AFFARI ISTITUZIONALI - 004
Corte di Cass., Sez. II pen. 4
dic. 1997 - 22 gen. 1998,
pres. Simeone, est. Sirena (pr. Tosches)
Il delitto di abuso d'ufficio richiede la violazione di una norma
che abbia valore di legge o di regolamento e non sia solo genericamente strumentale alla
regolarità dell'attività amministrativa (articolo 323 codice penale).
(omissis)
Va anzitutto evidenziato che, secondo un indirizzo giurisprudenziale delle sezioni unite di questa Corte, valido pure per la presente fattispecie, i fatti punibili ai sensi della vecchia formulazione dell'art. 323 c.p. possono esserlo anche ai sensi del nuovo testo della disposizione di legge in questione, se gli elementi costitutivi del reato descritti nel nuovo articolo siano stati contenuti in forma esplicita o implicita pure nella norma abrogata e siano anche stati indicati chiaramente nell'imputazione contestata.
Dunque - come ha sostenuto il procuratore generale - la modifica legislativa di cui si è fatto cenno non ha comportato l'abolizione generalizzata della fattispecie criminosa di abuso di ufficio, ma la successione ad essa di una norma incriminatrice che ha escluso la rilevanza penale di alcune ipotesi già punite come reato, e conservato tale rilevanza rispetto ad altre (cfr., sul tema: Cass., sez. un., 20 giugno 1990, Monaco).
Quanto sopra chiarito, si osserva che per affrontare il merito dei temi posti dal pubblico ministero e dal difensore del prevenuto è necessario premettere che il reato di abuso di ufficio ha subito due modifiche normative rispetto alla sua formulazione originaria.
Nella primitiva versione del codice Rocco, il reato in questione svolgeva, infatti, una funzione tipicamente generica e sussidiaria e risultava, perciò, applicabile solo allorché l'abuso del pubblico ufficiale non era in modo specifico contemplato da una particolare disposizione di legge.
Ma nel 1990, con l'articolo 13 della legge 26 aprile 1990, n. 86, nell'ambito di una più ampia riforma, il legislatore modificò profondamente l'art. 323 c.p., facendo dell'abuso di ufficio una figura cardine del sistema dei delitti contro la pubblica amministrazione; ed in vero, la nuova disposizione incluse in sé anche i fatti rientranti nelle ipotesi previste dagli articoli di legge che punivano l'interesse privato ed il peculato per distrazione, che furono abrogati come reati autonomi.
Il legislatore, peraltro, ristrutturando il delitto di abuso si sforzò di descrivere il fatto punibile con una certa precisione, e ciò al fine di evitare che un'eccessiva genericità della norma penale potesse consentire incursioni dei giudici e, soprattutto, dei pubblici ministeri in settori riservati alla discrezionalità della pubblica amministrazione.
Come è ben noto, la riforma del 1990 non produsse gli effetti voluti dai suoi compilatori, ed anzi il reato di abuso, nella prassi, fu dilatato al punto che la paralisi di alcuni importanti settori della pubblica amministrazione è stata attribuita alla sua presenza ed al conseguente incombente rischio di sconfinamenti del giudice penale nella sfera amministrativa.
Da tali precedenti storici è nata la riforma del 1997, il cui fine dichiarato è quello di limitare il controllo penale sull'attività dei pubblici amministratori entro confini compatibili con il principio costituzionale della divisione dei poteri.
Per conseguire tale scopo, il legislatore ha descritto la fattispecie punibile in maniera ancora più precisa che in precedenza, così statuendo: «Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio, che nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni».
Passando ad un esame analitico della norma di legge prima riportata, è agevole constatare, attraverso la semplice lettura della stessa, che i suoi compilatori hanno cercato di perseguire l'obiettivo di limitare il controllo penale sull'operato dei pubblici amministratori, anzitutto, descrivendo forme e modalità tipiche attraverso le quali la condotta incriminatrice deve produrre l'evento di danno o di vantaggio; e poi modificando la struttura oggettiva del reato, che hanno trasformato da delitto a consumazione anticipata e a dolo specifico in delitto di evento.
Per quanto concerne le modalità tipiche di realizzazione del fatto, si osserva che queste consistono nella violazione di legge o di regolamento, ovvero nell'inosservanza di un obbligo di astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto.
L'analisi della prima di queste modalità è rilevante ai fini della decisione, essendo stato eccepito che, nella fattispecie, il Tosches non avrebbe violato norme di legge o regolamentari; sarà, dunque, necessario prenderla in esame.
La ratio della disposizione - risultante dai resoconti della discussione parlamentare - è quella di evitare che l'abuso punibile possa essere identificato con il semplice eccesso di potere o con una delle figure sintomatiche di questo e, conseguentemente, di contrastare la prevalente giurisprudenza di legittimità secondo cui «il reato previsto dall'art. 323 c.p., attenendo all'abuso dell'ufficio non può limitare l'elemento materiale ai soli atti amministrativi, ma si estende ad ogni tipo di comportamento del pubblico ufficiale o dell'incaricato del pubblico servizio; pertanto, se l'atto (o più in generale il comportamento dell'agente), pur non essendo affetto da incompetenza o da violazione di legge, è tuttavia viziato da eccesso di potere (inteso come l'esercizio di un potere per un fine improprio rispetto a quello funzionale) non può ritenersi che esso non sia illegittimo e che quindi non vi sia abuso» (Cass., sez. VI, 16 giugno 1995, Aragona).
Ed infatti, anche a volere prescindere dall'astratta configurabilità dell'eccesso di potere rispetto ad un mero comportamento, nel corso della discussione parlamentare è stato evidenziato che da una siffatta interpretazione della norma in esame derivava una eccessiva estensione dell'area di punibilità.
Dunque, per il legislatore del 1997, il reato di abuso di ufficio non è più configurabile se il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio non hanno violato una precisa norma legislativa o regolamentare.
Sennonché, autorevole dottrina ha osservato che ponendo la sola violazione di legge o di regolamento quale presupposto dell'abuso punibile, senza distinguere tra le leggi ed i regolamenti possibile oggetto di violazione, si corre il rischio di far leva in alcuni casi su un concetto di illegittimità meramente formale, identificabile con la mera irregolarità, pervenendo in tal modo a soluzioni addirittura più formalistiche di quelle prima adottate dalla giurisprudenza.
Certo, tale rischio effettivamente sussiste; e ad avviso del Collegio sarebbe davvero grave se si dovesse giungere ad un'interpretazione siffatta della norma in esame, che sarebbe in totale disprezzo della volontà del legislatore.
Peraltro, sembra evidente a questa Corte che perché la violazione di legge o di regolamento possa integrare, insieme con gli altri elementi richiesti dall'art. 323 c.p., il delitto di abuso di ufficio occorrono due presupposti. Il primo di essi è che la norma violata non sia genericamente strumentale alla regolarità dell'attività amministrativa, ma vieti puntualmente il comportamento sostanziale del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico servizio; e pertanto, sono irrilevanti le violazioni di alcune norme a carattere meramente procedimentale, come ad esempio quelle che impongono all'amministrazione di tenere conto delle memorie e dei documenti prodotti dal privato, o di motivare l'atto amministrativo (cfr.: legge n. 241 del 1990), ovvero le violazioni di norme generalissime o di principio, come quella prevista dall'art. 97 Cost. sul buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione, che peraltro appare di carattere organizzativo e non sembra prescrivere specifici comportamenti ai singoli soggetti. Il secondo presupposto è che l'agente deve violare leggi e regolamenti che di questi atti abbiano i caratteri formali ed il regime giuridico, non essendo sufficiente un qualunque contenuto materialmente normativo della disposizione trasgredita.
Una diversa interpretazione della norma finirebbe, anzitutto, con esporla agli stessi dubbi di costituzionalità già prospettati in relazione alla precedente formulazione; numerose sono state, infatti, le ordinanze con cui vari organi giudiziari hanno rimesso alla Corte costituzionale la questione della legittimità dell'art. 323 c.p., per violazione dell'art. 25, scondo comma, Cost., con riferimento all'indeterminatezza della fattispecie incriminatrice, non superabile per effetto del previsto dolo specifico, per difetto di elementi oggettivamente verificabili, con conseguente possibilità di inizio del procedimento penale senza previo accertamento della notitia criminis; ed, altresì, per violazione dell'art. 97, primo comma, Cost., con riferimento all'indebita ingerenza nella sfera della discrezionalità della pubblica amministrazione (cfr.: G.i.p. Trib. Piacenza, ordinanza 24 gennaio 1997, in G.U., 1a sr. speciale, 26 marzo 1997, n. 13; Trib. Sondrio, ordinanza 3 dicembre 1996, in G.U., 1a sr. speciale, 9 aprile 1997, n. 15; Trib. Grosseto, ordinanza 4 febbraio 1997, in G.U., 1a sr. speciale, 30 aprile 1997, n. 18; G.i.p. Trib. Piacenza, ordinanza 13 marzo 1997, in G.U., 1.a serie speciale, 4 giugno 1997, n. 23).
Inoltre, un0interpretazione diversa da quella prospettata finirebbe con il rendere assolutamente vana la riforma del 1997, volta - come si è visto - a valorizzare il principio della separazione dei poteri e ad individuare, con sufficiente chiarezza, il discrimine tra illegittimità e illiceità.
Quanto sopra premesso, ed applicando il principio prima esposto alla fattispecie concreta, la Corte osserva che il Tosches ha violato una norma di legge rilevante ai fini della configurabilità del delitto di che trattasi; e che tale norma è quella prevista dall'art. 13 legge 28 febbraio 1985, n. 47, secondo cui il sindaco può rilasciare «la concessione o l'autorizzazione in sanatoria quando l'opera eseguita in assenza della concessione o dell'autorizzazione è conforme agli strumenti urbanistici generali e di attuazione approvati e non in contrasto con quelli adottati sia al momento della realizzazione dell'opera, sia al momento della presentazione della domanda».
Non sembra possa dubitarsi che la disposizione di legge su citata sia stata prevista con lo scopo di impedire al sindaco il rilascio di concessioni e di autorizzazioni in sanatoria in contrasto con gli strumenti urbanistici; e che perciò la condotta del Tosches, anche dopo la novella del 1997, sia conforme alla descritta modalità tipica indicata dal legislatore come necessaria per la realizzazione del delitto di che trattasi.
Occorre, a questo punto, procedere all'esame dell'elemento oggettivo del reato di abuso d'ufficio; come si è peraltro cennato, il legislatore lo ha trasformato da delitto a consumazione anticipata e a dolo specifico in delitto di evento, con la conseguenza che il fulcro della fattispecie punibile consiste, oggi, non più nel semplice fine di avvantaggiare o di danneggiare, ma nella effettiva produzione di un vantaggio ovvero di un danno.
E va subito precisato che tale vantaggio deve essere patrimoniale: dunque, a differenza che nel passato, il delitto in questione si realizzerà solo se l'agente ha procurato a sé o ad altri un beneficio economicamente valutabile. Pertanto, in relazione all'abuso volto a procurare un ingiusto vantaggio non patrimoniale - di cui al comma 1 dell'abrogato art. 323 codice penale - ci si trova in presenza di una vera e propria abolitio criminis, con la conseguenza che comportamenti di quel genere non costituiscono più reato e che debbono cessare gli effetti penali delle condanne passate in giudicato ad essi relative.
Quanto all'evento di danno, osserva invece la corte che questo è menzionato nel nuovo testo dell'art. 323 c.p. senza alcuna specificazione e che, perciò, il pregiudizio arrecato ai terzi può anche non avere carattere patrimoniale.
Per applicare i principi da ultimo esposti alla fattispecie concreta è necessario - in conformità alla giurisprudenza delle sezioni unite prima citata - accertare se gli elementi del "vantaggio patrimoniale" o del "danno ingiusto" siano stati chiaramente indicati nell'imputazione contestata a Tosches.
Ebbene, procedendo a tale indagine il Collegio osserva che all'imputato è stata espressamente contestata la violazione del comma 1 dell'abrogato art. 323 c.p., e che perciò la fattispecie a lui attribuita è quella dell'avere agito per procurare ad altri un vantaggio non patrimoniale. Ed osserva, altresì, che il delitto contestato esclude la sussistenza di danni nei confronti di terzi.
Dunque, il fatto imputato al prevenuto - che prima era compreso nel novero di quelli puniti dalla norma sull'abuso di ufficio compilata dal legislatore del 1990 - oggi non rientra più nello schema tipico della nuova disposizione ed è, perciò, irrilevante sul piano penalistico.
Da ciò consegue che l'impugnata sentenza deve essere annullata senza rinvio perché il fatto di cui all'imputazione attribuita al Tosches non è più previsto dalla legge come reato.
(omissis)
(al commento alla sentenza)