provvedeva alla demolizione. Il comma 49-ter prevede invece che il Comune, così
come le amministrazioni statali e regionali, debbano trasmettere ogni anno al
prefetto l'elenco delle opere da demolire e che il prefetto provveda
all'esecuzione delle demolizioni.
La disposizione in oggetto contrasta con il primo ed il secondo comma dell'art.
118 Cost., dal momento che non si limita ad agevolare ulteriormente l'esecuzione
della demolizione delle opere abusive da parte del Comune o anche, in ipotesi, a
sottoporre l'attività comunale a forme di controllo sostitutivo in caso di
mancata attività, ma sottrae al Comune la stessa possibilità di procedere
direttamente all'esecuzione della demolizione delle opere abusive, senza che vi
siano ragioni che impongano l'allocazione di tali funzioni amministrative in
capo ad un organo statale.
30. – Resta assorbito l'esame di ogni altra doglianza relativa ad ulteriori singoli commi dell'art. 32.
31. – Non vi è luogo a provvedere sulle istanze di sospensione dell'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003 e dell'art. 32 dello stesso d.l. come risultante dalla conversione in legge ad opera della legge n. 326 del 2003, presentate dalle Regioni Campania, Marche, Toscana ed Emilia-Romagna.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riservata ogni decisione sulle questioni di legittimità costituzionale relative
agli artt. 14, 21 e 32, commi 21, 22 e 23 del decreto-legge 30 settembre 2003,
n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione
dell'andamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge
24 novembre 2003, n. 326, sollevate dalle Regioni Campania, Toscana ed Emilia-Romagna con i ricorsi citati in epigrafe;
riuniti i giudizi,
1) dichiara l'illegittimità costituzionale del comma 25 dell'art. 32 del
decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo
sviluppo e per la correzione dell'andamento dei conti pubblici), nel testo
originario e in quello risultante dalla legge di conversione n. 326 del 2003,
nella parte in cui non prevede che la legge regionale di cui al comma 26 possa
determinare limiti volumetrici inferiori a quelli ivi indicati;
2) dichiara l'illegittimità costituzionale del comma 26 dell'art. 32 del
decreto-legge n. 269 del 2003, nel testo originario e in quello risultante dalla
legge di conversione n. 326 del 2003, nella parte in cui non prevede che la
legge regionale possa determinare la possibilità, le condizioni e le modalità
per l'ammissibilità a sanatoria di tutte le tipologie di abuso edilizio di cui
all'Allegato 1;
3) dichiara l'illegittimità costituzionale del comma 14 dell'art. 32 del
decreto-legge n. 269 del 2003, nel testo originario e in quello risultante dalla
legge di conversione n. 326 del 2003, nella parte in cui non prevede il rispetto
della legge regionale di cui al comma 26;
4) dichiara l' illegittimità costituzionale del comma 33 dell'art. 32 del
decreto-legge n. 269 del 2003, nel testo originario e in quello risultante dalla
legge di conversione n. 326 del 2003, nella parte in cui prevede le parole
“entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto”
anziché le parole “tramite la legge di cui al comma 26”;
5) dichiara l' illegittimità costituzionale del comma 37 dell'art. 32 del
decreto-legge n. 269 del 2003, nel testo originario e in quello risultante dalla
legge di conversione n. 326 del 2003, nella parte in cui non prevede che la
legge regionale di cui al comma 26 possa disciplinare diversamente gli effetti
del prolungato silenzio del Comune;
6) dichiara l'illegittimità costituzionale del comma 38 dell'art. 32 del
decreto-legge n. 269 del 2003, nel testo originario e in quello risultante dalla
legge di conversione n. 326 del 2003, nella parte in cui prevede che sia
l'Allegato 1 dello stesso decreto-legge n. 269 del 2003, anziché la legge
regionale di cui al comma 26, a determinare la misura dell'anticipazione degli
oneri concessori, nonché le relative modalità di versamento;
7) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 32 del decreto-legge n. 269
del 2003, nel testo originario e in quello risultante dalla legge di conversione
n. 326 del 2003, nella parte in cui non prevede che la legge regionale di cui al
comma 26 debba essere emanata entro un congruo termine da stabilirsi dalla legge
statale;
8) dichiara l'illegittimità costituzionale del comma 49-ter dell'art. 32 del
decreto-legge n. 269 del 2003, introdotto dalla legge di conversione n. 326 del
2003;
9) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'Allegato 1 del decreto-legge n.
269 del 2003, nel testo originario e in quello risultante dalla legge di
conversione n. 326 del 2003, nella parte in cui determina la misura
dell'anticipazione degli oneri concessori e le relative modalità di versamento;
10) dichiara inammissibile il ricorso n. 6 del 2004, proposto dalla Regione
Lazio;
11) dichiara inammissibili le questioni proposte dalla Regione Campania, con i
ricorsi indicati in epigrafe, nei confronti dei commi 44, 45, 46, 47, 48, 49 e
50 dell'art. 32 del decreto-legge n. 269 del 2003, nonché dei commi 44, 45, 46,
47, 48, 49, 49-bis, 49-quater e 50 dell'art. 32 del decreto-legge n. 269 del
2003, come risultanti dalla conversione in legge ad opera della legge n. 326 del
2003;
12) dichiara inammissibile la questione proposta dalla Regione Marche, con il
ricorso n. 8 del 2004, nei confronti del comma 10 dell'art. 32 del decreto-legge
n. 269 del 2003 come risultante dalla conversione in legge ad opera della legge
n. 326 del 2003;
13) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art.
32 del decreto-legge n. 269 del 2003, nel testo originario e in quello
risultante dalla legge di conversione n. 326 del 2003, per violazione degli artt.
32, 41 e 42 Cost., proposte dalla Regione Marche con i ricorsi indicati in
epigrafe;
14) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art.
32 del decreto-legge n. 269 del 2003, nel testo originario e in quello
risultante dalla legge di conversione n. 326 del 2003, per violazione dell'art.
114 Cost., proposte dalla Regione Campania con i ricorsi indicati in epigrafe;
15) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art.
32 del decreto-legge n. 269 del 2003, nel testo originario e in quello
risultante dalla legge di conversione n. 326 del 2003, per violazione dell'art.
97 Cost., proposte dalle Regioni Emilia-Romagna, Umbria e Friuli-Venezia Giulia,
con i ricorsi indicati in epigrafe;
16) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art.
32 del decreto-legge n. 269 del 2003, nel testo originario e in quello
risultante dalla legge di conversione n. 326 del 2003, per violazione dell'art.
3 Cost., sotto il profilo del principio di eguaglianza, proposte dalle Regioni,
Marche, Toscana, Emilia-Romagna, Umbria e Friuli-Venezia Giulia, con i ricorsi
indicati in epigrafe;
17) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art.
32 del decreto-legge n. 269 del 2003, nel testo originario e in quello
risultante dalla legge di conversione n. 326 del 2003, per violazione dell'art.
25 Cost., proposte dalla Regione Marche con i ricorsi indicati in epigrafe;
18) dichiara cessata la materia del contendere in relazione alle questioni di
legittimità costituzionale del comma 10 dell'art. 32 del decreto-legge n. 269
del 2003, per violazione degli artt. 118 e 119 Cost., proposte dalle Regioni
Marche e Toscana con i ricorsi n. 81 e n. 82 del 2003;
19) dichiara cessata la materia del contendere in relazione alle questioni di
legittimità costituzionale dei commi 6, 9 e 24 dell'art. 32 del decreto-legge n.
269 del 2003, nel testo originario e in quello risultante dalla legge di
conversione n. 326 del 2003, proposte dalle Regioni Marche e Toscana con i
ricorsi indicati in epigrafe;
20) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 32
del decreto-legge n. 269 del 2003, nel testo originario e in quello risultante
dalla legge di conversione n. 326 del 2003, per violazione dell'art. 77 Cost.,
proposte con i ricorsi indicati in epigrafe;
21) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 32
del decreto-legge n. 269 del 2003, come risultante dalla conversione in legge ad
opera dalla legge n. 326 del 2003, per violazione dell'art. 79 Cost., proposta
dalla Regione Marche con il ricorso n. 10 del 2004;
22) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 32
del decreto-legge n. 269 del 2003, nel testo originario e in quello risultante
dalla legge di conversione n. 326 del 2003, per violazione dell'art. 9 Cost.,
proposte con i ricorsi indicati in epigrafe;
23) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 32
del decreto-legge n. 269 del 2003, nel testo originario e in quello risultante
dalla legge di conversione n. 326 del 2003, per violazione dell'art. 3 Cost.,
sotto il profilo del principio di ragionevolezza, proposte con i ricorsi
indicati in epigrafe;
24) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 32
del decreto-legge n. 269 del 2003, nel testo originario e in quello risultante
dalla legge di conversione n. 326 del 2003, per violazione dell'art. 137, terzo
comma, Cost., proposta dalla Regione Campania con i ricorsi indicati in
epigrafe;
25) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 32
del decreto-legge n. 269 del 2003, nel testo originario e in quello risultante
dalla legge di conversione n. 326 del 2003, per violazione dell'art. 119 Cost.,
proposte con i ricorsi indicati in epigrafe;
26) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 32
del decreto-legge n. 269 del 2003, nel testo originario e in quello risultante
dalla legge di conversione n. 326 del 2003, per violazione del principio di
leale collaborazione, proposte con i ricorsi indicati in epigrafe;
27) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del comma 5
dell'art. 32 del decreto-legge n. 269 del 2003, nel testo originario e in quello
risultante dalla legge di conversione n. 326 del 2003, per violazione degli artt.
117 e 118 Cost., proposta dalle Regioni Marche e Toscana con i ricorsi indicati
in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta il 24 giugno 2004.
Gustavo ZAGREBELSKY, Presidente
Ugo DE SIERVO, Redattore
Depositata in Cancelleria il 28 giugno 2004.
Allegato:
Ordinanza emessa nell'udienza pubblica dell'11 maggio 2004 nei giudizi di
legittimità costituzionale dell'art. 32 del decreto-legge n. 269 del 2003 e
dell'art. 32 del medesimo d.l. come convertito dalla legge n. 326 del 2003,
promossi dalle Regioni Campania, Toscana, Emilia-Romagna, Umbria, Lazio e Marche
nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri con ricorsi iscritti al
registro ricorsi nn. 76 del 2003, 82 del 2003, 83 del 2003, 87 del 2003, 6 del
2004, 8 del 2004 e 14 del 2004.
Considerato che il giudizio di costituzionalità delle leggi, promosso in via di
azione ai sensi dell'art. 127 Cost. e degli artt. 31 e seguenti della legge 11
marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte
costituzionale), è configurato come svolgentesi esclusivamente fra soggetti
titolari di potestà legislativa, fermi restando, per i soggetti privi di tale
potestà, i mezzi di tutela delle loro posizioni soggettive, anche
costituzionali, di fronte ad altre istanze giurisdizionali ed eventualmente
anche di fronte a questa Corte in via incidentale;
che pertanto, alla stregua della normativa in vigore e conformemente alla
costante giurisprudenza di questa Corte (da ultimo, cfr. sentenza n. 338 del
2003), non è ammesso l'intervento in tali giudizi di soggetti privi di potere
legislativo.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili gli interventi spiegati nei giudizi in via principale relativi all'art. 32 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e la correzione dell'andamento dei conti pubblici) nel testo originario e in quello risultante dalla legge di conversione n. 326 del 2003, dai Comuni di Roma, Salerno, Ischia e Lacco Ameno, nonché dal CODACONS e dal World Wide Fund For Nature (WWF) ONLUS.
(omissis)
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 32 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell'andamento dei conti pubblici), e dell'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003 come risultante dalla conversione ad opera della legge 24 novembre 2003, n. 326 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, recante disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell'andamento dei conti pubblici), promossi con ordinanza del 20 novembre 2003 dal TAR per l'Emilia-Romagna, sezione staccata di Parma, con 8 ordinanze del 10 dicembre 2003 dal TAR per il Piemonte e con 4 ordinanze del 5 dicembre 2003 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Verona, rispettivamente iscritte ai numeri 10, da 104 a 109, 241 e 242 e da 246 a 249 del registro ordinanze 2003, pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana nn. 7, 10 e 14, prima serie speciale, dell'anno 2004.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica dell'11 maggio 2004 il Giudice relatore Ugo De
Siervo;
udito l'avvocato dello Stato Franco Favara per il Presidente del Consiglio dei
ministri.
Ritenuto che con ordinanza del 20 novembre 2003 (R.O. n. 10 del 2004), il Tribunale amministrativo regionale per l'Emilia-Romagna, sezione di Parma, ha sollevato questione di legittimità costituzionale in via incidentale dell'art. 32 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell'andamento dei conti pubblici), per contrasto con gli artt. 3, 9, secondo comma, 32, primo comma, 97, primo comma, e 117, terzo comma, della Costituzione;
-
che il rimettente premette che, nel corso di un giudizio di ottemperanza
proposto in relazione alla sentenza del medesimo Tribunale, con cui era stato
disposto l'annullamento di una sanzione pecuniaria per abuso edilizio “in luogo
della doverosa misura demolitoria”, è intervenuto l'art. 32 del d.l. n. 269 del
2003, il quale consente di sanare una serie di abusi edilizi prorogando al 31
marzo 2003 i termini al riguardo previsti dalla legge 28 febbraio 1985, n. 47
(Norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni,
recupero e sanatoria delle opere edilizie), e successive modificazioni e
integrazioni;
-
che ad avviso del giudice a quo la normativa appena richiamata sarebbe
applicabile al caso sottoposto al suo giudizio e, “nelle more del procedimento
di sanatoria e fino alla scadenza dei termini fissati dall'art. 35 della legge
n. 47 del 1985 […] dovrebbe operare la sospensione del procedimento
amministrativo sanzionatorio e del […] procedimento giurisdizionale”, in virtù
dell'art. 44 della legge n. 47 del 1985;
-
che, in ordine alla non manifesta infondatezza della questione, nell'ordinanza
di rimessione si richiama la giurisprudenza costituzionale in materia di condono
edilizio, la quale avrebbe affermato la inevitabilità di un “giudizio negativo
nel caso di altra reiterazione della norma sul condono, soprattutto con
ulteriore e persistente spostamento dei termini temporali di riferimento del
commesso abuso edilizio”, a causa della irragionevolezza di una “ciclica e
ricorrente possibilità di condono-sanatoria con conseguente convinzione di
impunità”;
-
che inoltre, secondo il rimettente, il condono edilizio realizzerebbe un sistema
ingiusto e discriminatorio proprio a svantaggio dei cittadini rispettosi delle
leggi, che da un lato si vedrebbero «privare di quei beni che anch'essi
avrebbero potuto costruire violando le norme», e che dall'altro «sarebbero
costretti […] a subire il degrado urbanistico prodotto dall'illegalità
edilizia»;
-
che la normativa censurata, inoltre, violerebbe non solo i principi di
eguaglianza, ragionevolezza, buona amministrazione e tutela ambientale, “ma
anche le competenze regionali concorrenti in materia di governo del territorio”
di cui all'art. 117, terzo comma, Cost., in quanto con essa lo Stato, lungi dal
dettare principi generali, imporrebbe invece una eccezione che, in quanto tale,
non può costituire principio, dettando, peraltro, disposizioni estremamente
precise e dettagliate, con ciò violando comunque le competenze regionali;
-
che con otto ordinanze di identico contenuto, tutte adottate il 10 dicembre 2003
(R.O. numeri 104, 105, 106, 107, 108, 109, 241 e 242 del 2004), il Tribunale
amministrativo regionale per il Piemonte ha sollevato questione di legittimità
costituzionale dell'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003, convertito, con
modificazioni, dalla legge n. 326 del 2003, per contrasto con gli artt. 117,
terzo comma, e 118, primo comma, Cost.;
-
che le ordinanze di rimessione sono state pronunciate nella fase cautelare di
giudizi instaurati a seguito di ricorsi presentati per l'annullamento, previa
sospensione, di ordinanze comunali con le quali si dispone la demolizione di
opere eseguite abusivamente;
-
che il rimettente dà atto che i ricorrenti hanno rappresentato l'intenzione di
avvalersi della sospensione del procedimento sanzionatorio prevista dall'art. 32
del d.l. n. 269 del 2003, che richiama, sul punto, l'art. 44 della legge n. 47
del 1985;
-
che tale norma, secondo le ordinanze di rimessione, pur riferendo la sospensione
anche ai procedimenti giurisdizionali, escluderebbe esplicitamente le procedure
cautelari, con ciò richiedendo comunque lo svolgimento dei giudizi concernenti
la richiesta di sospensione dei provvedimenti impugnati, pur ove essi siano
destinati a rimanere sospesi ex lege;
-
che, in particolare, tale sarebbe la situazione dei giudizi a quibus, cosicché,
ove l'effetto della sospensione fosse senz'altro conseguente alla normativa
impugnata, al rimettente non resterebbe altro che decidere nel senso della
sopravvenuta carenza di interesse;
-
che, tuttavia, il rimettente dubita della legittimità costituzionale dell'art.
32 citato, poiché ad essere rilevante per i procedimenti a quibus non sarebbe
solo la questione concernente la sospensione del procedimento amministrativo,
bensì la questione relativa all'intero art. 32, dal momento che “l'esame della
concreta entità e sussistenza del pregiudizio addotto dalla ricorrente (che ha
dichiarato di volersi avvalere del condono) va condotto alla stregua delle norme
che non solo sospendono, ma rendono passibile di cancellazione l'abuso
commesso”;
-
che, in ordine alla non manifesta infondatezza della questione, la disciplina
impugnata violerebbe l'art. 117, terzo comma, Cost., ed in particolare le
competenze da esso assegnate alle Regioni in materia di governo del territorio,
in quanto non conterrebbe “principi fondamentali, ma disposizioni che
minutamente stabiliscono termini, modalità e limiti della sanatoria degli
abusi”, oltre che disposizioni le quali, prevedendo la sanabilità degli abusi,
sono eccezionali e come tali non potrebbero costituire principi generali;
-
che sarebbe violato anche l'art. 118 Cost., in quanto la normativa censurata non
sarebbe giustificata neppure in forza del principio di sussidiarietà, ed in
quanto l'ordinario riparto di competenza tra Stato e Regioni potrebbe essere
derogato solo se ciò superi il vaglio di ragionevolezza e proporzionalità e sia
oggetto di un accordo con le Regioni stesse, mentre l'art. 32 non prevederebbe
alcuna concertazione, o intesa, con le Regioni, né assumerebbe rilevanza il
rinvio alla disciplina regionale, alla quale sarebbero lasciati limitatissimi
margini di operatività;
-
che a conclusioni diverse non potrebbe condurre la dichiarata temporaneità delle
norme, giacché la normativa di cui al d.P.R. 6
giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari
in materia edilizia), al cui adeguamento da parte delle Regioni si fa rinvio,
non sembra pertinente al caso de quo e, inoltre, certamente non transitorio
sarebbe l'effetto prodotto dalla sanatoria di opere già edificate;
-
che con quattro ordinanze rese in data 5 dicembre 2003 (R.O. numeri 246, 247,
248 e 249 del 2004), di contenuto sostanzialmente identico, il Giudice per le
indagini preliminari del Tribunale di Verona ha sollevato questione di
legittimità costituzionale dell'art. 32, commi 1, 2, 25, 26, 27, 28, 32-37, del
d.l. n. 269 del 2003, per contrasto con gli artt. 1, 2, 9, secondo comma, 32,
primo comma, 79, primo comma, 97, primo comma, 111, secondo comma, 112, 117,
terzo comma, 118, secondo comma e 120 Cost., e con il principio di uguaglianza;
-
che il rimettente premette che nell'ambito di taluni procedimenti penali nei
confronti di soggetti imputati per reati edilizi, il pubblico ministero ha
chiesto l'emanazione di decreto penale di condanna e tale richiesta non appare
prima facie infondata, mentre in un altro procedimento concernente la medesima
tipologia di reati, egli ritiene di non dover accogliere la richiesta di
archiviazione formulata dal pubblico ministero;
-
che i procedimenti dovrebbero essere sospesi per effetto dell'art. 32 del d.l.
n. 269 del 2003 il quale richiama i capi IV e V della legge n. 47 del 1985, e
dunque anche l'art. 44 di tale legge, - - che prescrive la sospensione dei
procedimenti giurisdizionali in corso, fino alla scadenza del termine per la
presentazione della domanda relativa alla definizione dell'illecito edilizio;
-
che tuttavia, ad avviso del giudice a quo, l'art. 32 citato porrebbe dubbi sulla
sua legittimità costituzionale per contrasto con l'art. 79 Cost. che disciplina
il potere di amnistia, dal momento - - che il “condono edilizio” non sarebbe altro
che una forma di amnistia condizionata mascherata, adottata in violazione della
procedura prevista dalla norma costituzionale;
-
che non varrebbero le argomentazioni utilizzate da questa Corte nelle decisioni
relative ai precedenti condoni (sentenze n. 427 del 1995 e n. 369 del 1988),
basate sull'eccezionalità dell'istituto, dal momento che tale presupposto
sarebbe ormai superato in conseguenza del reiterato utilizzo che del condono
edilizio è stato fatto nell'ultimo decennio;
-
che dubbi ulteriori sulla legittimità costituzionale della norma censurata
conseguirebbero al fatto che l'amnistia costituirebbe l'unica ipotesi in cui la
Carta costituzionale assegna al Parlamento un potere «assolutamente eccezionale
di paralisi dell'azione penale che l'art. 112 Cost. vuole obbligatoria»;
-
che inoltre, sostiene il giudice a quo, il condono edilizio non sarebbe
riconducibile all'istituto dell'oblazione, la quale sarebbe un mezzo di
estinzione del reato previsto in via generale ed astratta, collegato al
pagamento di una somma di denaro pari ad una quota della pena pecuniaria e che
dunque assolverebbe alle stesse finalità proprie della condanna a pena
pecuniaria, mentre il condono previsto dall'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003
riguarderebbe solo reati già commessi prima dell'emanazione del provvedimento e
sarebbe condizionato al pagamento di somme di denaro che non sono determinate in
relazione all'ammontare della pena pecuniaria;
-
che la norma censurata violerebbe inoltre il principio di uguaglianza di cui
all'art. 3 Cost., tra cittadini «che hanno rispettato la legge e quelli che non
l'hanno rispettata, tra quelli che sono stati condannati con pena di legge e
quelli che […] ancora non sono stati condannati a pena di legge e mai lo saranno
grazie proprio al 'condono'»;
-
che il rimettente ritiene inoltre che la norma impugnata, nella parte in cui
consente il rilascio di un titolo abilitativo edilizio in sanatoria anche nel
caso di opere realizzate in assenza o in difformità dal titolo abilitativo e non
conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti
urbanistici, contrasti con gli artt. 118 e 120 Cost., in quanto non
ricorrerebbero i presupposti eccezionali, tipicamente predeterminati dall'art.
120 Cost., che consentono allo Stato l'esercizio di poteri sostitutivi nei
confronti degli enti locali, titolari delle funzioni amministrative concernenti
l'adozione degli strumenti urbanistici e il rilascio dei titoli abilitativi alla
realizzazione delle opere edilizie;
-
che il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Verona dichiara di
condividere le argomentazioni svolte dal T.A.R. per l'Emilia-Romagna,
nell'ordinanza del 20 novembre 2003, che vengono integralmente richiamate e
riprodotte;
-
che, infine, in ordine alla rilevanza della questione, il rimettente osserva che
egli sarebbe costretto a sospendere l'esercizio dei suoi poteri e doveri
giurisdizionali, «con nocumento del principio della obbligatorietà dell'azione
penale […], nonché di quello della ragionevole durata del processo di cui
all'art. 111, secondo comma, Cost.»;
-
che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio incidentale
promosso dal T.A.R. per l'Emilia-Romagna e ha chiesto che la questione sia
dichiarata inammissibile per difetto di motivazione sulla rilevanza, in quanto
l'ordinanza di rimessione non chiarirebbe se per le opere oggetto del giudizio a
quo sia stata presentata istanza di condono, né si soffermerebbe sulla
condonabilità degli abusi accertati con sentenza passata in giudicato, né,
infine, indicherebbe quali delle numerose norme contenute nell'art. 32 siano
oggetto del dubbio di legittimità costituzionale;
-
che il Presidente del Consiglio dei ministri è intervenuto anche nei giudizi
incidentali promossi dal T.A.R. del Piemonte, chiedendo che la questione sia
dichiarata inammissibile o comunque infondata, in quanto il rimettente non
avrebbe indicato quali delle norme contenute nell'art. 32 siano censurate;
-
che le questioni, ad avviso della difesa erariale, sarebbero inoltre analoghe a
quelle già prospettate dalle Regioni nei propri ricorsi avverso il medesimo art.
32, e tuttavia le censure mosse dal giudice a quo sarebbero generiche e dunque
non ammissibili;
-
che il Presidente del Consiglio dei ministri è intervenuto altresì nei giudizi
incidentali promossi dal GIP presso il Tribunale di Verona, chiedendo che le
questioni siano dichiarate «talune non ammissibili e tutte non fondate», dal
momento che alcune di esse sarebbero già sollevate nei ricorsi proposti dalle
Regioni avverso l'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003 ed inoltre in quanto le
ordinanze di rimessione non terrebbero conto dei precedenti insegnamenti della
Corte ed in particolare della fondamentale sentenza n. 369 del 1988;
-
che, in prossimità dell'udienza, l'Avvocatura dello Stato ha depositato una
memoria nei giudizi promossi dal T.A.R. del Piemonte, nella quale sostiene che
dall'ambito della questione sollevata dal giudice dovrebbero essere esclusi i
casi in cui vi sia un provvedimento amministrativo definitivo o una sentenza
penale o amministrativa di condanna passata in giudicato, giacché, in tali
ipotesi, sarebbe dubbio che possa trovare applicazione la disciplina del
condono;
-
che inoltre, sempre secondo l'Avvocatura, dovrebbero escludersi i casi in cui il
procedimento penale non sia ancora iniziato o l'ordinanza di demolizione non sia
stata ancora emessa, e nei quali peraltro il condono sarebbe ammissibile, di
talché – così delimitato l'ambito della questione – quest'ultima sarebbe in
sostanza identica a quelle proposte dalle Regioni avverso l'art. 32 del d.l. n.
269 del 2003;
-
che, in prossimità dell'udienza, l'Avvocatura ha depositato una memoria anche
nel giudizio proposto dal TAR per l'Emilia-Romagna, nella quale sostiene che
alla vicenda oggetto del giudizio a quo non si applicherebbe la disciplina del
condono, ed inoltre che i parametri evocati da tale giudice (artt. 9, 32 e 97
Cost.) non sarebbero pertinenti alla vertenza al suo esame, la quale
concernerebbe solo una violazione di modestissima entità.
Considerato che l'identità della normativa impugnata, la parziale coincidenza
delle censure proposte e dei parametri costituzionali invocati, nonché delle
argomentazioni svolte nelle ordinanze di rimessione, rendono opportuna la
riunione dei giudizi;
-
che questa Corte, con sentenza n. 196 resa in data odierna, nel pronunciarsi sui
ricorsi proposti da diverse Regioni avverso l'art. 32 del decreto-legge 30
settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la
correzione dell'andamento dei conti pubblici), nonché sul testo del medesimo
art. 32 così come risultante ad opera della conversione in legge intervenuta con
la legge 24 novembre 2003, n. 326 (Conversione in legge, con modificazioni, del
decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, recante disposizioni urgenti per
favorire lo sviluppo e per la correzione dell'andamento dei conti pubblici), con
cui venivano sollevate questioni in parte analoghe a quelle formulate dai
rimettenti, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale parziale della
normativa impugnata;
-
che, pertanto, tale sentenza ha sostanzialmente modificato la disciplina
dell'art. 32 sul quale i giudici rimettenti hanno sollevato le questioni di
legittimità costituzionale oggetto del presente giudizio, rendendo necessario,
conseguentemente, un nuovo esame dei termini delle questioni e della loro
perdurante rilevanza nei giudizi a quibus (si vedano, analogamente, ordinanze n.
184 del 2003 e n. 67 del 2002);
-
che, alla luce delle predette considerazioni, gli atti devono essere restituiti
ai giudici rimettenti.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
ordina la restituzione degli atti al Tribunale amministrativo regionale per l'Emilia-Romagna,
sezione di Parma, al Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte e al
Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Verona.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 giugno 2004.
Gustavo ZAGREBELSKY, Presidente
Ugo DE SIERVO, Redattore
Depositata in Cancelleria il 28 giugno 2004.
(omissis)
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale della legge della Regione Toscana 4 dicembre 2003, n. 55 (Accertamento di conformità delle opere edilizie eseguite in assenza di titoli abilitativi, in totale o parziale difformità o con variazioni essenziali, nel territorio della regione Toscana), della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 11 dicembre 2003, n. 22 (Divieto di sanatoria eccezionale delle opere abusive), dell'articolo 4 della legge della Regione Marche 23 dicembre 2003, n. 29 (Norme concernenti la vigilanza sull'attività edilizia nel territorio regionale) e della legge della Regione Emilia-Romagna 16 gennaio 2004, n. 1 (Misure urgenti per la salvaguardia del territorio dall'abusivismo urbanistico ed edilizio), promossi con ricorsi del Presidente del Consiglio dei ministri, rispettivamente notificati il 6 febbraio, il 20 febbraio, il 25 febbraio e il 15 marzo 2004, depositati in cancelleria il 16 febbraio, il 1° marzo, il 2 marzo e il 23 marzo successivi ed iscritti ai nn. 20, 24, 27 e 41 del registro ricorsi 2004.
Visti gli atti di costituzione delle Regioni Toscana, Friuli-Venezia Giulia,
Marche ed Emilia-Romagna;
udito nell'udienza pubblica dell'11 maggio 2004 il Giudice relatore Ugo De
Siervo;
uditi l'avvocato dello Stato Franco Favara per il Presidente del Consiglio dei
ministri e gli avvocati Lucia Bora e Fabio Lorenzoni per la Regione Toscana,
Giandomenico Falcon per le Regioni Friuli-Venezia Giulia ed Emilia-Romagna e
Stefano Grassi per la Regione Marche.
Ritenuto in fatto
1.1. – Con ricorso notificato il 6 febbraio 2004 e depositato il 16 febbraio
2004 (Reg. ricorsi n. 20 del 2004), il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ha sollevato
questione di legittimità costituzionale avverso la legge della Regione Toscana 4
dicembre 2003, n. 55 (Accertamento di conformità delle opere edilizie eseguite
in assenza di titoli abilitativi, in totale o parziale difformità o con
variazioni essenziali, nel territorio della Regione Toscana), pubblicata nel
Bollettino ufficiale n. 44 del 10 dicembre 2003.
L'art. 1, comma 2, della legge impugnata dispone che i commi da 25 a 38 e da 40
a 45 dell'art. 32 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 (Misure per la
riqualificazione urbanistica, ambientale e paesaggistica, per l'incentivazione
dell'attività di repressione dell'abusivismo edilizio, nonché per la definizione
degli illeciti edilizi e delle occupazioni delle aree demaniali), “non si
applicano nel territorio della Regione Toscana, ad eccezione delle disposizioni
di detti commi concernenti l'oblazione penale”.
Il ricorrente osserva come la legge regionale in esame si basi sul presupposto
del “già avvenuto adeguamento della disciplina regionale” ai principi posti
d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia edilizia), menzionato dal comma 2 del citato art. 32.
Tale comma, tuttavia, si limiterebbe semplicemente ad individuare il “contesto
generale e d'insieme” in cui questa interviene.
Secondo il ricorrente, la legge impugnata violerebbe l'art. 117, secondo comma,
lettera l), della Costituzione, in quanto le norme in materia di oblazione
contenute nell'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003, convertito, con modificazioni,
dalla legge 24 novembre 2003, n. 326 (Conversione in legge, con modificazioni,
del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, recante disposizioni urgenti per
favorire lo sviluppo e per la correzione dell'andamento dei conti pubblici),
costituirebbero esercizio della potestà legislativa nella materia “ordinamento
penale”, riservata in via esclusiva allo Stato.
La sottrazione del territorio di una o più Regioni alla disciplina statale
introdurrebbe significative disuguaglianze, in violazione dell'art. 3 Cost., non
legittimate dal riconoscimento costituzionale delle autonomie regionali.
Inoltre, rileva l'Avvocatura, poiché gli introiti derivanti dalle oblazioni sono
stati inseriti nella legge finanziaria per l'anno 2004, la disciplina impugnata,
impedendo l'applicazione nel territorio regionale dell'art. 32 del d.l. n. 269
del 2003, violerebbe l'art. 119 Cost. Essa, infatti, determinerebbe una
ingerenza nella formazione del bilancio annuale dello Stato e una lesione della
autonomia finanziaria che anche e soprattutto allo Stato deve essere garantita,
nonché una compressione della sua competenza in materia di “coordinamento della
finanza pubblica e dei sistemi tributari”. Essa, inoltre, contrasterebbe con
l'art. 81 Cost., in quanto comporterebbe la sottrazione di risorse destinate
alla copertura di spese pubbliche approvate dal Parlamento e la rottura del c.d.
“patto di stabilità” concordato a livello di Unione europea.
La legge censurata violerebbe anche l'art. 117, terzo comma, Cost., che
riconosce allo Stato la competenza a dettare i principi nella materia “governo
del territorio” e a disciplinare i titoli abilitativi edilizi.
Ad avviso dell'Avvocatura dello Stato, l'adozione di norme regionali “meramente
demolitorie” e “di reazione” alle norme statali, che statuiscono la non
applicazione nel territorio regionale di disposizioni dello Stato, potrebbe
pregiudicare l'unità giuridica della Repubblica, in violazione dell'art. 5 Cost.
Le norme della legge regionale violerebbero, peraltro, anche l'art. 127, secondo
comma, Cost., per la parte in cui è riconosciuta alle Regioni la possibilità di
impugnare avanti alla Corte costituzionale le leggi statali ritenute
illegittime, così escludendo che il potere legislativo regionale possa essere
utilizzato per contrastare l'applicazione di norme dello Stato.
Da ultimo, si lamenta la violazione dell'art. 51 e dell'art. 134 Cost., senza
tuttavia addurre alcuna motivazione a fondamento di tale censura.
1.2. – Con atto depositato il 2 marzo 2004 – ma in tale data non ancora notificato alla controparte – l'Avvocatura dello Stato ha chiesto che, ai sensi dell'art. 9, comma 4, della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), sia sospesa la legge della Regione Toscana n. 55 del 2003, in quanto essa arrecherebbe pregiudizio all'interesse dello Stato e degli enti “a finanza derivata” al conseguimento degli introiti “da condono”.
2.1. – Con ricorso notificato il 20 febbraio 2004 e depositato il 1° marzo 2004
(Reg. ricorsi n. 24 del 2004), il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ha sollevato
questione di legittimità costituzionale avverso la legge della Regione
Friuli-Venezia Giulia 11 dicembre 2003, n. 22 (Divieto di sanatoria eccezionale
delle opere abusive), pubblicata nel Bollettino ufficiale n. 52 del 24 dicembre
2003.
Preliminarmente, l'Avvocatura richiama l'art. 1 della legge impugnata, il quale,
al comma 1, esclude la sanatoria delle opere edilizie “realizzate in assenza dei
necessari titoli abilitativi previsti, ovvero in difformità o con variazioni
essenziali rispetto a questi ultimi”. Il comma 2, primo periodo, del medesimo
articolo stabilisce invece che, al fine di consentire l'oblazione penale degli
illeciti edilizi, la domanda di definizione di tali illeciti, presentata dopo il
2 ottobre 2003 secondo le modalità stabilite da disposizioni statali, non
sospende il procedimento per le sanzioni amministrative.
Secondo il ricorrente la legge censurata sarebbe contraddittoria, in quanto da
un lato non ammetterebbe la sanatoria, mentre dall'altro predisporrebbe
strumenti perché possa operare una sanatoria diversa da quella statale, e cioè
quella prevista dall'art. 108 della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 19
novembre 1991, n. 52 (Norme regionali in materia di pianificazione territoriale
ed urbanistica).
La norma regionale contrasterebbe con l'art. 4 della legge costituzionale 31
gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia), in
quanto esso porrebbe alla competenza legislativa “primaria” della Regione limiti
“confrontabili” con quelli previsti dal nuovo art. 117, terzo comma, Cost. per
la competenza legislativa concorrente delle Regioni ordinarie. La disciplina dei
titoli abilitativi edilizi – secondo quanto precisato da questa Corte –
competerebbe allo Stato ed in essa dovrebbe ricomprendersi, a giudizio
dell'Avvocatura, anche quella dei “titoli per sanatoria non «a regime», specie
se tale previsione si salda con (ed è integrata da) la prefigurazione di
programmi di riqualificazione urbanistico-edilizia”.
Le disposizioni censurate sono ritenute inoltre in contrasto con gli artt. 3, 5,
51, 81, 117, secondo comma, 119, 127, secondo comma, e 134 Cost.
Nel merito, le argomentazioni proposte a sostegno di tali censure sono
sostanzialmente analoghe a quelle svolte in relazione alla richiesta di
declaratoria di incostituzionalità della legge n. 55 del 2003 della Regione
Toscana.
2.2. – Il ricorrente, infine, chiede che, ai sensi dell'art. 9, comma 4, della legge n. 131 del 2003, sia sospesa in via cautelare la legge della Regione Friuli-Venezia Giulia n. 22 del 2003, ponendo a sostegno di tale richiesta argomentazioni sostanzialmente coincidenti con quelle poste a fondamento dell'istanza di sospensione della legge n. 55 del 2003 della Regione Toscana.
3.1. – Con ricorso notificato il 25 febbraio 2004 e depositato il 2 marzo 2004 (Reg.
ricorsi n. 27 del 2004), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato
e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ha sollevato questione di
legittimità costituzionale avverso l'art. 4 della legge della Regione Marche 23
dicembre 2003, n. 29 (Norme concernenti la vigilanza sull'attività edilizia nel
territorio regionale), pubblicata nel Bollettino Ufficiale n. 122 del 30
dicembre 2003.
L'art. 2 della legge regionale censurata ordina ai Comuni di sospendere ogni
determinazione circa la conclusione dei procedimenti relativi alla definizione
degli illeciti edilizi regolati dal d.l. n. 269 del 2003 fino all'entrata in
vigore della legge regionale indicata dall'art. 1 che dovrebbe disciplinare la
materia. In tal modo, secondo il ricorrente, il contenuto della legge impugnata
si concreterebbe nell'ordine ai Comuni di disapplicare la legge statale e di
attendere i futuri precetti legislativi della Regione, senza peraltro ipotizzare
alcun raccordo con le disposizioni statali in tema di oblazione penale e di
sospensione dei processi pendenti.
La disciplina censurata viene ritenuta contrastante con gli artt. 3, 5, 51, 81,
117, secondo comma, lettera l), 117, terzo comma, 119, 127, secondo comma, e 134
Cost.
Nel merito, le argomentazioni proposte sono sostanzialmente analoghe a quelle
portate a fondamento della richiesta di declaratoria di incostituzionalità delle
leggi della Regione Friuli-Venezia Giulia e della Regione Toscana.
3.2. – Anche in questo caso, con argomentazioni sostanzialmente coincidenti a quelle proposte nei ricorsi n. 20 e n. 24 del 2004, l'Avvocatura dello Stato chiede la sospensione – ai sensi dell'art. 9, comma 4, della legge n. 131 del 2003 – della normativa impugnata.
4.1. – Con ricorso notificato il 15 marzo 2004 e depositato il 23 marzo 2004 (Reg.
ricorsi n. 41 del 2004), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato
e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ha sollevato questione di
legittimità costituzionale avverso la legge della Regione Emilia-Romagna 16
gennaio 2004, n. 1 (Misure urgenti per la salvaguardia del territorio
dall'abusivismo urbanistico ed edilizio).
L'art. 2 di tale legge dispone che fino all'entrata in vigore della legge
regionale prevista dall'art. 1, contenente nuove norme in materia di vigilanza
sull'attività urbanistico-edilizia, responsabilità e sanzioni, “i Comuni
sospendono ogni determinazione circa la conclusione dei procedimenti relativi
alla definizione degli illeciti edilizi, così come regolati dall'articolo 32 del
decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269”. Inoltre è espressamente mantenuta
ferma la “possibilità della presentazione delle domande di sanatoria da parte
degli interessati, a tutela e garanzia delle loro posizioni giuridiche”.
I profili di doglianza esposti nel ricorso sono sostanzialmente coincidenti con
quelli dei ricorsi presentati avverso le leggi delle Regioni, Toscana,
Friuli-Venezia Giulia e Marche.
4.2. – Anche in questo caso l'Avvocatura dello Stato chiede la sospensione – ai sensi dell'art. 9, comma 4, della legge n. 131 del 2003 – della normativa impugnata.
5. – Le Regioni Friuli-Venezia Giulia, Toscana, Marche ed Emilia-Romagna si sono costituite in giudizio, concludendo per il rigetto dei ricorsi presentati dallo Stato e delle connesse istanze di sospensione.
6. – La Regione Toscana, con memoria depositata in prossimità della camera di
consiglio del 24 marzo 2004, fissata per la trattazione delle istanze di
sospensione, contesta le ragioni addotte a fondamento della richiesta avanzata
dallo Stato in relazione alla legge regionale n. 55 del 2003, ed in particolare
la circostanza secondo la quale il mancato introito “da condono” costringerebbe
lo Stato a reperire altrove le risorse finanziarie perdute.
Innanzi tutto, secondo la resistente, la legge impugnata non interferirebbe con
le disposizioni concernenti l'estinzione dei reati urbanistici ed edilizi
conseguenti all'istanza di condono ed al pagamento delle relative somme; in
secondo luogo, sarebbe rilevante il fatto che in Toscana è in vigore una
compiuta disciplina edilizia che consente anche la regolarizzazione di
violazioni che non incidano sostanzialmente sull'assetto del territorio:
circostanza, quest'ultima, che congiuntamente ad un efficace sistema di
controlli avrebbe consentito un “ordinato sviluppo edilizio”.
Peraltro – osserva la Regione – l'esistenza di tale normativa regionale
renderebbe inapplicabile, in virtù del comma 2 dell'art. 32 del decreto-legge
impugnato, la disciplina statale sul condono, esplicitamente dettata “nelle
more” dell'attuazione, da parte delle Regioni, del d.P.R. n. 380 del 2001.
Inoltre, le motivazioni addotte dall'Avvocatura dello Stato a fondamento della
propria istanza cautelare confermerebbero “la totale incostituzionalità del
condono introdotto dal legislatore statale”, dal momento che la finalità
puramente “finanziaria” dell'intervento – emergente proprio dalle argomentazioni
dell'Avvocatura – si porrebbe in netto contrasto con i principi della
giurisprudenza costituzionale in materia (sono richiamate, sul punto, le
sentenze n. 369 del 1988 e n. 416 del 1995), che ha ritenuto il condono uno
strumento eccezionale ed irripetibile, giustificato, nelle precedenti
circostanze, solo quale “punto di partenza di una nuova legalità” dopo “decenni
di abusivismo di massa”.
La Regione Friuli-Venezia Giulia e la Regione Emilia-Romagna, a loro volta,
concludono chiedendo il rigetto delle istanze di sospensione formulate dal
ricorrente, argomentando soprattutto sulla evidente mancanza dell'irreparabile
pregiudizio che dovrebbe derivare, nelle more del giudizio, dalla applicazione
delle leggi regionali impugnate.
Anche la Regione Marche, a sostegno della infondatezza della istanza cautelare,
sottolinea l'assenza di qualunque pregiudizio irreparabile derivante allo Stato
dalla legge impugnata e, al contempo, l'assenza di una qualunque utilità
concreta nell'eventuale decisione di sospensione da parte di questa Corte.
7. – Nell'imminenza della camera di consiglio del 24 marzo 2004 per la
trattazione delle istanze di sospensione presentate nei confronti delle leggi
delle Regioni Friuli-Venezia Giulia, Toscana e Marche, l'Avvocatura dello Stato
ha presentato atto di rinunzia alla immediata decisione circa le istanze di
sospensione presentate, auspicando contestualmente la adesione delle Regioni
alla “richiesta di differimento” dell'esame delle istanze cautelari concernenti
l'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003, dalle medesime Regioni impugnato.
Preso atto di tale rinuncia, con le ordinanze n. 117, n. 118 e n. 119 del 2004,
questa Corte ha disposto il rinvio dell'esame di tali istanze unitamente al
merito.
8. – La Regione Friuli-Venezia Giulia, nelle sue difese, mira a chiarire il
contenuto ed il significato della propria legge n. 22 del 2003, evidenziando
come essa farebbe esplicitamente salva l'oblazione penale prevista dal
legislatore statale e come anzi disciplinerebbe esplicitamente il procedimento
amministrativo volto a consentirla.
Quanto alla presunta violazione della competenza statale in materia penale, la
Regione richiama la sentenza di questa Corte n. 418 del 1995, sottolineando di
non aver disposto la assoluta inapplicabilità della normativa sul condono, ma di
essersi limitata a escludere la sanatoria edilizia ai soli fini amministrativi,
nel massimo rispetto delle scelte dello Stato nel campo penale. L'eventuale
effetto di “scoraggiamento” della presentazione di domande di condono, derivante
in concreto dalla normativa regionale oggetto del giudizio, non costituirebbe un
vizio di legittimità costituzionale della legge regionale, poiché quest'ultima
non inciderebbe comunque sull'ambito giuridico della sanatoria penale ma solo
sulla sua applicazione pratica.
In relazione alla pretesa violazione dell'autonomia finanziaria statale e della
competenza in materia di “coordinamento della finanza pubblica” invocata dal
ricorrente, la resistente sottolinea che i proventi dell'oblazione penale sono
espressamente fatti salvi dalla legge regionale impugnata, e che, in ogni caso,
la circostanza secondo la quale il loro ammontare potrebbe attestarsi su livelli
inferiori rispetto alle aspettative dello Stato non potrebbe costituire autonomo
vizio di legittimità costituzionale.
In definitiva, secondo la Regione resistente, sarebbero del tutto erronei i
parametri invocati nel ricorso: il patto di stabilità, perché si tratterebbe di
un vincolo complessivo che potrebbe essere rispettato in molti modi; l'art. 81
Cost., in quanto gli incerti e futuri proventi delle oblazioni pagate in
relazione ad illeciti verificatisi nel territorio della Regione Friuli-Venezia
Giulia non potrebbero correttamente essere già destinati alla copertura di spese
pubbliche; la competenza in materia di coordinamento della finanza pubblica,
poiché le norme statali sulla sanatoria amministrativa degli illeciti edilizi
non potrebbero in alcun modo qualificarsi come esercizio della medesima.
Infine, del tutto insussistente sarebbe da ritenere, secondo la difesa
regionale, la pretesa violazione del principio di unità della Repubblica e
correlativamente degli artt. 127 e 134 Cost.: ciò in quanto la “reazione” alla
legge statale o la modulazione dei suoi effetti applicativi nel territorio
regionale non comprometterebbero affatto la giurisdizione costituzionale e
comunque non potrebbero costituire vizi in sé, ma solo in ragione dei loro
specifici contenuti scrutinati alla luce dei parametri costituzionali sulla
competenza.
9. – La difesa della Regione Marche muove dalla premessa di aver esercitato, con
la legge n. 29 del 2003, la propria competenza legislativa in materia di
edilizia e di governo del territorio, e che, pertanto, proprio come previsto dal
comma 2 dell'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003, avrebbe legittimamente chiarito
l'inapplicabilità della normativa statale sul condono amministrativo degli
illeciti edilizi, facendo invece salva la disciplina dell'oblazione penale. Del
tutto priva di fondamento sarebbe dunque la pretesa violazione della competenza
legislativa statale in materia penale, anche in considerazione della
giurisprudenza costituzionale secondo cui “alle Regioni non è precluso
concorrere a precisare, secundum legem, presupposti d'applicazione di norme
penali statali” (sentenza n. 487 del 1989).
Quanto alla presunta violazione dell'art. 117, terzo comma, Cost., tale censura
sarebbe infondata, poichè sarebbe lo stesso comma 2 dell'art. 32 del d.l. n. 269
del 2003 ad escludere la natura di principi fondamentali delle disposizioni sul
condono.
La Regione Marche ritiene altresì infondata la censura relativa alla violazione
degli artt. 81 e 119 Cost., osservando che, a suo avviso, sarebbe lo Stato a non
aver valutato adeguatamente le conseguenze sui conti pubblici dell'adeguamento
della legislazione regionale ai principi previsti nel
d.P.R. n. 380 del 2001;
pertanto, si sarebbe di fronte ad una illegittima interferenza dello Stato
sull'autonomia finanziaria della Regione, e non, invece, ad una compressione da
parte di quest'ultima dell'autonomia finanziaria dello Stato.
Dovrebbe poi essere ritenuta infondata la presunta violazione della competenza
statale concernente il coordinamento della finanza pubblica e dei sistemi
tributari: ciò in quanto lo Stato non avrebbe rispettato quelle garanzie di
partecipazione delle Regioni ai processi decisionali concernenti il riparto e la
destinazione dei fondi che questa Corte avrebbe richiesto come criterio di
attuazione dell'art. 119 Cost. nella sentenza n. 16 del 2004.
Circa la censura
relativa alla violazione degli artt. 127 e 134 Cost., la Regione Marche fa
osservare che la legge impugnata non varrebbe a disconoscere la giurisdizione
costituzionale e quanto ad essa spetta in via esclusiva; viceversa, si
tratterebbe soltanto di un atto di esercizio della potestà legislativa spettante
alla Regione secondo il principio di competenza.
Infine, la censura relativa all'art. 51 Cost. sarebbe da considerare
inammissibile in quanto del tutto priva di una sia pur minima definizione dei
termini e dei profili della questione.
10. – Anche la Regione Toscana contesta la fondatezza del ricorso statale
avverso la propria legge n. 55 del 2003. In primo luogo, rileva che già prima
dell'emanazione del d.l. n. 269 del 2003, era stata emanata una disciplina
regionale in materia urbanistica ed edilizia già compiuta, esplicitamente
adeguata – grazie alla legge della Regione Toscana 5 agosto 2003, n. 43
(Modifiche e integrazioni alla legge regionale 14 ottobre 1999, n. 52, recante
Norme sulle concessioni, le autorizzazioni e le denunce d'inizio delle attività
edilizie – Disciplina dei controlli nelle zone soggette al rischio sismico –
Disciplina del contributo di concessione – Sanzioni e vigilanza sull'attività
urbanistico-edilizia – Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 23 maggio
1994, n. 39 e modifica della legge regionale 17 ottobre 1983, n. 69) – ai
principi contenuti nel testo unico dell'edilizia di cui al d.P.R. n. 380 del
2001, e tale, tra l'altro, da consentire la regolarizzazione di violazioni
formali e di illeciti sostanzialmente non rilevanti. In secondo luogo, si
sostiene che la legge impugnata costituirebbe la conseguenza obbligata di quanto
disposto dallo stesso legislatore statale che, con lo specifico richiamo
contenuto nel comma 2 dell'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003, avrebbe
esplicitamente sancito la piena legittimità di interventi volti a rendere
inapplicabili gli effetti amministrativi del condono edilizio nei territori di
Regioni che già si siano adeguate alla disciplina del testo unico del 2001.
La difesa della Regione resistente si sviluppa poi interamente sul versante dei
vizi (già denunciati nei ricorsi n. 82 del 2003 e n. 10 del 2004) riscontrabili
nella disciplina statale di cui al predetto d.l. n. 269 del 2003 e alla relativa
legge di conversione, la cui illegittimità costituzionale renderebbe
specularmente ragione della piena legittimità della legge regionale n. 55 del
2003.
11. – La Regione Emilia-Romagna, nella sua memoria, propone argomentazioni
sostanzialmente analoghe a quelle delle altre Regioni.
In particolare, sul primo motivo di censura (concernente la presunta violazione
della competenza statale in materia penale), la difesa della Regione osserva che
la legge regionale n. 1 del 2004 si limiterebbe a precludere temporaneamente la
conclusione del procedimento di definizione dell'illecito edilizio, senza
impedire la presentazione della domanda ed il connesso versamento dell'oblazione
da cui consegue l'estinzione del reato.
Quanto alla lamentata violazione dei principi fondamentali di cui alla normativa
sul condono edilizio, la Regione osserva come l'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003
non contenga la determinazione di principi fondamentali della materia, tale non
potendosi considerare una norma del tutto eccezionale rispetto alla disciplina
edilizia ordinaria. Inoltre, la “attivazione del condono” sarebbe in
contraddizione con la tutela dei valori relativi alla tutela dell'ambiente, in
quanto la base del condono sarebbe “il puro scambio tra la rinuncia alla
salvaguardia di tali valori in cambio di una somma di denaro”.
Quanto agli altri motivi del ricorso, la difesa regionale ne afferma
l'infondatezza, riproponendo quasi letteralmente gli argomenti svolti dalla
Regione Friuli-Venezia Giulia.
12. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, in prossimità dell'udienza, ha
depositato una memoria, con la quale insiste per l'accoglimento dei ricorsi.
La difesa erariale muove da una prima considerazione di fondo: le leggi
regionali impugnate ignorerebbero tutte “la, molto grave, sanzione civile
(attinente all'ordinamento civile) prevista dall'art. 17 della legge n. 47 del
1985”; il che renderebbe ancora più evidente la scarsissima efficacia (in
relazione alla principale finalità del condono edilizio, consistente
nell'emersione degli illeciti sommersi) che assumerebbe la sanatoria del solo
illecito penale che non fosse accompagnata dalla contestuale eliminazione delle
conseguenze amministrative e civili, dimostrando come i diversi profili degli
illeciti edilizi sarebbero in realtà inscindibili.
Secondo l'Avvocatura, la decisione di accoglimento dei ricorsi in questione non
potrebbe che essere consequenziale ad una pronuncia che riconoscesse la
competenza statale a produrre, in via straordinaria, una disciplina di condono
edilizio, che porterebbe necessariamente ad escludere “una competenza
legislativa delle Regioni a produrre disposizioni di segno opposto, le quali
esorbitino dalla sfera delle competenze regionali quanto meno […] perché non
rispettano un principio fondamentale legittimamente dato dal Parlamento”.
In via subordinata, la difesa statale, pur riconoscendo come le Regioni possano
produrre norme diverse da quelle prodotte dallo Stato, ed anche esplicitamente
statuire la inapplicabilità di queste ultime, insiste sulla violazione dell'art.
127 Cost. da parte delle leggi regionali impugnate; ciò in quanto, nei casi di
specie, le resistenti avrebbero utilizzato il potere legislativo “con sviamento
di potere”, ossia per contrapporre una reputata propria competenza alla
competenza del Parlamento nazionale.
Considerato in diritto
1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato, con distinti
ricorsi, la legge della Regione Toscana 4 dicembre 2003, n. 55 (Accertamento di
conformità delle opere edilizie eseguite in assenza di titoli abilitativi, in
totale o parziale difformità o con variazioni essenziali del territorio della
Regione Toscana), l'art. 4 della legge della Regione Marche 23 dicembre 2003, n.
29 (Norme concernenti la vigilanza sull'attività edilizia nel territorio
regionale), la legge della Regione Emilia-Romagna 16 gennaio 2004, n. 1 (Misure
urgenti per la salvaguardia del territorio dall'abusivismo urbanistico ed
edilizio), per violazione degli artt. 3, 5, 81, primo e quarto comma, 117,
secondo comma, lettera l), e terzo comma, 119, 127 e 134 della Costituzione.
Ha inoltre proposto impugnazione avverso la legge della Regione Friuli-Venezia
Giulia 11 dicembre 2003, n. 22 (Divieto di sanatoria eccezionale delle opere
abusive), denunciando la violazione, oltre che dei parametri costituzionali
appena richiamati, anche dell'art. 4 della legge costituzionale 31 gennaio 1963,
n. 1 (Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia).
2. – Considerata l'identità delle doglianze formulate avverso le leggi regionali impugnate, i relativi giudizi possono essere riuniti per essere decisi con un'unica pronuncia.
3. – In via preliminare, devono essere dichiarate inammissibili le censure sollevate nei ricorsi in riferimento sia all'art. 51 che all'art. 134 della Costituzione, dal momento che non vengono addotte motivazioni a loro sostegno.
4. – Quanto alle altre censure, occorre prendere preliminarmente in esame le questioni sollevate dal ricorrente con riferimento agli artt. 5 e 127 della Costituzione, in quanto concernenti la possibilità per le Regioni di disporre dell'efficacia di una legge dello Stato nell'ambito del territorio regionale.
4.1. – Il ricorrente sostiene, a tale riguardo, che le leggi regionali impugnate violerebbero l'art. 5 Cost., in quanto l'adozione di norme regionali “meramente demolitorie” e “di reazione” alle norme statali, che statuiscono la non applicazione nel territorio regionale di disposizioni dello Stato, pregiudicherebbe l'unità giuridica della Repubblica; inoltre, le leggi regionali violerebbero l'art. 127, secondo comma, Cost., in quanto tale disposizione, riconoscendo alle Regioni la possibilità di impugnare di fronte a questa Corte le norme statali ritenute illegittime, implicitamente escluderebbe che il potere legislativo regionale possa essere utilizzato per contrastare l'applicazione di norme dello Stato.
4.2. – La questione è fondata.
Il Titolo V della parte II della Costituzione, così come le corrispondenti
disposizioni degli statuti speciali, presuppongono che l'esercizio delle
competenze legislative da parte dello Stato e delle Regioni, secondo le regole
costituzionali di riparto delle competenze, contribuisca a produrre un unitario
ordinamento giuridico, nel quale certo non si esclude l'esistenza di una
possibile dialettica fra i diversi livelli legislativi, anche con la eventualità
di parziali sovrapposizioni fra le leggi statali e regionali, che possono
trovare soluzione mediante il promuovimento della questione di legittimità
costituzionale dinanzi a questa Corte, secondo le scelte affidate alla
discrezionalità degli organi politici statali e regionali.
Ciò che è implicitamente escluso dal sistema costituzionale è che il legislatore
regionale (così come il legislatore statale rispetto alle leggi regionali)
utilizzi la potestà legislativa allo scopo di rendere inapplicabile nel proprio
territorio una legge dello Stato che ritenga costituzionalmente illegittima, se
non addirittura solo dannosa o inopportuna, anziché agire in giudizio dinnanzi a
questa Corte, ai sensi dell'art. 127 Cost.
Dunque né lo Stato né le Regioni
possono pretendere, al di fuori delle procedure previste da disposizioni
costituzionali, di risolvere direttamente gli eventuali conflitti tra i
rispettivi atti legislativi tramite proprie disposizioni di legge.
4.3. – La legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 11 dicembre 2003, n. 22,
significativamente intitolata “Divieto di sanatoria eccezionale delle opere
abusive”, non si limita ad adottare una legislazione più restrittiva della
sanatoria edilizia, o parzialmente diversa rispetto a quanto previsto dall'art.
32 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per
favorire lo sviluppo e per la correzione dell'andamento dei conti pubblici)
quale risultante dalla conversione in legge ad opera della legge 24 novembre
2003 n. 326 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 30
settembre 2003, n. 269, recante disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e
per la correzione dell'andamento dei conti pubblici), come è attualmente
possibile sulla base della sentenza n. 196 del 2004 di questa Corte, ma nega la
stessa possibilità di applicare la sanatoria edilizia statale di tipo
straordinario nel territorio regionale, escludendo altresì che la presentazione
della domanda di condono possa determinare la sospensione del procedimento
finalizzato alla irrogazione delle sanzioni amministrative.
Come chiarito nella sentenza appena richiamata, le Regioni a statuto speciale
che dispongono di potestà legislativa di tipo primario nel settore
dell'urbanistica, tra le quali è da annoverare la Regione Friuli-Venezia Giulia
in base all'art. 4, numero 12, del suo statuto – diversamente da quanto sembra
sostenere la Avvocatura – devono rispettare la disciplina statale concernente la
misura dell'oblazione, i relativi termini di versamento, ed in genere le
relative articolazioni procedimentali ed organizzative, mentre possono
disciplinare diversamente la sanatoria amministrativa degli abusi edilizi
commessi nel proprio territorio (al pari delle Regioni ad autonomia ordinaria)
ed eventualmente subordinarla anche al rispetto dei vincoli previsti da proprie
specifiche normative (secondo quanto questa Corte aveva già affermato nella
sentenza n. 418 del 1995, relativa alla Provincia autonoma di Trento).
4.4. – L'art. 1, comma 2, della legge della Regione Toscana n. 55 del 2003 e
l'art. 4, comma 6, della legge della Regione Marche n. 29 del 2003
esplicitamente dichiarano inapplicabili nei rispettivi territori regionali
numerosi commi dell'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003.
Entrambe queste leggi muovono dal presupposto che il comma 2 dell'art. 32 del
d.l. n. 269 del 2003 disponga l'applicazione del condono straordinario solo in
caso di mancato adeguamento da parte delle Regioni ai principi fondamentali in
materia edilizia di cui al d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) e che quindi
Regioni come la Toscana e le Marche, già adeguatesi alla nuova normativa, ben
potrebbero disporre diversamente.
Anche a prescindere dalla considerazione che, comunque, una tale previsione non
giustificherebbe l'unilaterale dichiarazione di inapplicabilità nei territori
regionali di parte di un testo legislativo statale esplicitamente riferito
all'intero territorio nazionale, questa Corte, nella sentenza n. 196 del 2004
(che pure riconosce nella materia in questione un significativo potere
legislativo anche alle Regioni ad autonomia ordinaria), ha chiarito che il solo
significato del comma 2 dell'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003 compatibile con la
vigente disciplina costituzionale è l'individuazione del contesto normativo
entro il quale il condono è stato adottato.
4.5. – Anche la legge della Regione Emilia-Romagna n. 1 del 2004, all'art. 1, comma 3, lettera d), stabilisce la “generale non sanabilità delle violazioni in contrasto con la strumentazione urbanistica vigente” e, all'art. 2, prescrive che i Comuni sospendano “ogni determinazione circa la conclusione dei procedimenti relativi alla definizione degli illeciti edilizi, così come regolati dall'art. 32 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269”. In tal modo, la legge regionale dell'Emilia-Romagna sostanzialmente esclude anch'essa la possibilità di applicazione della disciplina della sanatoria edilizia dettata dall'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003.
5. – Per le ragioni assorbenti sopra indicate (cfr. il precedente punto 4.2.), la legge della Regione Friuli-Venezia Giulia n. 22 del 2003, la legge della Regione Toscana n. 55 del 2003, l'art. 4 della legge della Regione Marche n. 29 del 2003 e la legge della Regione Emilia-Romagna n. 1 del 2004, devono quindi essere dichiarate costituzionalmente illegittime.
6. – La dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme impugnate esime dall'analisi delle ulteriori censure proposte.
7. – Non vi è luogo a provvedere sulle istanze di sospensione formulate dallo Stato avverso la legge della Regione Toscana n. 55 del 2003, la legge della Regione Friuli-Venezia Giulia n. 22 del 2003, l'art. 4 della legge della Regione Marche n. 29 del 2003 e la legge della Regione Emilia-Romagna n. 1 del 2004.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara l'illegittimità costituzionale della legge della
Regione Toscana 4
dicembre 2003, n. 55 (Accertamento di conformità delle opere edilizie eseguite
in assenza di titoli abilitativi, in totale o parziale difformità o con
variazioni essenziali, nel territorio della Regione Toscana);
2) dichiara l'illegittimità costituzionale della legge della Regione
Friuli-Venezia Giulia 11 dicembre 2003, n. 22 (Divieto di sanatoria eccezionale
delle opere abusive);
3) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 4 della legge della Regione
Marche 23 dicembre 2003, n. 29 (Norme concernenti la vigilanza sull'attività
edilizia nel territorio regionale);
4) dichiara l'illegittimità costituzionale della legge della Regione
Emilia-Romagna 16 gennaio 2004, n. 1 (Misure urgenti per la salvaguardia del
territorio dall'abusivismo urbanistico ed edilizio).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 giugno 2004.
Gustavo ZAGREBELSKY, Presidente
Ugo DE SIERVO, Redattore
Depositata in Cancelleria il 28 giugno 2004.
(omissis)
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio per conflitto di attribuzione sorto a seguito della delibera della Giunta della Regione Campania n. 2827 del 30 settembre 2003 (Integrazione alle linee guida per la Pianificazione Territoriale Regionale in Campania, di cui alla delibera di Giunta Regionale n. 4459 del 30.09.2002, in materia di sanatoria degli abusi edilizi), promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 28 novembre 2003, depositato in cancelleria il 3 dicembre 2003 ed iscritto al n. 36 del registro conflitti 2003.
Visto l'atto di costituzione della Regione Campania;
udito nell'udienza pubblica dell'11 maggio 2004 il Giudice relatore Ugo De
Siervo;
uditi l'avvocato dello Stato Franco Favara per il Presidente del Consiglio dei
ministri e l'avvocato Vincenzo Cocozza per la Regione Campania.
Ritenuto in fatto
1. – Con ricorso notificato il 28 novembre 2003 e depositato il 3 dicembre 2003, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ha sollevato conflitto di attribuzioni in relazione alla deliberazione della Giunta della Regione Campania 30 settembre 2003, n. 2827 (Integrazione alle linee guida per la Pianificazione Territoriale Regionale in Campania, di cui alla delibera di Giunta Regionale n. 4459 del 30.09.2002, in materia di sanatoria degli abusi edilizi), pubblicata nel Bollettino ufficiale n. 46 del 2 ottobre 2003.
2. – Il ricorrente espone che l'atto impugnato, il quale integra le linee guida
per la pianificazione del territorio approvate con delibera della Giunta
regionale del 30 settembre 2002, n. 4459, reca una prescrizione, intitolata
“divieto di sanatoria”, secondo cui “non è ammessa la sanatoria delle opere
edilizie realizzate in assenza dei necessari titoli abilitativi, ovvero in
difformità o con variazioni essenziali rispetto a questi ultimi, e che siano in
contrasto con gli strumenti urbanistici generali vigenti”.
In relazione a tale prescrizione, nel ricorso si evidenzia:
a) che le “difformità” nell'atto impugnato menzionate “parrebbero non includere anche le «parziali difformità» di cui all'art. 12 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie) e all'art. 34 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) ";
b) che la “assenza dei necessari titoli abilitativi” sembrerebbe “non includere l'assenza di titolo abilitativi diversi […] dalla concessione edilizia”;
c) che il riferimento agli “strumenti urbanistici generali vigenti” parrebbe “non escludere la sanabilità delle opere edilizie in contrasto con strumenti generali solo adottati o con strumenti urbanistici attuativi vigenti o adottati”.
L'Avvocatura osserva inoltre come, mentre le linee guida di cui alla deliberazione della stessa Giunta della Regione Campania 30 settembre 2002, n. 4459, sarebbero state “confermate” con la legge della Regione Campania 18 ottobre 2002, n. 26 (Norme ed incentivi per la valorizzazione dei centri storici della Campania e per la catalogazione dei beni ambientali di qualità paesistica. Modifiche alla legge regionale 19 febbraio 1996, n. 3), l'atto oggetto del presente conflitto non sarebbe stato “legificato”.
3. – Secondo il ricorrente, la deliberazione n. 2827 in questione sarebbe lesiva
delle competenze dello Stato, dal momento che mirerebbe “ad indurre dirigenti
e/o amministratori locali a disapplicare l'art. 32 del decreto-legge 30
settembre 2003, n. 269 […] e cioè a sottrarre effettività a disposizioni
legislative prodotte dallo Stato”.
Ciò determinerebbe, in primo luogo, una
violazione del principio di leale cooperazione. In secondo luogo, risulterebbe
violata la competenza statale a porre la disciplina dei titoli abilitativi ad
edificare (al riguardo viene citata la sentenza di questa Corte n. 303 del
2003).
Ancora, la deliberazione in esame ometterebbe di considerare che il
fondamento dell'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003 andrebbe reperito, oltre che
nell'art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., che attribuisce alla potestà
legislativa statale la disciplina dell'ordinamento penale e dell'ordinamento
civile, anche nel combinato disposto degli articoli 81, primo e quarto comma,
119, secondo comma e 120, secondo comma, Cost. La deliberazione neppure terrebbe
conto del fatto che l'art. 81 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 (Attuazione
della delega di cui all'articolo 1 della legge 22 luglio 1975, n. 382), ha
riservato allo Stato il potere di fissare le linee fondamentali dell'assetto del
territorio nazionale.
Da ultimo, l'Avvocatura evidenzia come la deliberazione oggetto del giudizio
sarebbe “illegittima ed inidonea a produrre effetti giuridici”: ciò, da un lato,
in quanto l'art. 14 della legge della Regione Campania n. 26 del 2002 non
attribuirebbe alla Giunta “la potestà di variare le linee guida da esso 'legificate'”;
dall'altro, in quanto “dirigenti ed amministratori” non potrebbero “disattendere
disposizioni legislative poste dall'art. 32 citato sol perché una deliberazione
amministrativa (neppur fonte secondaria) della Giunta regionale si è espressa in
senso opposto”.
La deliberazione impugnata, dunque, sarebbe “destinata a
rimanere improduttiva di effetti giuridici”.
4. – Si è costituita in giudizio la Regione Campania, chiedendo che il ricorso
sia dichiarato inammissibile o infondato.
In particolare, il ricorso sarebbe inammissibile per genericità dei motivi, in
quanto l'Avvocatura non avrebbe individuato il parametro violato, né avrebbe
indicato le motivazioni a sostegno dell'asserita violazione dell'ambito delle
attribuzioni costituzionali dello Stato.
Ulteriore causa di inammissibilità sarebbe costituita dalla carenza del “tono
costituzionale” del conflitto, dal momento che ciò di cui si lamenta il
ricorrente sarebbe sostanzialmente la violazione dell'art. 32 del decreto-legge
30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per
la correzione dell'andamento dei conti pubblici), in tema di condono edilizio,
da parte della delibera regionale: circostanza che determinerebbe, semmai, un
vizio dell'atto amministrativo denunciabile dinanzi all'autorità giudiziaria.
Nel merito, sostiene la Regione, la delibera impugnata avrebbe natura di linea
guida della politica regionale nell'ambito del “governo del territorio”, e
costituirebbe “naturale conseguenza” di quanto imposto a livello statale
attraverso l'Accordo raggiunto in data 19 aprile 2001 tra lo Stato e le Regioni,
in attuazione dell'art. 52 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112
(Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed
agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1977, n. 59), e
in coerenza con la Convenzione europea del paesaggio firmata a Firenze il 20
ottobre 2000.
L'atto impugnato, inoltre, sarebbe stato adottato in attuazione dell'art. 14
della legge regionale n. 26 del 2002, non impugnata dallo Stato; l'articolo
citato disporrebbe infatti che, fino alla adozione del piano territoriale
regionale, la Giunta regionale adotta le linee guida della pianificazione
regionale, redatte in conformità con il citato Accordo del 19 aprile 2001.
5. – In prossimità dell'udienza pubblica, la Regione Campania ha depositato una
ulteriore memoria, nella quale insiste soprattutto per l'inammissibilità del
ricorso. In particolare, la contraddittorietà e la genericità delle
argomentazioni poste a sostegno di quest'ultimo comporterebbero la violazione
del diritto di difesa della parte resistente, determinandosi una sorta di
inversione dell'onere della prova sulla legittimità dell'atto impugnato.
La Regione ribadisce anche l'ulteriore ragione di inammissibilità già fatta
valere in precedenza, costituita dalla asserita mancanza del “tono
costituzionale” del conflitto, nonché le argomentazioni a sostegno della tesi
secondo cui, in realtà, lo Stato lamenterebbe la presunta violazione della
normativa statale sul condono edilizio. Aggiunge, infine, la Regione che la
circostanza che la stessa Avvocatura riconosca l'inidoneità della delibera
impugnata a produrre effetti giuridici, renderebbe evidente la assoluta carenza
di interesse attuale alla proposizione del conflitto.
Considerato in diritto
1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato conflitto di
attribuzione nei confronti della Regione Campania in relazione alla
deliberazione della Giunta 30 settembre 2003, n. 2827 (Integrazione alle linee
guida per la Pianificazione Territoriale Regionale in Campania, di cui alla
delibera di Giunta Regionale n. 4459 del 30.09.2002, in materia di sanatoria
degli abusi edilizi), poiché tale atto mirerebbe a disapplicare nell'ambito del
territorio regionale la disciplina del condono edilizio contenuta nell'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003 (Disposizioni urgenti per favorire
lo sviluppo e per la correzione dell'andamento dei conti pubblici).
L'atto impugnato – emanato allorché si aveva già notizia della approvazione del
suddetto decreto-legge da parte del Consiglio dei ministri – consiste in una
integrazione alle “linee guida” per la pianificazione territoriale regionale in
Campania, previste dall'art. 14 della legge regionale 18 ottobre 2002, n. 26
(Norme ed incentivi per la valorizzazione dei centri storici della Campania e
per la catalogazione dei beni ambientali di qualità paesistica. Modifiche alla
legge regionale 19 febbraio 1996, n. 3), che erano state approvate con
deliberazione n. 4459 della Giunta regionale del 30 settembre 2002.
Nell'atto
censurato, con il quale viene approvato un allegato dal titolo “Integrazione
alle linee guida per la pianificazione regionale, in materia di sanatoria degli
abusi edilizi. Divieto di sanatoria”, si stabilisce che “al fine di
salvaguardare l'identità e l'integrità del territorio regionale, non è ammessa
la sanatoria delle opere edilizie realizzate in assenza dei necessari titoli
abilitativi, ovvero in difformità o con variazioni essenziali rispetto a questi
ultimi, e che siano in contrasto con gli strumenti urbanistici generali
vigenti”; ciò sulla base della premessa “che, al fine di salvaguardare
l'identità e l'integrità del territorio regionale, sempre più compromesso dal
dilagante fenomeno dell'abusivismo edilizio, occorre prevedere che non saranno
ammesse ipotesi di condono edilizio ulteriori rispetto a quelle previste dal
Capo IV della legge 28 febbraio 1985, n. 47, e dall'art. 39 della legge 23
dicembre 1994, n. 724”.
Il Governo lamenta che in tal modo la Regione intenderebbe disapplicare sul
territorio regionale una legge statale, con ciò violando il principio di leale
cooperazione fra le istituzioni repubblicane, nonché la competenza statale a
disciplinare i titoli abilitativi ad edificare. La delibera regionale, inoltre,
trascurerebbe che il fondamento dell'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003 andrebbe
ravvisato nella competenza esclusiva dello Stato in materia di ordinamento
civile e penale, nonché negli artt. 81, primo e quarto comma, 119, secondo
comma, e 120, secondo comma, Cost.
L'atto della Giunta regionale, infine,
sarebbe illegittimo e inidoneo a produrre effetti giuridici.
2. – Preliminarmente, devono essere esaminate le eccezioni di inammissibilità
del ricorso governativo prospettate dalla Regione Campania.
Innanzitutto, secondo la Regione, l'atto introduttivo del giudizio non
individuerebbe il parametro costituzionale violato, né motiverebbe la asserita
lesione di norme costituzionali da parte della delibera regionale, così
oltretutto ponendo a carico della difesa regionale l'onere di dimostrare la
“legittimità” dell'atto impugnato.
Pur senza negare un non sempre chiaro sovrapporsi di motivazioni diverse nelle
memorie dell'Avvocatura (la maggior parte delle quali riferite, in realtà, al
problema della titolarità del potere legislativo in materia), il rilievo va
respinto, poiché i motivi del ricorso emergono con sufficiente chiarezza. La
censura fondamentale, prospettata dallo Stato, è costituita dal rilievo che
l'atto regionale – come si esprime il ricorso governativo – “mira […] a
sottrarre effettività a disposizioni legislative prodotte dallo Stato; esso
appare perciò atto che contrasta anche con il canone della leale cooperazione
tra istituzioni della Repubblica”. La giurisprudenza di questa Corte è costante
nel riconoscere che il principio della leale collaborazione costituisca
parametro invocabile nel conflitto di attribuzione, in quanto la sua violazione
determini la lesione delle competenze riconosciute allo Stato e alle Regioni (cfr.
sentenze n. 255 del 2002 e n. 133 del 2001).
Altro motivo di inammissibilità eccepito dalla Regione deriverebbe dalla carenza
di un interesse attuale al ricorso conseguente alla mancanza di lesività
dell'atto regionale. Questo, infatti, sarebbe in realtà inidoneo a produrre
effetti giuridici.
Anche tale eccezione deve essere respinta. Occorre infatti tenere distinto il
profilo della concreta efficacia dell'atto regionale, rispetto alla lesione
della sfera di attribuzioni dello Stato che comunque si produce attraverso
l'adozione di un atto regionale di indirizzo che nega efficacia giuridica ad un
atto normativo statale. L'atto impugnato, in sostanza, in quanto volto
espressamente ad escludere l'applicazione della normativa statale nel territorio
regionale, risulta idoneo ad incidere sulle competenze rivendicate dallo Stato.
E tanto è sufficiente a ritenere ammissibile il ricorso.
Infine, secondo la difesa regionale, il conflitto sarebbe privo di “tono
costituzionale”, in quanto il ricorrente lamenterebbe semplicemente
l'illegittimità dell'atto regionale, che costituirebbe un vizio dell'atto
amministrativo censurabile avanti all'autorità giudiziaria.
In realtà, la delibera della Giunta della Regione Campania non viola
semplicemente un decreto-legge dello Stato, ma contiene addirittura un rifiuto
di riconoscere efficacia ad un'intera normativa statale, pur disponendo la
Regione degli strumenti costituzionali per contestarne la eventuale
illegittimità costituzionale; ciò che poi è avvenuto con il ricorso della stessa
Regione Campania n. 76 del 2003, proposto avverso l'art. 32 del d.l. n. 269 del
2003, nonché con il ricorso n. 14 del 2004, avverso l'art. 32 del medesimo d.l.,
così come convertito in legge dalla legge 24 novembre 2003, n. 326 (Conversione
in legge, con modificazioni, del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269,
recante disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione
dell'andamento dei conti pubblici).
3. – Deve invece essere dichiarata inammissibile la censura, formulata dal
ricorrente, secondo cui la delibera impugnata non terrebbe conto del fatto che
l'art. 32 del d.l. n. 269 del 2003 sarebbe fondato sull'art. 117, secondo comma,
lettera l), sull'art. 120, secondo comma, nonché sul combinato disposto
dell'art. 81, primo e quarto comma, e dell'art. 119, secondo comma, Cost.
È evidente infatti come il richiamo di tali norme non costituisca riferimento ad
un parametro di costituzionalità su cui valutare la delibera della Giunta
regionale della Campania, ma attenga al diverso problema della titolarità della
potestà legislativa in tema di condono edilizio di tipo straordinario, che non è
oggetto del presente giudizio, bensì dei ricorsi decisi con sentenza di questa
Corte n. 196 del 2004.
Il problema che si pone in questa sede, invece, prescinde
dalla legittimità o illegittimità costituzionale del decreto-legge che
disciplina il condono edilizio e al quale si riferisce l'atto regionale
impugnato, ma riguarda semplicemente la sussistenza della potestà della Regione
di dichiarare, in un provvedimento amministrativo, l'inapplicabilità di un atto
con forza di legge nel proprio territorio.
4. – La fondamentale censura mossa avverso la deliberazione della Giunta regionale della Campania è che tale atto manifesterebbe la volontà della Regione di non dare efficacia ad un atto avente forza di legge dello Stato, in tal modo violando “il canone della leale cooperazione tra istituzioni della Repubblica”.
In questi termini, il ricorso è fondato.
Il Titolo V della Parte II della Costituzione, così come le corrispondenti parti
degli statuti speciali, presuppongono, infatti, che l'esercizio delle potestà
legislative da parte dello Stato e delle Regioni, secondo le regole
costituzionali di riparto delle diverse competenze, contribuisca a produrre un
unitario ordinamento giuridico, nel quale, certo, non si esclude l'esistenza di
una possibile dialettica fra i diversi livelli legislativi, anche con la
eventualità di parziali sovrapposizioni fra le leggi statali e regionali che
possono trovare soluzione mediante il promovimento della questione di
legittimità costituzionale dinanzi a questa Corte, secondo le scelte affidate
alla discrezionalità degli organi politici statali e regionali.
Ciò che è implicitamente escluso dal sistema costituzionale è che il legislatore
regionale (così come il legislatore statale rispetto alle leggi regionali)
utilizzi la potestà legislativa allo scopo di rendere inapplicabile nel proprio
territorio una legge dello Stato che ritenga costituzionalmente illegittima, se
non addirittura solo dannosa o inopportuna, anziché agire in giudizio dinnanzi a
questa Corte, ai sensi dell'art. 127 Cost.
Dunque né lo Stato né le Regioni
possono pretendere, al di fuori delle procedure previste da disposizioni
costituzionali, di risolvere direttamente gli eventuali conflitti di competenza
tramite proprie disposizioni di legge (cfr. sentenza n. 198 del 2004) o, tanto
meno, tramite atti amministrativi di indirizzo che dichiarino o presuppongano
l'inapplicabilità di un atto legislativo rispettivamente delle Regioni o dello
Stato.
Ciò è quanto appunto fa la deliberazione della Giunta della Regione Campania 30
settembre 2003, n. 2827. Essa, infatti, da un lato, non ammette “la sanatoria
delle opere edilizie realizzate in assenza dei necessari titoli abilitativi,
ovvero in difformità o con variazioni essenziali rispetto a questi ultimi, e che
siano in contrasto con gli strumenti urbanistici generali vigenti”; dall'altro
lato, dispone che da questo divieto "restano escluse le opere abusive che
risultino ultimate entro il 31 dicembre 1993, per le quali sia stata presentata
domanda di rilascio di titolo edilizio in sanatoria ai sensi e nei termini
previsti dalle disposizioni di cui al Capo IV della legge 28 febbraio 1985, n.
47, ed all'art. 39 della legge 23 dicembre 1994, n. 724”.
In tal modo la
delibera regionale esclude l'applicazione nel territorio della Regione Campania
delle disposizioni concernenti il condono edilizio contenute nell'art. 32 del
d.l. n. 269 del 2003.
Tanto basta per ritenere che essa leda le attribuzioni costituzionali dello
Stato e debba essere, conseguentemente, annullata.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara che non spetta alla Regione Campania, e per essa alla Giunta regionale
adottare un atto con il quale si nega efficacia, all'interno del proprio
territorio, ad un atto legislativo dello Stato;
e per l'effetto
annulla la deliberazione della Giunta della Regione Campania 30 settembre 2003,
n. 2827 (Integrazione alle linee guida per la Pianificazione Territoriale
Regionale in Campania, di cui alla delibera di Giunta Regionale n. 4459 del
30.09.2002, in materia di sanatoria degli abusi edilizi).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 giugno 2004.
Gustavo ZAGREBELSKY, Presidente
Ugo DE SIERVO, Redattore
Depositata in Cancelleria il 28 giugno 2004.