AFFARI  GENERALI - 071
Corte costituzionale, 17 novembre
2010, n. 325
Sull'articolo 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, convertito dalla legge n. 133 del 2008 come modificato dall’art. 15 del decreto-legge n. 135 del 2009, convertito dalla legge n. 166 del 2009 (servizi pubblici locali)

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Francesco AMIRANTE Presidente
- Ugo DE SIERVO Giudice
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 23-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, nel testo originario ed in quello modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135 (Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee), convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 2009, n. 166; dell’art. 15, comma 1-ter, dello stesso decreto-legge n. 135 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 166 del 2009; dell’art. 4, commi 1, 4, 5, 6 e 14 della legge della Regione Liguria 28 ottobre 2008, n. 39 (Istituzione delle Autorità d’Ambito per l’esercizio delle funzioni degli enti locali in materia di risorse idriche e gestione rifiuti ai sensi del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152. Norme in materia ambientale); dell’art. 1, comma 1, della legge della Regione Campania 21 gennaio 2010, n. 2 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della regione Campania – Legge finanziaria anno 2010); promossi dalle Regioni Emilia-Romagna (mediante due ricorsi), Liguria (mediante due ricorsi), Piemonte (mediante due ricorsi), Puglia, Toscana, Umbria e Marche e dal Presidente del Consiglio dei ministri (mediante due ricorsi), notificati il 20 ottobre 2008, il 21 gennaio 2010, il 20 ottobre 2008, il 22 gennaio 2010, il 20 ottobre 2008, il 29 gennaio, il 9 gennaio, il 22 gennaio, il 21 gennaio ed il 22 gennaio 2010, il 30 dicembre 2008 e il 20 marzo 2010, depositati in cancelleria il 22 ottobre 2008, il 28 gennaio 2010, il 22 ottobre 2008, il 27 gennaio, il 27 ottobre, il 29 gennaio, il 18 gennaio, il 27 gennaio, il 28 gennaio ed il 29 gennaio 2010, il 2 gennaio 2009 e il 30 marzo 2010, ed iscritti ai nn. 69 del registro ricorsi 2008, 13 del registro ricorsi 2010, 72 del registro ricorsi 2008, 12 del registro ricorsi 2010, 77 del registro ricorsi 2008, 16, 6, 10, 14 e 15 del registro ricorsi 2010, 2 del registro ricorsi 2009, 51 del registro ricorsi 2010.
Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri e delle Regioni Liguria e Campania;
udito nell’udienza pubblica del 5 ottobre 2010 il Giudice relatore Franco Gallo;
uditi gli avvocati
Giandomenico Falcon, Franco Mastragostino e Luigi Manzi per la Regione Emilia-Romagna, Giandomenico Falcon, Luigi Manzi e Luigi Piscitelli per la Regione Liguria,
Alberto Romano e Roberto Cavallo Perin per la Regione Piemonte,
Nicola Colaianni e Adriana Shiroka per la Regione Puglia,
Lucia Bora per la Regione Toscana,
Giandomenico Falcon e Luigi Manzi per la Regione Umbria,
Stefano Grassi per la Regione Marche,
Vincenzo Cocozza per la Regione Campania
e gli avvocati dello Stato Chiarina Aiello, Giuseppe Albenzio e Paolo Gentili per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. – Con ricorso notificato il 20 ottobre 2008 e depositato il 22 ottobre successivo (r. ric. n. 69 del 2008), la Regione Emilia-Romagna ha impugnato, tra l’altro, i commi 7 e 10 dell’art. 23-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria) – articolo aggiunto dalla legge di conversione 6 agosto 2008, n. 133, ed entrato in vigore, in forza dell’art. 1, comma 4, di detta legge, in data 22 agosto 2008 – in riferimento all’articolo 117, quarto e sesto comma, nonché all’articolo 118, primo e secondo comma, della Costituzione.

1.1. – La ricorrente premette che, secondo la sentenza della Corte costituzionale n. 272 del 2004, la legge dello Stato può intervenire nella materia dei servizi pubblici a titolo di tutela della concorrenza solo con norme che «che garantiscono, in forme adeguate e proporzionate, la più ampia libertà di concorrenza nell’ambito di rapporti – come quelli relativi al regime delle gare o delle modalità di gestione e conferimento dei servizi – i quali per la loro diretta incidenza sul mercato appaiono piú meritevoli di essere preservati da pratiche anticoncorrenziali».

1.1.1. – La Regione impugna, in primo luogo, il comma 7 dell’art. 23-bis, il quale prevede che «Le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle rispettive competenze e d’intesa con la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, possono definire, nel rispetto delle normative settoriali, i bacini di gara per i diversi servizi, in maniera da consentire lo sfruttamento delle economie di scala e di scopo e favorire una maggiore efficienza ed efficacia nell’espletamento dei servizi, nonché l’integrazione di servizi a domanda debole nel quadro di servizi più redditizi, garantendo il raggiungimento della dimensione minima efficiente a livello di impianto per più soggetti gestori e la copertura degli obblighi di servizio universale».
Per la ricorrente, tale disposizione, «sotto una apparenza meramente facoltizzante», vincola le Regioni e gli enti locali ad assumere le proprie decisioni relative ai bacini di gara – corrispondenti ai bacini di esercizio dei servizi pubblici – «d’intesa con la Conferenza unificata», in violazione degli artt. 117, quarto comma, e 118, primo e secondo comma, Cost.
Lamenta la Regione che la disciplina della dimensione di esercizio dei servizi pubblici rientra nella sua potestà legislativa e che il condizionare l’esercizio di tale potestà e delle scelte amministrative che essa esprime lede sia la potestà stessa, sia il principio di sussidiarietà, non sussistendo «alcuna ragione di centralizzazione di tali scelte». Tale lesione non viene meno per il fatto che la Conferenza unificata sia un organismo espressivo delle autonomie, perché l’intesa con la Conferenza richiede necessariamente anche l’intesa con lo Stato, il quale è esso stesso parte della Conferenza e perché si tratterebbe in ogni caso di un condizionamento delle scelte della Regione da parte di altre Regioni ed enti locali, che non hanno alcun potere da esercitare in relazione al territorio di una specifica Regione.


1.1.2. – È censurato, in secondo luogo, il comma 10 dell’art. 23-bis, il quale prevede che «Il Governo, su proposta del Ministro per i rapporti con le regioni ed entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, sentita la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, nonché le competenti Commissioni parlamentari, adotta uno o più regolamenti, ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, al fine di:

a) prevedere l’assoggettamento dei soggetti affidatari diretti di servizi pubblici locali al patto di stabilità interno e l’osservanza da parte delle società in house e delle società a partecipazione mista pubblica e privata di procedure ad evidenza pubblica per l’acquisto di beni e servizi e l’assunzione di personale;
b) prevedere, in attuazione dei principi di proporzionalità e di adeguatezza di cui all’articolo 118 della Costituzione, che i comuni con un limitato numero di residenti possano svolgere le funzioni relative alla gestione dei servizi pubblici locali in forma associata;
c) prevedere una netta distinzione tra le funzioni di regolazione e le funzioni di gestione dei servizi pubblici locali, anche attraverso la revisione della disciplina sulle incompatibilità;
d) armonizzare la nuova disciplina e quella di settore applicabile ai diversi servizi pubblici locali, individuando le norme applicabili in via generale per l’affidamento di tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica in materia di rifiuti, trasporti, energia elettrica e gas, nonché in materia di acqua;
e) disciplinare, per i settori diversi da quello idrico, fermo restando il limite massimo stabilito dall’ordinamento di ciascun settore per la cessazione degli affidamenti effettuati con procedure diverse dall’evidenza pubblica o da quella di cui al comma 3, la fase transitoria, ai fini del progressivo allineamento delle gestioni in essere alle disposizioni di cui al presente articolo, prevedendo tempi differenziati e che gli affidamenti di retti in essere debbano cessare alla scadenza, con esclusione di ogni proroga o rinnovo;
f) prevedere l’applicazione del principio di reciprocità ai fini dell’ammissione alle gare di imprese estere;
g) limitare, secondo criteri di proporzionalità, sussidiarietà orizzontale e razionalità economica, i casi di gestione in regime d’esclusiva dei servizi pubblici locali, liberalizzando le altre attività economiche di prestazione di servizi di interesse generale in ambito locale compatibili con le garanzie di universalità ed accessibilità del servizio pubblico locale;
h) prevedere nella disciplina degli affidamenti idonee forme di ammortamento degli investimenti e una durata degli affidamenti strettamente proporzionale e mai superiore ai tempi di recupero degli investimenti;
i) disciplinare, in ogni caso di subentro, la cessione dei beni, di proprietà del precedente gestore, necessari per la prosecuzione del servizio;
l) prevedere adeguati strumenti di tutela non giurisdizionale anche con riguardo agli utenti dei servizi;
m) individuare espressamente le norme abrogate ai sensi del presente articolo».

Tale disposizione violerebbe l’art. 117, sesto comma, Cost., perché la materia che forma oggetto della competenza regolamentare statale da essa prevista presenterebbe un «inestricabile intreccio con le materie oggetto di potestà concorrente (come il coordinamento della finanza pubblica, fondamento della lettera a) o esclusiva delle regioni (come nel caso della gestione associata dei servizi locali, oggetto della lettera c)». Secondo la ricorrente, in presenza di un tale intreccio di materie, il solo modo di contemperare le competenze rispettive dello Stato e delle Regioni sarebbe consistito nel sottoporre il regolamento all’intesa della Conferenza Stato-Regioni o della Conferenza unificata, in luogo del semplice parere previsto dalla disposizione impugnata.
In particolare, con riferimento alla lettera b) del comma 10 dell’art. 23-bis, la ricorrente lamenta che l’oggetto della potestà regolamentare da esso assegnata allo Stato – e cioè prevedere che «i comuni con un limitato numero di residenti possano svolgere le funzioni relative alla gestione dei servizi pubblici locali in forma associata» – è del tutto estraneo alla tutela della concorrenza e a ogni altro titolo di competenza normativa statale.

1.2. – Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni proposte siano dichiarate inammissibili o, comunque, infondate.
Rileva la difesa dello Stato che:

a) il censurato comma 7 dell’art. 23-bis reca una disciplina che rientra nella materia della tutela della concorrenza, di competenza legislativa esclusiva dello Stato, perché, attraverso l’individuazione dei bacini di gara e dei criteri relativi a tale attività, individua in concreto il «mercato rilevante», allo scopo di evitare le distorsioni della concorrenza derivanti dalla parcellizzazione delle gestioni;
b) il censurato comma 10 dell’art. 23-bis prevede una potestà regolamentare statale che ha la finalità di procedere all’armonizzazione della disciplina di alcuni settori di pubblici servizi nei quali sussiste una regolazione settoriale contrastante con i principi stabiliti da detto articolo e tale finalità giustifica la previsione del parere della Conferenza Stato-Regioni anziché del meccanismo dell’intesa forte;
c) in particolare, la lettera b) del censurato comma 10 dell’art. 23-bis ha anch’essa una finalità di armonizzazione, perché prevede che «il “controllo analogo” possa sussistere anche allorché più comuni e/o enti pubblici non detengano individualmente l’intera partecipazione del soggetto affidatario in house».

1.3. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, la Regione Emilia-Romagna ha sostanzialmente ribadito quanto già sostenuto nel ricorso, aggiungendo che: a) quanto all’individuazione dei bacini di gara di cui al censurato comma 7, l’illegittimità della previsione dell’intesa con la Conferenza unificata è confermata dalla stessa legislazione statale, che affida alle Regioni, senza intese di alcun tipo, il potere di individuare gli ambiti di esercizio dei servizi pubblici, come ad esempio in materia di servizio idrico integrato (art. 147 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, recante «Norme in materia ambientale»); b) quanto al regolamento di delegificazione previsto dal censurato comma 10, lo schema di regolamento adottato il 22 luglio del 2010 dal Consiglio dei ministri e non ancora emanato contiene una previsione tanto dettagliata da rendere oltremodo necessaria la previsione dell’intesa con la Conferenza unificata in luogo del semplice parere.

2. – Con ricorso notificato il 20 ottobre 2008 e depositato il 22 ottobre successivo (r. ric. n. 72 del 2008), la Regione Liguria ha impugnato, tra l’altro, i commi 2, 3, 4, 7 e 10 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 – articolo aggiunto dalla legge di conversione 6 agosto 2008, n. 133, – in riferimento agli artt. 117, quarto e sesto comma, e 118, primo e secondo comma, Cost.

2.1. – La ricorrente premette che la legge dello Stato può intervenire nella materia dei servizi pubblici solo a titolo di tutela della concorrenza e sostiene che le disposizioni censurate non sono riferibili a tale titolo competenziale.

2.1.1. – La Regione impugna, in primo luogo, i commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis, i quali prevedono rispettivamente che:

a) «Il conferimento della gestione dei servizi pubblici locali avviene, in via ordinaria, a favore di imprenditori o di società in qualunque forma costituite individuati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, nel rispetto dei principi del Trattato che istituisce la Comunità europea e dei principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità» (comma 2);
b) «In deroga alle modalità di affidamento ordinario di cui al comma 2, per situazioni che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato, l’affidamento può avvenire nel rispetto dei principi della disciplina comunitaria» (comma 3);
c) «Nei casi di cui al comma 3, l’ente affidante deve dare adeguata pubblicità alla scelta, motivandola in base ad un’analisi del mercato e contestualmente trasmettere una relazione contenente gli esiti della predetta verifica all’Autorità garante della concorrenza e del mercato e alle autorità di regolazione del settore, ove costituite, per l’espressione di un parere sui profili di competenza da rendere entro sessanta giorni dalla ricezione della predetta relazione» (comma 4).

Osserva la ricorrente che il diritto dell’ente territoriale responsabile di erogare in proprio il servizio pubblico a favore della propria comunità «non solo non è precluso dalle regole di tutela della concorrenza, ma è espressamente riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee», secondo cui «un’autorità pubblica, che sia un’amministrazione aggiudicatrice, ha la possibilità di adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti, amministrativi, tecnici e di altro tipo, senza essere obbligata a far ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi», e «in tal caso, non si può parlare di contratto a titolo oneroso concluso con un’entità giuridicamente distinta dall’amministrazione aggiudicatrice», con la conseguenza che «non sussistono dunque i presupposti per applicare le norme comunitarie in materia di appalti pubblici».
La stessa giurisprudenza avrebbe, inoltre, costantemente precisato che, «non è escluso che possano esistere altre circostanze nelle quali l’appello alla concorrenza non è obbligatorio ancorché la controparte contrattuale sia un’entità giuridicamente distinta dall’amministrazione aggiudicatrice», e che «ciò si verifica nel caso in cui l’autorità pubblica, che sia un’amministrazione aggiudicatrice, eserciti sull’entità distinta in questione un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi e tale entità realizzi la parte più importante della propria attività con l’autorità o le autorità pubbliche che la controllano».
Ad avviso della ricorrente, le disposizioni censurate si pongono in contrasto con tali principi, perché limitano, in violazione dell’art. 117, quarto comma, Cost., la potestà legislativa regionale di disciplinare il normale svolgimento del servizio pubblico da parte dell’ente, sottoponendo tale scelta a vincoli sia sostanziali (le «peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato») che procedurali (l’onere di «trasmettere una relazione contenente gli esiti della predetta verifica all’Autorità garante della concorrenza e del mercato e alle autorità di regolazione del settore, ove costituite, per l’espressione di un parere sui profili di competenza»).

2.1.2. – La Regione impugna, in secondo luogo, il comma 7 del citato art. 23-bis, in riferimento agli artt. 117, quarto comma, e 118, primo e secondo comma, Cost., proponendo questioni analoghe a quelle proposte dalla Regione Emilia-Romagna nel ricorso n. 69 del 2008 (supra: punto 1.1.1.).

2.1.3. – La stessa Regione impugna, infine, il comma 10 dell’art. 23-bis, in riferimento all’artt. 117, sesto comma, Cost., proponendo questioni analoghe a quelle proposte dalla Regione Emilia-Romagna nel ricorso n. 69 del 2008 (supra: punto 1.1.2.).

2.2. – Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni proposte siano dichiarate inammissibili o, comunque, infondate.
Rileva la difesa dello Stato che:

a) nella giurisprudenza comunitaria e interna, la possibilità dell’in house providing è costruita come deroga alla regolamentazione generale e deve, perciò, essere interpretata in via restrittiva;
b) nell’attuazione del diritto comunitario in materia di tutela della concorrenza, il legislatore statale ha un margine di discrezionalità e può, perciò, utilizzare gli strumenti che ritiene più congrui in relazione alla situazione nazionale;
c) non vi è alcuna lesione dell’autonomia degli enti locali, perché le norme censurate consentono che essi – qualora ne sussistano i presupposti – possano fare ricorso all’affidamento dei servizi in house;
d) il censurato comma 7 dell’art. 23-bis reca una disciplina che rientra nella materia della tutela della concorrenza, perché, attraverso l’individuazione dei bacini di gara e dei criteri relativi a tale attività, individua in concreto il «mercato rilevante»;
e) il censurato comma 10 dell’art. 23-bis prevede una potestà regolamentare statale che ha la finalità di procedere alla armonizzazione della disciplina di alcuni settori di pubblici servizi nei quali sussiste una disciplina settoriale contrastante con i principi stabiliti da detto articolo.

2.3. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, la Regione Liguria ha sostanzialmente ribadito quanto già sostenuto nel ricorso, svolgendo considerazioni analoghe a quelle svolte nella memoria per l’udienza nel giudizio r. ric. n. 69 del 2008 (supra: punto 1.3.) e precisando, inoltre, che il diritto comunitario consente agli enti locali di gestire in proprio i servizi pubblici e non prevede che la gestione in house sia limitata a casi eccezionali.

3. – Con ricorso notificato il 20 ottobre 2008 e depositato il 27 ottobre successivo (r. ric. n. 77 del 2008), la Regione Piemonte ha impugnato i commi 1, 2, 3, 4, 8 e 10 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 – articolo aggiunto dalla legge di conversione 6 agosto 2008, n. 133, ed entrato in vigore, in forza dell’art. 1, comma 4, di detta legge, in data 22 agosto 2008 – in riferimento agli artt. 3, 5, 97, 114, 117, primo, secondo, terzo, quarto e sesto comma, 118, primo e secondo comma, e 120 Cost.

3.1. – La Regione premette che il censurato comma 1 dell’art. 23-bis prevede che «Le disposizioni del presente articolo disciplinano l’affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, in applicazione della disciplina comunitaria e al fine di favorire la più ampia diffusione dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di tutti gli operatori economici interessati alla gestione di servizi di interesse generale in ambito locale, nonché di garantire il diritto di tutti gli utenti alla universalità ed accessibilità dei servizi pubblici locali ed al livello essenziale delle prestazioni, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettere e) e m), della Costituzione, assicurando un adeguato livello di tutela degli utenti, secondo i principi di sussidiarietà, proporzionalità e leale cooperazione. Le disposizioni contenute nel presente articolo si applicano a tutti i servizi pubblici locali e prevalgono sulle relative discipline di settore con esse incompatibili».
Il successivo comma 8 pone una disciplina transitoria per il solo servizio idrico integrato, prevedendo che: «Salvo quanto previsto dal comma 10, lettera e), le concessioni relative al servizio idrico integrato rilasciate con procedure diverse dall’evidenza pubblica cessano comunque entro e non oltre la data del 31 dicembre 2010, senza necessità di apposita deliberazione dell’ente affidante. Sono escluse dalla cessazione le concessioni affidate ai sensi del comma 3».
La preesistente disciplina generale del servizio pubblico locale – prosegue la Regione – non è tuttavia integralmente sottoposta ad abrogazione dal nuovo art. 23-bis, perché quest’ultimo espressamente prevede che cessino di avere effetto le norme preesistenti nelle sole «parti incompatibili» con le sue nuove disposizioni (comma 11).

3.1.1. – La ricorrente lamenta, in primo luogo, che i censurati commi 1, 2 e 3 violano l’art. 117, primo e quarto comma, Cost. Sono richiamati, ma non propriamente evocati, anche gli artt. 5, 97, 114, secondo comma, 117, secondo e sesto comma, e 118 Cost.

3.1.1.1. – Quanto al parametro dell’art. 117, quarto comma, Cost., esso sarebbe violato perché le norme impugnate recano una disciplina che non è riconducibile alla materia della tutela della concorrenza, ma alla potestà legislativa residuale delle Regioni. Con tali disposizioni, infatti, il legislatore statale riconosce che entrambe le forme di gestione ed affidamento dei servizi pubblici (soggetto scelto con gara, organizzazione in house) sono conformi all’ordinamento europeo e in particolare alla disciplina sulla concorrenza, ma giunge sino ad individuare come forma preferenziale “ordinaria” l’affidamento del servizio ad imprese terze, mentre relega la possibilità dell’affidamento in house ai soli casi ivi espressi in via d’eccezione, superando con ciò la stessa disciplina comunitaria in materia di concorrenza. E non potrebbe essere richiamato, a sostegno della legittimità di tali norme, il principio secondo cui la «legislazione nazionale in materia di tutela dell’ambiente ha potuto individuare misure più rigorose di quelle previste dal diritto comunitario», perché «ciò è stato possibile nei soli limiti di un rispetto del principio di proporzionalità con altre disposizioni del Trattato […] tra le quali assume particolare importanza la disciplina a tutela della concorrenza».
Quanto alla sussistenza di altri eventuali titoli di competenza legislativa statale, la Regione rileva, innanzi tutto, che la disciplina del censurato art. 23-bis «è in tutto o in parte sostitutiva dell’art. 113, d.lgs. n. 267 del 2000» e ha perciò per oggetto unicamente le forme di gestione dei servizi pubblici a rilevanza economica, e non le prestazioni da assicurare agli utenti, con la conseguenza che non può essere richiamata la materia dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali; rileva, inoltre, che la disciplina censurata non è riconducibile alla potestà esclusiva statale in materia di funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane (art. 117, secondo comma, lettera p, Cost.), «giacché la gestione dei predetti servizi non può certo considerarsi esplicazione di una funzione propria ed indefettibile dell’ente locale».
In conclusione – sempre secondo la ricorrente – l’opzione tra le diverse modalità di gestione del servizio pubblico «è una tipica scelta d’organizzazione, in particolare di buon andamento del servizio pubblico (art. 97, primo comma, Cost.), che proprio in quanto organizzazione locale e non nazionale dei servizi oggetto della disciplina dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, non può riconoscersi alla legislazione statale, ma spetta alla legislazione regionale ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost. seppure nel rispetto di una eventuale specifica disciplina degli enti territoriali minori (art. 117, sesto comma, Cost.)». Alle Regioni spetta, inoltre «la legittimazione ad impugnare le leggi statali in via diretta non solo a tutela della propria legislazione ma anche con il riferimento alla prospettata lesione da parte della legge nazionale della potestà normativa degli enti territoriali, con affermazione della regione come ente di tutela avanti alla Corte costituzionale del “sistema regionale delle autonomie territoriali” (art. 114, secondo comma, Cost.)».

3.1.1.2. – Quanto al parametro dell’art. 117, primo comma, Cost., la ricorrente rileva che esso sarebbe violato perché il diritto comunitario non consente che il legislatore nazionale spinga la tutela della concorrenza fino comprimere il «principio di libertà degli individui o di autonomia – del pari costituzionale – degli enti territoriali (artt. 5, 117, 118, Cost.) di mantenere la capacità di operare ogni qualvolta fanno la scelta che ritengono più opportuna: cioè se fruire dei vantaggi economici offerti dal mercato dei produttori oppure se procedere a modellare una propria struttura capace di diversamente configurare l’offerta delle prestazioni di servizio pubblico». In tal senso si è espresso – prosegue la ricorrente – l’ordinamento comunitario, laddove «ha ritenuto in contrasto con la disciplina europea sulla concorrenza la legge nazionale sui lavori pubblici (allora legge 11 febbraio 1994, n. 109, art. 21) che aveva limitato la scelta tra i due criteri europei d’aggiudicazione degli appalti – offerta economicamente più vantaggiosa e prezzo più basso − imponendo il vincolo legislativo alle amministrazioni aggiudicatrici di ricorrere unicamente al criterio del prezzo più basso». L’attuazione del diritto comunitario non consentirebbe al legislatore interno di esprimere un autonomo indirizzo politico, perché essa può comportare solo «l’adozione di norme esecutive (secundum legem)», con l’impossibilità di spingersi sino a norme «integrative (praeter legem), tali cioè da ampliare, senza derogarli, i contenuti normativi espressi attraverso la legislazione» da attuare. Nel caso di specie, «nessuna delle disposizioni comunitarie vigenti infatti impone − come invece pretende l’art. 23-bis, decreto-legge n. 112 del 2008, cit. ai suoi commi secondo e terzo − agli Stati membri l’attribuzione ad imprese terze come forma ordinaria o preferenziale di affidamento dei servizi pubblici locali, relegando ai soli casi d’eccezione il ricorso alla diversa ed alternativa forma dell’in house providing. Al contrario si può affermare che la legislazione comunitaria lasci gli Stati membri liberi di decidere se fornire i servizi pubblici con un’organizzazione propria […] o affidarne la fornitura ad imprese terze».

3.1.2. – La ricorrente lamenta, in secondo luogo, che i censurati commi 2, 3 e 4 violano gli artt. 3, 97, 114, 117, primo, secondo, terzo, quarto e sesto comma, e 118, primo e secondo comma, Cost.

3.1.2.1. – Quanto ai parametri degli artt. 3 e 97 Cost., la ricorrente rileva che essi sarebbero violati perché la disciplina dell’affidamento del servizio pubblico locale nella forma organizzativa dell’in house providing, contenuta nelle disposizioni censurate, risulta lesiva della «competenza delle regioni e degli enti locali ove le s’intenda come disciplina ulteriore rispetto a quella generale sul procedimento amministrativo che da tempo prevede il dovere di motivazione degli atti amministrativi (art. 3, legge 7 agosto 1990, n. 241), secondo molti posto in attuazione del principio costituzionale di motivazione delle scelte della amministrazioni pubbliche quanto meno nella cura di pubblici interessi». Tale ulteriore disciplina, da intendersi come «deroga alla disciplina generale sul procedimento e la motivazione degli atti amministrativi», si porrebbe in violazione del principio di ragionevolezza «(arg. ex art. 3, secondo comma Cost.), poiché non è ravvisabile nel caso in esame alcun interesse pubblico prevalente capace di fondare sia l’esenzione dal generale dovere di motivazione per l’affidamento ad imprese terze (art. 23-bis, secondo comma), sia viceversa la limitazione dei casi sui quali può essere portata la motivazione a fondamento di altre soluzioni organizzative». La denunciata invasione nella sfera di competenza regionale e degli enti territoriali minori è addirittura enfatizzata – prosegue la Regione – dalla precisazione che le disposizioni impugnate «prevalgono» su tutte le «discipline di settore con esse incompatibili» e, in particolare, su quelle della Regione Piemonte relative al servizio idrico integrato (legge regionale 13 dicembre 1997, n. 13) e al sistema integrato di raccolta e smaltimento dei rifiuti solidi urbani (legge regionale 24 ottobre 2002, n. 24), che non limitano la scelta tra le forme di gestione dei servizi compatibili con il diritto comunitario.
La ricorrente non esclude, peraltro, che dell’art. 23-bis, commi 1 e 4, si possa dare «un’interpretazione adeguatrice capace di sorreggere una sentenza interpretativa di rigetto della questione di costituzionalità proposta ove s’intenda che tali disposizioni non deroghino alla disciplina generale sul procedimento amministrativo, dovendo l’amministrazione motivare qualunque scelta della forma di gestione del servizio pubblico locale, attraverso una comparazione tra tutte quelle compatibili con l’ordinamento comunitario ed offrendo infine la giustificazione in concreto della forma prescelta, secondo un’interpretazione che espunge dalle norme qualsiasi preferenza o prevalenza in astratto di una forma di gestione sull’altra».
Anche seguendo tale percorso interpretativo, permarrebbe comunque – ad avviso della Regione – l’illegittimità costituzionale parziale dell’art. 23-bis, commi 3 e 4, del citato decreto-legge n. 112 del 2008, «per avere il legislatore statale invaso la sfera di competenza normativa della Regione Piemonte e degli enti territoriali piemontesi nella definizione dello svolgimento delle funzioni loro attribuite (art. 117, commi quarto e sesto, Cost.) poiché una parte della norma prevede una disciplina particolare del procedimento di affidamento della gestione a soggetti diversi dagli operatori di mercato, tra cui l’in house providing».
A tali considerazioni, la difesa regionale aggiunge che i commi censurati contengono «norme di dettaglio così puntuali che non sarebbero neppure compatibili con una competenza esclusiva dello Stato […] e in violazione del principio di ragionevolezza (ex art. 3, secondo comma, Cost.) poiché della legge impugnata non si comprendono le ragioni di una disciplina differenziata per l’ambito locale dei pubblici servizi rispetto a quella generalmente prevista per l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ed in genere per le autorità di regolazione».

3.1.2.2. – Quanto ai parametri «dell’art. 117, commi primo, secondo, terzo, quarto, Cost. con riferimento agli articoli 114, 117, sesto comma, e 118, commi primo e secondo, Cost.», la ricorrente rileva che essi sarebbero violati perché i commi censurati ledono «l’autonomia costituzionale propria dell’intero sistema degli enti locali», limitando la «capacità d’organizzazione e di autonoma definizione normativa dello svolgimento delle funzioni di affidamento dei servizi pubblici locali». Secondo la Regione, in particolare, la scelta delle forme di gestione ed affidamento del servizio pubblico deve informarsi a valutazioni di efficienza, efficacia ed economicità «che ciascuna organizzazione pubblica non può che esprimere con riferimento ai proposti standard di qualità che intende offrire agli utenti, involgendo perciò questioni di pura autorganizzazione degli enti territoriali». In particolare, la legislazione statale può legittimamente imporre una determinata forma di gestione di un servizio pubblico solo procedendo in via preliminare ad avocare allo Stato la competenza sull’organizzazione della gestione dei servizi sinora considerati locali (es. idrico integrato, raccolta dei rifiuti solidi urbani) sul presupposto che l’esercizio unitario di tali servizi sia divenuto ottimale solo a livello d’ambito statale (art. 118, primo comma, Cost.)». Ne consegue che la disciplina in esame è da ritenersi costituzionalmente illegittima «per difetto di tale qualificazione nazionale dei servizi che restano locali per sua espressa qualificazione».

3.1.2.3. – Quanto al parametro «dell’art. 117, secondo comma, Cost. con riferimento all’art. 3 Cost.», la ricorrente sostiene che la disciplina contenuta nelle disposizioni censurate, anche ove fosse ritenuta di tutela della concorrenza, difetterebbe di proporzionalità e adeguatezza.
In particolare, la difesa regionale afferma che la Corte costituzionale ha riconosciuto che solo le disposizioni di legge statale a «carattere generale che disciplinano le modalità di gestione e l’affidamento dei servizi pubblici locali di rilevanza economica» trovano il proprio «titolo di legittimazione» nell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. («tutela della concorrenza») e «solo le predette disposizioni non possono essere derogate da norme regionali». A tale proposito, il criterio di proporzionalità ed adeguatezza sarebbe «essenziale per definire l’ambito di operatività della competenza legislativa statale attinente alla ‘‘tutela della concorrenza” e conseguentemente la legittimità dei relativi interventi statali» poiché tale materia «trasversale» «si intreccia inestricabilmente con una pluralità di altri interessi – alcuni dei quali rientranti nella sfera di competenza concorrente o residuale delle regioni – connessi allo sviluppo economico-produttivo del Paese». Tali considerazioni varrebbero, a maggior ragione, per le disposizioni in esame, perché esse stabiliscono «una disciplina immediatamente autoapplicativa ove senz’altro pongono un criterio o principio di preferenza nell’attribuzione ad imprese terze dei servizi pubblici locali».

3.1.3. – La ricorrente censura, in terzo luogo, il comma 8 dell’art. 23-bis, il quale prevede – come visto – che, in generale «le concessioni relative al servizio idrico integrato rilasciate con procedure diverse dall’evidenza pubblica cessano comunque entro e non oltre la data del 31 dicembre 2010».

3.1.3.1. – Ad avviso della ricorrente, la disposizione viola gli artt. 41, 114 e 117, secondo comma, Cost., «con riferimento all’art. 3 Cost.», ponendosi in contrasto con «il principio di ragionevolezza e di concorrenza comunitaria che la stessa proclama di voler affermare ed addirittura di voler superare, poiché la stessa si configura come ennesima […] norma di sanatoria degli affidamenti al mercato dei produttori seppur disposti ancora una volta in difetto di evidenza pubblica, con proroga di cui le imprese terze si possono giovare ex lege sino alla data indicata dal 31 dicembre 2010». Si tratterebbe cioè di una norma che contraddice i primi commi dello stesso art. 23-bis, i quali realizzano «un indirizzo politico ispirato alla “ultra concorrenzialità”», perché favorisce gli affidamenti disposti in violazione della disciplina italiana ed europea sulla concorrenza.

3.1.3.2. – Per la difesa regionale, la stessa disposizione viola altresì gli artt. 5, 114, 117, sesto comma, e 118, Cost., i quali garantiscono l’autonomia costituzionale della Regione Piemonte e degli enti locali (art. 5, 114, 117, sesto comma, 118, Cost.), perché – stabilendo che cessano al 31 dicembre 2010 gli affidamenti rilasciati con procedure diverse dall’evidenza pubblica, salvo quelli conformi ai vincoli ulteriori di istruttoria e motivazione previsti dalla nuova disciplina – determina la cessazione «di tutti gli affidamenti attribuiti secondo la disciplina previgente (d.lgs. n. 267 del 2000, cit., art. 113, comma 5, lettera c), ponendo in forse l’attuazione dei piani gestionali e di investimento, nonché i relativi piani tariffari, travolgendo rapporti giuridici perfezionati ed in via di esecuzione che le parti vogliono vedere procedere secondo la loro scadenza naturale, al pari delle concessioni rilasciate ad imprese terze secondo le procedure ad evidenza pubblica».

3.1.4. – La ricorrente lamenta, in quarto luogo, che il censurato comma 10 dell’art. 23-bis, il quale autorizza il Governo all’adozione di regolamenti di delegificazione, viola l’art. 117, secondo, quarto e sesto comma, Cost., nonché «il principio di ragionevolezza e leale collaborazione» (artt. 3 e 120 Cost.), perché lo Stato, non avendo potestà legislativa in materia, non ha neanche potestà regolamentare.
Aggiunge la difesa regionale che la clausola di autorizzazione contenuta in detto comma «prefigura una disciplina regolamentare di particolare dettaglio» che viola i principi di adeguatezza e proporzionalità, perché «non pare possibile ritenere adeguato e proporzionale un intervento statale (per legge e regolamento) che rechi l’intera disciplina sugli affidamenti dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, ad esclusione di ogni spazio di regolazione per le regioni».
Inoltre – prosegue la ricorrente – la previsione secondo cui l’indicato regolamento sarà approvato dal Governo «sentita la Conferenza unificata di cui all’art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281», anziché previa intesa con tale Conferenza, viola il principio costituzionale di leale collaborazione (art. 120 Cost.), perché «non pare comunque sufficiente un parere della Conferenza unificata sul regolamento di delegificazione destinato a completare l’intera disciplina sugli affidamenti dei servizi pubblici locali ove sarebbe stata invece necessaria una previa intesa con la Conferenza». Sarebbe, infatti, indubbio, nel caso in esame, «il forte intreccio con le competenze regionali», che costituisce ragione utile a limitare la discrezionalità del legislatore statale sulle forme di coinvolgimento delle Regioni.
In particolare, il comma censurato rinvia al regolamento governativo la disciplina transitoria dei servizi pubblici locali diversi da quello idrico, «con una irragionevole differenza di trattamento che non appare giustificata in particolare per il servizio idrico integrato per il quale la legge statale indica senz’altro in via generale ed astratta la data di scadenza fissa del 31 dicembre 2010, mentre per gli altri servizi pubblici consente al regolamento la previsione di adeguati “tempi differenziati” in ragione di eterogeneità dei servizi presi in considerazione».

3.2. – Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni proposte siano dichiarate inammissibili o, comunque, infondate.
La difesa dello Stato svolge argomentazioni analoghe a quelle svolte nei giudizi r. ric. n. 69 e n. 72 del 2008 (supra: punti 1.2. e 2.2.) e rileva, inoltre, che:

a) la doglianza relativa alla disciplina delle decadenze e proroghe delle gestioni in essere è infondata, perché la scelta del legislatore statale è sufficientemente chiara e razionale: un termine più breve per le gestioni nelle quali sono coinvolti direttamente soggetti e interessi pubblici; un termine più lungo per «quegli affidamenti che presuppongono investimenti privati in corso di ammortamento»;
b) il censurato comma 10 dell’art. 23-bis prevede, nella materia della tutela della concorrenza, una potestà regolamentare statale che ha la finalità di procedere all’armonizzazione della disciplina di alcuni settori di pubblici servizi nei quali sussiste una disciplina contrastante con i princìpi stabiliti da detto articolo.

3.3. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, la Regione Piemonte ha sostanzialmente ribadito quanto già sostenuto nel ricorso, aggiungendo che, poiché la definizione della questione di costituzionalità dipende dall’interpretazione del diritto dell’Unione europea, appare possibile «ritenere che la Corte costituzionale – ove non accolga i motivi di ricorso […] – debba proporre la seguente questione pregiudiziale avanti la Corte di giustizia […]: “se sia conforme al diritto europeo – al principio di concorrenza ed al principio d’autonomia degli enti territoriali (art. 5 Trattato) – la norma dello Stato italiano che impone l’attribuzione a terzi come forma ordinaria e preferenziale d’affidamento dei servizi pubblici locali, e la norma che relega la rilevanza giuridica dell’in house providing ai soli casi d’eccezione tassativamente individuati dal legislatore statale stesso con una conseguente limitazione dei casi ammessi dalla giurisprudenza comunitaria”».

3.4. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, il Presidente del Consiglio dei ministri ha chiesto che le questioni proposte siano dichiarate manifestamente infondate nel merito. Precisa, in particolare, la difesa dello Stato che la disciplina censurata, la quale è riconducibile alla materia della tutela della concorrenza, è legittima, perché la giurisprudenza comunitaria e quella nazionale hanno sempre affermato che l’istituto dell’in house providing costituisce un’eccezione al principio di concorrenza e all’ordinaria osservanza delle procedure di evidenza pubblica: rappresenta, cioè, «una soluzione residuale alla quale ricorrere solo in caso di impossibilità di trovare una soluzione alternativa efficiente».

4. – Con ricorso notificato il 30 dicembre 2008 e depositato il 2 gennaio 2009 (r. ric. n. 2 del 2009), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato i commi 1, 4, 5, 6 e 14 dell’art. 4 della legge della Regione Liguria 28 ottobre 2008, n. 39 (Istituzione delle Autorità d’Ambito per l’esercizio delle funzioni degli enti locali in materia di risorse idriche e gestione rifiuti ai sensi del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 – Norme in materia ambientale).
Detti commi prevedono, rispettivamente, che:

a) «Nei novanta giorni successivi alla costituzione dell’AATO, la Giunta regionale approva lo schema tipo di contratto di servizio e di convenzione di cui agli articoli 151 e 203 del d.lgs. 152/2006, in applicazione alla direttiva 93/36/CEE del Consiglio delle Comunità Europee del 14 giugno 1993 (Coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture)» (comma 1);
b) «L’AATO assicura la gestione del servizio idrico in forma integrata, provvedendo all’affidamento dello stesso ad un soggetto gestore unitario, ove non ancora individuato, in conformità alle disposizioni comunitarie ed alla normativa nazionale vigente in materia di affidamento dei servizi pubblici locali ed, in particolare, nel rispetto dei criteri di cui all’articolo 113, comma 7, del d.lgs. 267/2000 e delle modalità di cui agli articoli 150 e 172 del d.lgs.152/2006» (comma 4);
c) «Resta ferma la previsione di cui all’articolo 113, comma 15-bis, del d.lgs. 267/2000; a tal fine l’AATO determina la data di cessazione delle concessioni esistenti, avuto riguardo alla durata media delle concessioni aggiudicate nello stesso settore a seguito di procedure ad evidenza pubblica, salva la possibilità di determinare caso per caso la cessazione in una data successiva, qualora la medesima risulti proporzionata ai tempi di recupero di particolari investimenti effettuati dal gestore, fermi restando l’aggiornamento e la rinegoziazione delle convenzioni in essere» (comma 5);
d) «L’AATO individua forme e modalità dirette all’integrazione del servizio di gestione dei rifiuti e del servizio idrico, avuto riguardo agli affidamenti esistenti che non risultano cessati nei termini di cui all’articolo 113, comma 15-bis, del d.lgs. 267/2000, al fine di pervenire al superamento della frammentazione del servizio nel territorio dell’ambito» (comma 6);
e) «L’AATO definisce i contratti di servizio, gli obiettivi qualitativi dei servizi erogati, il monitoraggio delle prestazioni, gli aspetti tariffari, la partecipazione dei cittadini e delle associazioni dei consumatori di cui alla legge regionale 2 luglio 2002, n. 26 (Norme per la tutela dei consumatori e degli utenti)» (comma 14).

4.1. – La difesa dello Stato premette che il censurato art. 4 contiene disposizioni che contrastano con quanto previsto dalla legge statale in materia di tutela dell’ambiente e tutela della concorrenza e formula tre questioni.

4.1.1. – È impugnato, in primo luogo, il comma 1 dell’art. 4, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., sul rilievo che esso affida alla Giunta regionale la competenza ad approvare lo schema-tipo di contratto di servizio e di convenzione, richiamando l’art. 151 del d.lgs. n. 152 del 2006.
Sostiene il ricorrente che il suddetto art. 151 deve ritenersi tacitamente abrogato dal d.lgs. correttivo 16 gennaio 2008, n. 4, che ha sostituito l’art. 161 del d.lgs. n. 152/2006, disponendo che sia il Comitato per la vigilanza sull’uso delle risorse idriche (in seguito «Comitato») a redigere il contenuto di una o più convenzioni-tipo da adottare con decreto del Ministero dell’ambiente. Lo stesso, così novellato, art. 161 – prosegue la difesa dello Stato – attribuisce, inoltre, al predetto Comitato la competenza anche in tema di contratti di servizio, obiettivi qualitativi dei servizi erogati, monitoraggio delle prestazioni e aspetti tariffari.
Ne deriva, per lo Stato, che «L’art. 4, comma 14, della legge regionale n. 39/2008 impugnata appare, pertanto, in contrasto con la normativa statale, nella parte in cui affida invece tali competenze all’AATO».
In conclusione, i commi censurati violerebbero il parametro costituzionale evocato, per il tramite dell’art. 161, comma 4, lettera c), del decreto legislativo n. 152 del 2006, il quale dispone, tra l’altro, che sia il Comitato per la vigilanza sull’uso delle risorse idriche e non la Giunta regionale a redigere il contenuto di una o piú convenzioni-tipo da adottare con decreto del Ministro per l’ambiente e per la tutela del territorio e del mare.

4.1.2. – È impugnato, in secondo luogo – in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., per il tramite dell’art. 23-bis, commi 2, 3 e 11, del d.l. n. 112 del 2008 – il comma 4 dell’art. 4 della legge reg. n. 39 del 2008, il quale stabilisce – come visto – che l’AATO provvede all’affidamento del servizio idrico integrato, «in particolare, nel rispetto dei criteri di cui all’articolo 113, comma 7, del d.lgs. 267/2000 e delle modalità di cui agli articoli 150 e 172 del d.lgs.152/2006».
Evidenzia la difesa dello Stato che il richiamato art. 150 del d.lgs. n. 152 del 2006, al comma 1, consente la scelta della forma di gestione degli AATO tra quelle elencate nell’art. 113, comma 5, del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), ma l’art. 23-bis, comma 11, del d.l. n. 112 del 2008, prevede che le parti dell’art. 113 citato che siano incompatibili con le prescrizioni in esso contenute siano da considerare abrogate. Ad avviso della stessa difesa, quindi, la norma regionale risulta in contrasto con l’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, perché quest’ultimo prevede come regola per l’affidamento dei servizi pubblici locali le procedure competitive ad evidenza pubblica, ferma restando la possibilità di ricorrere all’affidamento diretto solo in presenza di circoscritte e motivate circostanze, contemplate al comma 3 del medesimo articolo. La norma regionale, invece, prevede l’affidamento del servizio a un soggetto da individuare genericamente in conformità alle disposizioni comunitarie e alla normativa nazionale vigente in materia e, quindi, indifferentemente in una delle tre forme previste dal menzionato art. 113, comma 5, del d.lgs. n. 267 del 2000, anche senza che ricorrano le suddette peculiari circostanze.

4.1.3. – Il Presidente del Consiglio dei ministri censura, in terzo luogo – in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., per il tramite dell’art. 23-bis, commi 8 e 9, del d.l. n. 112 del 2008 – i commi 5 e 6 dell’art. 4 della legge reg. n. 39 del 2008, i quali disciplinano la cessazione delle concessioni esistenti e il relativo regime transitorio degli affidamenti del servizio idrico integrato effettuati senza gara, rinviando alle disposizioni di cui all’art. 113, comma 15-bis, del d.lgs. n. 267 del 2000.
La difesa dello Stato sostiene che le norme impugnate contrastano con gli evocati parametri, perché la materia è attualmente regolata in maniera difforme dall’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, che ha abrogato – come visto – l’art. 113 citato nelle parti incompatibili con le sue disposizioni, e che fissa, ai commi 8 e 9, comunque, al 31 dicembre 2010 la data per la cessazione delle concessioni esistenti rilasciate con procedure diverse dall’evidenza pubblica.

4.2. – Si è costituita in giudizio la Regione Liguria, chiedendo che la Corte costituzionale dichiari «l’inammissibilità e/o l’infondatezza del ricorso».

4.2.1. – Quanto alle censure riguardanti i commi 1 e 14 dell’art. 4 della legge reg. n. 39 del 2008, la resistente osserva che dette disposizioni non sono riconducibili a competenze legislative statali, perché attengono alla materia dei pubblici servizi locali, di competenza legislativa regionale.
In particolare, in relazione all’impugnazione del comma 1 dell’art. 4 della legge reg. n. 39 del 2008, la resistente sostiene che la previsione per cui la «Giunta regionale approva lo schema tipo di contratto di servizio e di convenzione di cui agli articoli 151 e 203 del d.lgs. 152/2006» non contrasta con la legislazione statale. Infatti, il richiamato art. 151 del d.lgs. n. 152 del 2006 dispone che l’Autorità d’ambito predispone le convenzioni che regolano i rapporti con i gestori del servizio e, a tal fine, le Regioni adottano convenzioni tipo con relativi disciplinari. Ad avviso della Regione, tale ultima disposizione è tuttora in vigore e non è stata tacitamente abrogata dalla nuova formulazione del successivo art. 161 introdotta dal decreto legislativo correttivo 16 gennaio 2008, n. 4, il quale assegna al Comitato per la vigilanza sull’uso delle risorse idriche la competenza a redigere una o più convenzioni tipo, da adottare con decreto ministeriale. In ogni caso, i compiti del Comitato per la vigilanza sull’uso delle risorse idriche devono essere interpretati – anche alla luce dei lavori preparatori – conformemente agli artt. 5 e 117 Cost., nel senso che essi si aggiungono e non si sostituiscono alle competenze disciplinate dalla legge regionale.
Quanto poi all’impugnazione del comma 14 dell’art. 4 della legge reg. n. 39 del 2008, la resistente premette che essa è inammissibile, perché generica, non specificando quali siano i profili che determinano il contrasto con la norma statale. Nel merito, sostiene che non vi è incompatibilità fra i poteri che il comma 14 assegna all’Autorità d’ambito e quelli assegnati dall’art. 161 del d.lgs. n. 152 del 2006 al Comitato per la vigilanza sull’uso delle risorse idriche.

4.2.2. – In relazione alla censura riguardante il comma 4 dell’art. 4 della legge reg. n. 39 del 2008, la Regione sostiene che essa è inammissibile e infondata, anche perché non riguarda la parte in cui il comma impugnato richiama l’art. 113, comma 7, del d.lgs. n. 267 del 2000, con riferimento ai criteri di gara, né quella in cui richiama l’art. 172 del d.lgs. n. 152 del 2006, che disciplina le gestioni esistenti.
La Regione contesta quanto affermato dal ricorrente, secondo cui la norma censurata richiama una disposizione, l’art. 150 del citato d.lgs. n. 152 del 2006, che al comma 1 consente la scelta della forma di gestione del servizio tra quelle elencate nell’art. 113, comma 5, del d.lgs. n. 267 del 2000, disposizione da considerare abrogata per incompatibilità con l’art. 23-bis, comma 11, del d. l. n. 112 del 2008. Per la difesa regionale, infatti, tale abrogazione non si sarebbe verificata e, in ogni caso, la norma censurata sarebbe conforme all’art. 150 del d.lgs. n. 152 del 2006, a sua volta ancora vigente, perché fatto salvo sia dal divieto di abrogazione implicita previsto in via generale dall’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 152 del 2006, sia dalla stessa formulazione dell’art. 23-bis citato, che, al comma 10, lettera d), prevede la necessità di una armonizzazione con le discipline di settore, da farsi tramite regolamento.
Se ne concluderebbe che la disposizione censurata non viola, in ogni caso, la disciplina settoriale applicabile al servizio idrico, ponendosi al più in contrasto con l’art. 23-bis, norma il cui scrutinio di costituzionalità appare pregiudiziale.

4.2.3. – Quanto alla terza delle questioni proposte – con cui sono censurati i commi 5 e 6 dell’art. 4 della legge reg. n. 39 del 2008, sul rilievo che essi disciplinano la cessazione delle concessioni esistenti e il relativo regime transitorio rinviando alle disposizioni di cui all’art. 113, comma 15-bis, del d.lgs. n. 267 del 2000, da ritenersi abrogato dal citato art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, il quale ha regolato la materia in maniera difforme – la resistente sostiene che il richiamato art. 113, comma 15-bis, del d.lgs. n. 267 del 2000 non può ritenersi abrogato, perché: a) le sue disposizioni non sono tutte incompatibili con quelle del successivo art. 23-bis, con le quali possono essere armonizzate, ad esempio quanto alla data della cessazione delle concessioni; b) l’articolo è coperto dal divieto generale di abrogazione implicita contenuto nell’art. 1, comma 4, del d.lgs. n. 267 del 2000; c) lo stesso art. 23-bis non opera un’abrogazione per nuova integrale disciplina della materia, perché dispone espressamente che l’abrogazione sia limitata alle parti incompatibili. Ne consegue – per la Regione – che non sussiste alcun contrasto tra i commi censurati e la disciplina statale vigente; disciplina che comunque, almeno per quanto riguarda il comma 8 del menzionato art. 23-bis, è da ritenere incostituzionale. Quanto, in particolare, all’impugnato comma 6 dell’art. 4 della legge reg. n. 39 del 2008, la questione è da ritenersi inammissibile, perché – contrariamente a quanto assunto dallo Stato – la disposizione non ha per oggetto né la cessazione delle concessioni, né il regime transitorio, ma solamente l’integrazione dei servizi esistenti che non sono oggetto di cessazione.

4.2.4. – La ricorrente conclude rilevando di avere già proposto, con il ricorso n. 72 del 2008, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 e chiede pertanto, per il caso in cui la Corte ritenesse pregiudiziali tali questioni, la riunione dei procedimenti.

4.3. – Con successiva memoria, la Regione Liguria ha ribadito quanto già argomentato nell’atto di costituzione, rilevando, inoltre, che le modifiche legislative intervenute nel frattempo fondano ulteriori ragioni di inammissibilità o infondatezza delle questioni proposte.

4.3.1. – Quanto alle censure riguardanti i commi 1 e 14 dell’art. 4 della legge reg. n. 39 del 2008, la resistente osserva che l’art. 9-bis, comma 6, del decreto-legge 28 aprile 2009, n. 39 (Interventi urgenti in favore delle popolazioni colpite dagli eventi sismici nella regione Abruzzo nel mese di aprile 2009 e ulteriori interventi urgenti di protezione civile), convertito, con modificazioni, dalla legge 24 giugno 2009, n. 77, ha soppresso il Comitato per la vigilanza sull’uso delle risorse idriche, sostituendolo con la Commissione nazionale per la vigilanza sull’uso delle risorse idriche.
Per la Regione, tale modifica legislativa ha reso improcedibile il ricorso o, comunque, non ne ha fatto venire meno la già rilevata infondatezza, anche perché la Commissione di nuova istituzione non ha le stesse competenze del soppresso Comitato. Essa, infatti – secondo l’art. 9-bis, comma 6, del decreto-legge n. 39 del 2009 – subentra «nelle competenze già attribuite all’Autorità di vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti ai sensi degli articoli 99, 101, 146, 148, 149, 152, 154, 172 e 174 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successivamente attribuite al Comitato per la vigilanza sull’uso delle risorse idriche», con evidente omissione da parte del legislatore di ogni riferimento all’art. 151 del d.lgs. n. 152 del 2006.

4.3.2. – Quanto alla seconda e alla terza delle questioni sollevate, in relazione alle quali lo Stato ha evocato come parametro interposto l’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, la Regione «ritiene che l’impugnazione si dimostri oggi inattuale ed il ricorso sia carente di interesse e dunque improcedibile», a seguito delle modifiche sostanziali subite dallo stesso art. 23-bis.
Precisa comunque la Regione che, prima di tali modifiche del parametro interposto, i censurati commi 4 e 5 dell’art. 4 della legge reg. n. 39 del 2008 non hanno avuto in concreto alcuna applicazione, perché regolano le competenze delle Autorità d’ambito, che all’entrata in vigore del d.l. n. 135 del 2009 non erano state ancora istituite.

4.4. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, da intendersi come sostitutiva dell’ultima memoria depositata, la Regione Liguria ha sostanzialmente ribadito quanto già sostenuto in tale ultimo atto.

4.5. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, il Presidente del Consiglio dei ministri ha rilevato – allo scopo di puntualizzare la permanenza dell’interesse al ricorso nonostante le modifiche normative intervenute nella materia – che il legislatore del 2009 ha sostituito il vecchio Comitato per la vigilanza sull’uso delle risorse idriche con la nuova Commissione nazionale per la vigilanza sulle risorse idriche, prevedendone una composizione maggiormente orientata a consentire la partecipazione dei rappresentanti delle autonomie locali. Inoltre, dal nuovo quadro normativo verrebbe rafforzato il fondamento delle censure di costituzionalità sollevate avverso la legge Regionale, perché essa richiama una norma statale abrogata e non più operativa: l’art. 151 del d.lgs. n. 152 del 2006.
Quanto alla censura relativa ai commi 1 e 14 dell’art. 4 della legge reg. n. 39 del 2008, la difesa dello Stato rileva che detti commi attribuiscono alla Giunta regionale il potere di predisporre lo schema tipo di contratti di servizio e di convenzioni regolanti i rapporti tra le Autorità d’ambito e i gestori del servizio idrico integrato, secondo quanto previsto dall’art. 151 del d.lgs. n. 152 del 2006, disposizione implicitamente abrogata dall’art. 161 dello stesso d.lgs., come sostituito dal d.lgs. n. 4 del 2008. La Regione contesta la suesposta ricostruzione, asserendo che l’art. 151 del d.lgs. n. 152 del 2006 non sarebbe stato abrogato dalla modifica del successivo art. 161, sul rilievo che l’art. 3 del d.lgs. n. 152 del 2006 richiede una “dichiarazione espressa” per l’abrogazione di una norma del codice dell’ambiente ed essa mancherebbe nel caso di abrogazione tacita per incompatibilità di norma temporalmente successiva rispetto a quella precedente che resta caducata ex nunc. L’Avvocatura generale dello Stato sostiene che tale assunto non è condivisibile, perché, «secondo la dogmatica del diritto “espressa” non significa “esplicita”: il primo termine impone una previsione legale; il secondo esprime la necessità che la disposizione abrogatrice menzioni expressis verbis la norma di cui sancisce l’abrogazione. L’abrogazione espressa può, dunque, essere esplicita ovvero implicita (per incompatibilità) e nella seconda delle due ipotesi da ultimo citate ricade il caso di cui si discorre che, pertanto, non confligge con l’art. 3 invocato da Controparte».
Quanto, poi, al contratto di servizio e alla convenzione cui fanno riferimento le disposizioni censurate, la difesa dello Stato rileva che essi sono sostanzialmente la medesima cosa, essendo entrambi atti negoziali conclusi dalle Autorità d’ambito con i gestori del servizio pubblico onde regolare i loro rapporti. Confermerebbe «tale conclusione una analisi del dato normativo che pare usare alternativamente l’una piuttosto che l’altra nomenclatura».
Quanto alla censura relativa all’art. 4, comma 4, della legge reg. n. 39 del 2008, la difesa dello Stato sostiene che detta disposizione, trattando dell’affidamento del servizio idrico, richiama l’art. 150 del d.lgs. n. 152 del 2006 secondo cui l’Autorità d’ambito delibera la forma di gestione scegliendo tra quelle di cui all’art. 113, comma 5, del d.lgs. n. 267 del 2000, norma, quest’ultima, abrogata dal citato art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 nelle parti incompatibili con le disposizioni dello stesso art. 23-bis. La Regione valorizza il dato letterale dell’art. 4, comma 4, nella parte in cui richiama la «normativa nazionale vigente», sostenendo che la previsione lascia intendere di rinviare alle norme vigenti e, dunque, non anche alle parti dell’art. 113 abrogate dal citato art. 23-bis.
Per la difesa dello Stato, tali argomenti risultano superabili, se si tiene conto del fatto che l’art. 150 del d.lgs. n. 152 del 2006, in ogni suo comma (ad eccezione dell’ultimo), rinvia a commi del citato art. 113, T.U. enti locali, con la conseguenza che «pare quantomeno opinabile la scelta di tecnica legislativa operata dal legislatore regionale di rinviare (con l’art. 4, comma 4, censurato) ad una norma (l’art. 150 codice dell’ambiente) la quale a sua volta rinvia ad altra norma (l’art. 113 T.U. enti locali), quest’ultima abrogata per incompatibilità da un’altra norma ancora (l’art. 23-bis, d.l. 112). Da ciò pare di potersi inferire piuttosto che il legislatore regionale ha trascurato l’intervenuta abrogazione parziale dell’art. 113».
Quanto alle censure aventi ad oggetto l’art. 4, commi 5 e 6, della legge reg. n. 39 del 2008, il ricorrente contesta l’affermazione della controparte secondo cui il comma 15-bis dell’art. 113 e i commi 8 e 9 dell’art. 23-bis non sarebbero incompatibili e, dunque, il primo non risulterebbe abrogato dal secondo. Rileva sul punto la difesa dello Stato che «l’art. 23-bis fissa la cessazione delle concessioni attribuite senza gara alla data del 31/12/2010 escludendo, però, dalla perdita di efficacia gli affidamenti diretti effettuati nelle ipotesi in cui il terzo comma dello stesso art. 23-bis ancora li consente (al ricorrere cioè di “peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali, geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento” che non consentono l’espletamento della pubblica gara); mentre il comma 15-bis dell’art. 113 T.U. enti locali contempla […] quali eccezioni alla cessazione delle concessioni i casi in cui l’affidamento è effettuato con una delle modalità di cui al comma 5 dello stesso articolo».

5. – Con ricorso notificato il 9 gennaio 2010 e depositato il 18 gennaio successivo (r. ric. n. 6 del 2010), la Regione Puglia ha impugnato, in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., i commi 2, 3, 4 e 8 dell’art. 23-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 – aggiunto dalla legge di conversione 6 agosto 2008, n. 133, ed entrato in vigore, in forza dell’art. 1, comma 4, di detta legge, in data 22 agosto 2008 –, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 2009, n. 166, disposizione entrata in vigore (in forza dell’art. 21 del medesimo decreto-legge) in data 26 settembre 2009 e modificata, in forza dell’art. 1, comma 2, della legge di conversione, a far data dal giorno 25 novembre 2009.

5.1. – La Regione premette che l’art. 15 del d.l. n. 135 del 2009 reca «Adeguamento alla disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica», modificando in modo significativo l’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, con la previsione di un ampliamento dei settori esclusi dall’applicabilità della normativa.
In particolare, il nuovo testo del citato art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, come modificato dall’art. 15 del d.l. n. 135 del 2009, prevede che:

«1. Le disposizioni del presente articolo disciplinano l’affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, in applicazione della disciplina comunitaria e al fine di favorire la più ampia diffusione dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di tutti gli operatori economici interessati alla gestione di servizi di interesse generale in ambito locale, nonché di garantire il diritto di tutti gli utenti alla universalità ed accessibilità dei servizi pubblici locali ed al livello essenziale delle prestazioni, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettere e) e m), della Costituzione, assicurando un adeguato livello di tutela degli utenti, secondo i principi di sussidiarietà, proporzionalità e leale cooperazione. Le disposizioni contenute nel presente articolo si applicano a tutti i servizi pubblici locali e prevalgono sulle relative discipline di settore con esse incompatibili. Sono fatte salve le disposizioni del decreto legislativo 23 maggio 2000, n. 164, e dell’articolo 46-bis del decreto-legge 1º ottobre 2007, n. 159, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 novembre 2007, n. 222, in materia di distribuzione di gas naturale, le disposizioni del decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79, e della legge 23 agosto 2004, n. 239, in materia di distribuzione di energia elettrica, le disposizioni della legge 2 aprile 1968, n. 475, relativamente alla gestione delle farmacie comunali, nonché quelle del decreto legislativo 19 novembre 1997, n. 422, relativamente alla disciplina del trasporto ferroviario regionale. Gli ambiti territoriali minimi di cui al comma 2 del citato articolo 46-bis sono determinati, entro il 31 dicembre 2012, dal Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro per i rapporti con le regioni, sentite la Conferenza unificata di cui all’ articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, e l’Autorità per l’energia elettrica e il gas, tenendo anche conto delle interconnessioni degli impianti di distribuzione e con riferimento alle specificità territoriali e al numero dei clienti finali. In ogni caso l’ambito non può essere inferiore al territorio comunale.
2. Il conferimento della gestione dei servizi pubblici locali avviene, in via ordinaria:

a) a favore di imprenditori o di società in qualunque forma costituite individuati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, nel rispetto dei principi del Trattato che istituisce la Comunità europea e dei principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento e proporzionalità;
b) a società a partecipazione mista pubblica e privata, a condizione che la selezione del socio avvenga mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, nel rispetto dei principi di cui alla lettera a), le quali abbiano ad oggetto, al tempo stesso, la qualità di socio e l’attribuzione di specifici compiti operativi connessi alla gestione del servizio e che al socio sia attribuita una partecipazione non inferiore al 40 per cento.

3. In deroga alle modalità di affidamento ordinario di cui al comma 2, per situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato, l’affidamento può avvenire a favore di società a capitale interamente pubblico, partecipata dall’ente locale, che abbia i requisiti richiesti dall’ordinamento comunitario per la gestione cosiddetta “in house” e, comunque, nel rispetto dei principi della disciplina comunitaria in materia di controllo analogo sulla società e di prevalenza dell’attività svolta dalla stessa con l’ente o gli enti pubblici che la controllano.
4. Nei casi di cui al comma 3, l’ente affidante deve dare adeguata pubblicità alla scelta, motivandola in base ad un’analisi del mercato e contestualmente trasmettere una relazione contenente gli esiti della predetta verifica all’Autorità garante della concorrenza e del mercato per l’espressione di un parere preventivo, da rendere entro sessanta giorni dalla ricezione della predetta relazione. Decorso il termine, il parere, se non reso, si intende espresso in senso favorevole.
4-bis. I regolamenti di cui al comma 10 definiscono le soglie oltre le quali gli affidamenti di servizi pubblici locali assumono rilevanza ai fini dell’espressione del parere di cui al comma 4.
5. Ferma restando la proprietà pubblica delle reti, la loro gestione può essere affidata a soggetti privati.
6. È consentito l’affidamento simultaneo con gara di una pluralità di servizi pubblici locali nei casi in cui possa essere dimostrato che tale scelta sia economicamente vantaggiosa. In questo caso la durata dell’affidamento, unica per tutti i servizi, non può essere superiore alla media calcolata sulla base della durata degli affidamenti indicata dalle discipline di settore.
7. Le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle rispettive competenze e d’intesa con la Conferenza unificata di cui all’ articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, possono definire, nel rispetto delle normative settoriali, i bacini di gara per i diversi servizi, in maniera da consentire lo sfruttamento delle economie di scala e di scopo e favorire una maggiore efficienza ed efficacia nell’espletamento dei servizi, nonché l’integrazione di servizi a domanda debole nel quadro di servizi più redditizi, garantendo il raggiungimento della dimensione minima efficiente a livello di impianto per più soggetti gestori e la copertura degli obblighi di servizio universale.
8. Il regime transitorio degli affidamenti non conformi a quanto stabilito ai commi 2 e 3 è il seguente:

a) le gestioni in essere alla data del 22 agosto 2008 affidate conformemente ai principi comunitari in materia di cosiddetta “in house” cessano, improrogabilmente e senza necessità di deliberazione da parte dell’ente affidante, alla data del 31 dicembre 2011. Esse cessano alla scadenza prevista dal contratto di servizio a condizione che entro il 31 dicembre 2011 le amministrazioni cedano almeno il 40 per cento del capitale attraverso le modalità di cui alla lettera b) del comma 2;
b) le gestioni affidate direttamente a società a partecipazione mista pubblica e privata, qualora la selezione del socio sia avvenuta mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, nel rispetto dei principi di cui alla lettera a) del comma 2, le quali non abbiano avuto ad oggetto, al tempo stesso, la qualità di socio e l’attribuzione dei compiti operativi connessi alla gestione del servizio, cessano, improrogabilmente e senza necessità di apposita deliberazione dell’ente affidante, alla data del 31 dicembre 2011;
c) le gestioni affidate direttamente a società a partecipazione mista pubblica e privata, qualora la selezione del socio sia avvenuta mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, nel rispetto dei principi di cui alla lettera a) del comma 2, le quali abbiano avuto ad oggetto, al tempo stesso, la qualità di socio e l’attribuzione dei compiti operativi connessi alla gestione del servizio, cessano alla scadenza prevista nel contratto di servizio;
d) gli affidamenti diretti assentiti alla data del 1° ottobre 2003 a società a partecipazione pubblica già quotate in borsa a tale data e a quelle da esse controllate ai sensi dell’ articolo 2359 del codice civile, cessano alla scadenza prevista nel contratto di servizio, a condizione che la partecipazione pubblica si riduca anche progressivamente, attraverso procedure ad evidenza pubblica ovvero forme di collocamento privato presso investitori qualificati e operatori industriali, ad una quota non superiore al 40 per cento entro il 30 giugno 2013 e non superiore al 30 per cento entro il 31 dicembre 2015; ove siffatte condizioni non si verifichino, gli affidamenti cessano improrogabilmente e senza necessità di apposita deliberazione dell’ente affidante, rispettivamente, alla data del 30 giugno 2013 o del 31 dicembre 2015;
e) le gestioni affidate che non rientrano nei casi di cui alle lettere da a) a d) cessano comunque entro e non oltre la data del 31 dicembre 2010, senza necessità di apposita deliberazione dell’ente affidante.

9. Le società, le loro controllate, controllanti e controllate da una medesima controllante, anche non appartenenti a Stati membri dell’Unione europea, che, in Italia o all’estero, gestiscono di fatto o per disposizioni di legge, di atto amministrativo o per contratto servizi pubblici locali in virtú di affidamento diretto, di una procedura non ad evidenza pubblica ovvero ai sensi del comma 2, lettera b), nonché i soggetti cui è affidata la gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali degli enti locali, qualora separata dall’attività di erogazione dei servizi, non possono acquisire la gestione di servizi ulteriori ovvero in ambiti territoriali diversi, né svolgere servizi o attività per altri enti pubblici o privati, né direttamente, né tramite loro controllanti o altre società che siano da essi controllate o partecipate, né partecipando a gare. Il divieto di cui al primo periodo opera per tutta la durata della gestione e non si applica alle società quotate in mercati regolamentati e al socio selezionato ai sensi della lettera b) del comma 2. I soggetti affidatari diretti di servizi pubblici locali possono comunque concorrere su tutto il territorio nazionale alla prima gara successiva alla cessazione del servizio, svolta mediante procedura competitiva ad evidenza pubblica, avente ad oggetto i servizi da essi forniti.
10. Il Governo, su proposta del Ministro per i rapporti con le regioni ed entro il 31 dicembre 2009, sentita la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, nonché le competenti Commissioni parlamentari, adotta uno o piú regolamenti, ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, al fine di:

a) prevedere l’assoggettamento dei soggetti affidatari cosiddetti in house di servizi pubblici locali al patto di stabilità interno, tenendo conto delle scadenze fissate al comma 8, e l’osservanza da parte delle società in house e delle società a partecipazione mista pubblica e privata di procedure ad evidenza pubblica per l’acquisto di beni e servizi e l’assunzione di personale;
b) prevedere, in attuazione dei principi di proporzionalità e di adeguatezza di cui all’ articolo 118 della Costituzione, che i comuni con un limitato numero di residenti possano svolgere le funzioni relative alla gestione dei servizi pubblici locali in forma associata;
c) prevedere una netta distinzione tra le funzioni di regolazione e le funzioni di gestione dei servizi pubblici locali, anche attraverso la revisione della disciplina sulle incompatibilità;
d) armonizzare la nuova disciplina e quella di settore applicabile ai diversi servizi pubblici locali, individuando le norme applicabili in via generale per l’affidamento di tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica in materia di rifiuti, trasporti, energia elettrica e gas, nonché in materia di acqua;
e) (abrogato)
f) prevedere l’applicazione del principio di reciprocità ai fini dell’ammissione alle gare di imprese estere;
g) limitare, secondo criteri di proporzionalità, sussidiarietà orizzontale e razionalità economica, i casi di gestione in regime d’esclusiva dei servizi pubblici locali, liberalizzando le altre attività economiche di prestazione di servizi di interesse generale in ambito locale compatibili con le garanzie di universalità ed accessibilità del servizio pubblico locale;
h) prevedere nella disciplina degli affidamenti idonee forme di ammortamento degli investimenti e una durata degli affidamenti strettamente proporzionale e mai superiore ai tempi di recupero degli investimenti;
i) disciplinare, in ogni caso di subentro, la cessione dei beni, di proprietà del precedente gestore, necessari per la prosecuzione del servizio;
l) prevedere adeguati strumenti di tutela non giurisdizionale anche con riguardo agli utenti dei servizi;
m) individuare espressamente le norme abrogate ai sensi del presente articolo.

11. L’articolo 113 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, e successive modificazioni, è abrogato nelle parti incompatibili con le disposizioni di cui al presente articolo.
12. Restano salve le procedure di affidamento già avviate alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto»
.

La ricorrente afferma che il legislatore statale riconosce che sia l’affidamento del servizio pubblico ad imprese terze, sia l’affidamento in house sono conformi all’ordinamento europeo e in particolare alla disciplina della concorrenza, ma con la norma di cui si tratta giunge sino ad individuare come forma preferenziale ordinaria l’affidamento del servizio ad imprese terze, mentre relega la possibilità dell’affidamento in house ai soli casi ivi espressi in via d’eccezione, superando la stessa disciplina comunitaria in materia di concorrenza.

5.1.1. – Ad avviso della Regione, i commi 2, 3 e 4 del menzionato art. 23-bis violano l’evocato art. 117, terzo comma, Cost., «in quanto limitano la potestà legislativa regionale di disciplinare il normale svolgimento del servizio pubblico da parte dell’ente e di gestire in proprio i servizi pubblici». Dette disposizioni – prosegue la Regione – sottopongono la scelta del regime di gestione del servizio a vincoli sia sostanziali che procedurali, impedendo, in tal modo, una previa valutazione comparativa da parte dell’amministrazione fra tutte le possibili opzioni di scelta della forma di gestione, «cioè se fruire dei vantaggi economici offerti dal mercato dei produttori oppure se procedere a modellare una propria struttura capace di diversamente configurare l’offerta delle prestazioni di servizio pubblico».
Si tratterebbe, peraltro, di innovazioni non imposte dal diritto comunitario, sia sotto il profilo dell’esternalizzazione dei servizi pubblici locali con rilevanza economica, sia sotto quello della riattribuzione con la messa in gara delle attuali concessioni prima della scadenza originariamente prevista.
Ad avviso della Regione Puglia, tale limitazione della capacità delle amministrazioni regionali e locali di gestire in proprio i servizi pubblici risulta costituzionalmente illegittima e lesiva della potestà legislativa regionale in materia, poiché nega illegittimamente l’autonomia costituzionale di tali enti (art. 114 Cost.), riconosciuta anche dall’Unione europea, nel suo nucleo imprescindibile della capacità di darsi un’organizzazione idonea a soddisfare i bisogni sociali nel suo territorio, cioè della popolazione residente che ne è l’elemento costitutivo. L’invasione della sfera di competenza regionale e degli enti territoriali minori sarebbe, poi, enfatizzata dalla precisazione che le indicate disposizioni – i commi 2, 3, 4 dell’art. 23-bis, modificato dall’art. 15 cit. – «prevalgono su tutte le discipline di settore con esse incompatibili», ivi comprese le discipline di settore regionali.
In conclusione, le disposizioni denunciate, non si limiterebbero a stabilire principi fondamentali della materia, ma detterebbero «una disciplina articolata e specifica, invasiva delle competenze regionali anche in materia di regolazione del servizio idrico integrato». Tali competenze legislative sarebbero ascrivibili – sempre secondo la Regione – all’evocato parametro. Infatti, a fronte di quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 246 del 2009, secondo cui l’art. 117, terzo comma, Cost., «il quale contiene l’elenco delle materie di competenza legislativa concorrente, non contempla la materia» del servizio idrico integrato, la ricorrente ritiene che tale «osservazione di carattere generale non toglie […] che implicitamente essa vi rientri almeno nella misura in cui quel servizio sia funzionalizzato e utilizzato a fini di alimentazione e di tutela della salute: materie espressamente indicate come soggette alla legislazione concorrente dall’art. 117, comma 3, Cost.».
Sotto questo profilo – prosegue la difesa regionale – il servizio idrico integrato è da considerare «servizio pubblico locale privo di rilevanza economica, la cui disciplina non è riconducibile al titolo di legittimazione trasversale “tutela della concorrenza”». E ciò perché, «con riferimento alla funzione di tutela della salute e di alimentazione propria dell’acqua, non esiste un mercato concorrenziale ed il ruolo riservato dal titolo V della Costituzione al legislatore regionale si riespande in tutte le sue potenzialità». In altri termini, il servizio deve essere realizzato secondo forme e modalità di gestione «che garantiscano un governo pubblico partecipato e un finanziamento attraverso meccanismi perequativi e di equità sociale: senza finalità lucrativa e nel rispetto dei diritti delle generazioni future e degli equilibri ecologici».

5.1.2. – È del pari censurato, con riferimento allo stesso parametro costituzionale dell’art. 117, terzo comma, il comma 8 dell’art. 23-bis, il quale stabilisce – come visto – che cessano al 31 dicembre 2010 gli affidamenti rilasciati con procedure diverse dall’evidenza pubblica, salvo quelli conformi ai vincoli ulteriori di istruttoria e motivazione previsti dalla nuova disciplina.
La Regione lamenta che tale disposizione «parrebbe determinare per l’effetto la cessazione di tutti gli affidamenti attribuiti secondo la disciplina previgente (d.lgs. n. 267 del 2000, art. 113, comma 5, lettera c), ponendo nell’incertezza l’attuazione dei piani gestionali e di investimento, nonché i relativi piani tariffari, travolgendo rapporti giuridici perfezionati ed in via di esecuzione che le parti vogliono vedere procedere secondo la loro scadenza naturale».

5.2. – Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni proposte siano dichiarate inammissibili o, comunque, infondate.
La difesa dello Stato rileva che:

a) «la Regione non può lamentare genericamente l’illegittimità costituzionale di leggi statali, ovvero la contrarietà delle stesse all’ordinamento comunitario senza indicare specificamente la lesione di una competenza ad essa attribuita»;
b) le disposizioni censurate rientrano nella materia della tutela della concorrenza, perché perseguono, in modo adeguato e proporzionato, il fine di assicurare una disciplina nazionale uniforme e, nella parte in cui regolano le partecipazioni pubbliche a società miste, sono riconducibili anche alla materia dell’ordinamento civile, in forza degli artt. 2458-2460 del codice civile;
c) «in riferimento alle questioni ex adverso sollevate sulla mancata e/o inesatta applicazione dei principi comunitari in materia di servizi pubblici locali, si ritiene che la doglianza sia mal posta in termini di incostituzionalità», perché «qualora codesta Corte dovesse ravvisare l’esigenza di assicurare una uniforme interpretazione del diritto comunitario, la questione, ai sensi dell’art. 234 del Trattato CE, dovrebbe essere preventivamente oggetto di un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE».

5.3. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, il Presidente del Consiglio dei ministri ha ribadito quanto affermato nell’atto di costituzione, in particolare sostenendo che:

a) il ricorso è inammissibile, perché la Regione non ha impugnato la previgente formulazione dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, ma solo quella successivamente introdotta dall’art. 15 del decreto-legge n. 135 del 2009, la quale è meramente confermativa del principio di eccezionalità della gestione in house già posto precedentemente;
b) la disciplina censurata, la quale è riconducibile alla materia della tutela della concorrenza, è legittima, perché la giurisprudenza comunitaria e quella nazionale hanno sempre affermato che l’istituto dell’in house providing costituisce un’eccezione al principio di concorrenza e all’ordinaria osservanza delle procedure di evidenza pubblica: rappresenta, cioè, «una soluzione residuale alla quale ricorrere solo in caso di impossibilità di trovare una soluzione alternativa efficiente».

6. – Con ricorso notificato il 22 gennaio 2010 e depositato il 27 gennaio successivo (r. ric. n. 10 del 2010), la Regione Toscana ha impugnato – in riferimento all’art. 117, primo, secondo e quarto comma, Cost. – i commi 2, 3, 4 e 8 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 – aggiunto dalla legge di conversione n. 133 del 2008 − nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 166 del 2009.

6.1. – La Regione premette che le modifiche apportate all’art. 23- bis del d.l. n. 112 del 2008 «dettano nuove regole in ordine alle modalità di conferimento dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, realizzando un sistema in cui emerge con forza la centralità e la prevalenza dell’affidamento del servizio attraverso le procedure di evidenza pubblica ed il disfavore del legislatore statale per le modalità di gestione in house, con il dichiarato scopo di procedere ad una liberalizzazione del settore dei servizi pubblici». Premette altresì che la materia dei servizi pubblici locali rientra nell’ambito della potestà legislativa esclusiva delle Regioni, ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost. Premette, infine, che la Corte costituzionale ha rilevato che l’esercizio da parte dello Stato della potestà legislativa in materia di tutela della concorrenza, con riferimento alla disciplina dei servizi pubblici, coinvolge profili aventi un’incidenza su una pluralità di interessi e di oggetti, che non ricadono solo nell’esclusiva competenza statale, ma involgono anche molteplici ambiti di competenza delle Regioni, con la conseguenza che l’intervento dello Stato «deve limitarsi alla disciplina di quegli aspetti strettamente connessi alla tutela ed alla promozione della concorrenza e deve uniformarsi ai principi di adeguatezza e di proporzionalità dell’intervento normativo rispetto al fine pro-concorrenziale perseguito, con ciò escludendo la legittimità di una normativa troppo dettagliata e puntuale o irragionevole».

6.1.1. – Sono censurati, in primo luogo, i commi 2, 3 e 4 del novellato art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, i quali stabiliscono che di regola la gestione dei servizi pubblici locali debba essere affidata ad una società privata o mista tramite gara e ammettono la modalità di affidamento del servizio in house solo in via eccezionale.
La ricorrente osserva che tali disposizioni esprimono con evidenza il disfavore manifestato dal legislatore statale per la modalità di gestione del servizio pubblico attraverso una società a totale partecipazione pubblica, ancorché sussistano i requisiti indicati dall’ordinamento comunitario, ossia l’esercizio da parte dell’ente pubblico di un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e la prevalenza dell’attività della società in house a favore dell’ente controllante.
Tale regime – prosegue la Regione – «non risponde ad esigenze connesse alla regolazione del mercato e di tutela della concorrenza e stabilisce una disciplina particolareggiata e puntuale, incidendo in maniera rilevante sulle prerogative regionali costituzionalmente garantite».
In particolare, poiché l’ente in house non può ritenersi terzo rispetto all’amministrazione controllante ma deve considerarsi come uno dei servizi propri dell’amministrazione stessa, tutta l’organizzazione in house è sottratta alla disciplina della concorrenza nella scelta del gestore, in quanto questi è parte dell’organizzazione della controllante, per la quale svolge attività in via prevalente: non può pertanto essere considerata un’impresa di terzi, né incide sul mercato. Conseguentemente, non potrebbe invocarsi il principio di concorrenza – che invece deve necessariamente conformare l’operato delle amministrazioni una volta che le stesse abbiano deciso di rivolgersi al mercato delle imprese – nella ipotesi della scelta dell’in house, che involge piuttosto profili di auto-organizzazione dell’ente pubblico.
Per la difesa regionale, tale ricostruzione trova conferma nella giurisprudenza costituzionale, secondo cui l’intervento legislativo statale a tutela della concorrenza con riferimento ai servizi pubblici locali di rilevanza economica viene in considerazione solo per quei profili di disciplina strettamente collegati e funzionali all’esigenza di definire condizioni concorrenziali uniformi nei vari settori economici. Invece, quando le Amministrazioni, nell’esercizio delle valutazioni discrezionali di competenza, decidono di gestire il servizio attraverso una propria longa manus (la società in house) non ricorrono le esigenze di tutela della concorrenza e quindi, per tale profilo, non esiste un titolo legittimante la competenza statale. In altri termini, la scelta in ordine alle modalità di gestione del servizio pubblico locale è da considerare una tipica scelta di organizzazione, «che in quanto organizzazione locale e non nazionale dei servizi non rientra nella competenza statale, ma in quella regionale ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost.».

6.1.1.1. – Ne deriva, per la ricorrente, l’illegittimità costituzionale dei commi censurati, in riferimento all’art. 117, secondo e quarto comma, Cost., perché detti commi esprimono una prevalenza della gestione esternalizzata dei servizi pubblici locali, in quanto intervengono nella materia dell’organizzazione della gestione di detti servizi, con una normativa di dettaglio, che non lascia margini all’autonomia del legislatore regionale, pur perseguendo finalità che esulano da profili strettamente connessi alla tutela della concorrenza.

6.1.1.2. – Sempre per la ricorrente, i commi impugnati si pongono in contrasto anche con il diritto comunitario, in violazione dell’art. 117, primo, secondo e quarto comma, Cost.
Infatti, nessuna disposizione comunitaria vigente limita il ricorso all’in house a casi eccezionali, in presenza di rigorose condizioni previste dalla legge e previo assolvimento di puntuali regole procedimentali, così come invece previsto dalle disposizioni censurate. Al contrario – sostiene la ricorrente – l’ordinamento comunitario ammette espressamente la possibilità di fornire i servizi pubblici con un’organizzazione propria, in alternativa all’affidamento ad imprese terze, con la conseguenza che le disposizioni censurate non trovano fondamento né nella riserva costituzionale alla legislazione statale esclusiva della materia tutela della concorrenza (art. 117, secondo comma, lettera e, Cost.), né nella disciplina comunitaria.
A tali conclusioni non potrebbe opporsi che le disposizioni impugnate rientrano nella materia dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (art. 117, secondo comma, lett. m, Cost.), in quanto hanno ad oggetto unicamente le forme di gestione dei servizi pubblici a rilevanza economica e non le prestazioni che dette gestioni debbono assicurare agli utenti. Né del pari potrebbe opporsi che esse rientrano nella materia delle funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., in quanto «la gestione dei predetti servizi non può certo considerarsi esplicazione di una funzione propria ed indefettibile dell’ente locale».

6.1.2. – È censurato, in secondo luogo – sempre in riferimento all’art. 117, primo, secondo e quarto comma Cost. – il comma 8 del novellato art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, il quale introduce un nuovo regime transitorio, valido per tutti i servizi, compreso quello idrico, con riferimento alle gestioni in essere.
La Regione sostiene che anche detta disposizione non si limita a disciplinare, con norma di carattere generale, la materia della gestione dei servizi pubblici sotto lo specifico profilo della tutela della concorrenza e, in ogni caso, non rispetta i principi di adeguatezza e di proporzionalità dell’intervento normativo da parte dello Stato in ragione delle finalità pro-concorrenziali. Non appare, infatti, ragionevole l’aver stabilito una puntuale articolazione temporale della disciplina transitoria, valida indifferentemente per tutti le tipologie di servizi pubblici e riferita genericamente a tutte le diverse situazioni presenti sul territorio nazionale. Inoltre, anche attraverso la disciplina del periodo transitorio, viene ribadito il disfavore del legislatore statale per le gestioni in house, le quali, pur affidate conformemente ai principi dell’ordinamento comunitario, sono destinate a cessare improrogabilmente alla data del 31 dicembre 2011.
In conclusione, ad avviso della Regione, il comma censurato si pone in contrasto con gli evocati parametri, perché:

a) il legislatore statale, con la disciplina in esame, non ha limitato il proprio intervento agli aspetti più strettamente connessi alla tutela della concorrenza ed alla regolazione del mercato, ma è intervenuto, con una norma di dettaglio, sottraendo alle Regioni la libera determinazione se ricorrere o meno al mercato ai fini della gestione del servizio pubblico; determinazione che rientra nell’ambito del buon andamento dell’organizzazione dei servizi pubblici, che spetta alle Regioni ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost.;
b) la disposizione, nella parte in cui impone al 31 dicembre 2011 la cessazione di tutte le gestioni in house, viola l’art. 117 primo comma, Cost.; per il tramite del diritto comunitario, che invece consente la prosecuzione di tali gestioni;
c) neppure con riferimento alla disciplina del periodo transitorio possono venire in rilievo le competenze legislative statali in materia di livelli essenziali delle prestazioni o di funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane, per le stesse ragioni già esposte in relazione alla questione avente ad oggetto i commi 2, 3 e 4 del menzionato art. 23-bis.

6.2. – Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni proposte siano dichiarate inammissibili o, comunque, infondate, sulla base di argomentazioni analoghe a quelle svolte in relazione al ricorso n. 6 del 2010 (supra: punto 5.2.).

6.3. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, il Presidente del Consiglio dei ministri ha ribadito quanto affermato nell’atto di costituzione, in particolare sostenendo che:

a) il ricorso è inammissibile, perché la Regione non ha impugnato la previgente formulazione dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, ma solo quella successivamente introdotta dall’art. 15 del decreto-legge n. 135 del 2009, la quale è meramente confermativa del principio di eccezionalità della gestione in house già posto precedentemente;
b) la disciplina censurata, la quale è riconducibile alla materia della tutela della concorrenza, è legittima, perché la giurisprudenza comunitaria e nazionale ha sempre affermato che l’istituto dell’in house providing costituisce un’eccezione al principio di concorrenza e all’ordinaria osservanza delle procedure di evidenza pubblica.

7. – Con ricorso notificato il 22 gennaio 2010 e depositato il 27 gennaio successivo (r. ric. n. 12 del 2010), la Regione Liguria ha impugnato, in riferimento agli artt. 117, primo, secondo e quarto comma, 118, primo e secondo comma, e 119 Cost., i commi 2, 3, 4 e 8 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 – aggiunto dalla legge di conversione n. 133 del 2008 –, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 166 del 2009.

7.1. – La Regione premette che l’art. 4 della legge reg. n. 39 del 2008 – i cui commi 1, 4, 5, 6 e 14 sono oggetto di impugnazione da parte dello Stato con il ricorso n. 2 del 2009 – ammette senza limitazioni la gestione in house dei servizi pubblici.
Premette altresì che l’art. 15 del d.l. n. 135 del 2009, che ha introdotto le disposizioni censurate, pur essendo intitolato «Adeguamento alla disciplina comunitaria in materia di servizi pubblici locali di rilevanza economica», non cita mai atti comunitari, perché non è, in realtà, imposto da esigenze di adeguamento alla normativa comunitaria, ma è frutto di una scelta «meramente statale volta ad imporre la procedura competitiva di affidamento del servizio come procedura ordinaria e l’affidamento in house come procedura eccezionale». Al contrario, – prosegue la ricorrente – il diritto comunitario, pur incentrato sulla tutela della concorrenza come metodo per garantire la pari opportunità di accesso al mercato delle commesse pubbliche per tutti gli operatori europei, ammette pienamente il diritto di ogni amministrazione di erogare direttamente i servizi pubblici autoproducendoli corrispondentemente alla propria missione.
Premette, infine, che l’art. 15 del d.l. n. 135 del 2009 è impugnabile anche nelle parti in cui è confermativo dell’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, in base alla consolidata giurisprudenza costituzionale secondo la quale gli atti legislativi sono sempre impugnabili anche se apparentemente «confermativi», perché dotati sempre, per propria natura intrinseca, del carattere della novità.

7.1.1. – Sono censurati, in primo luogo, i commi 2, 3 e 4 del novellato art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, i quali stabiliscono che di regola la gestione dei servizi pubblici locali debba essere affidata ad una società privata o mista tramite gara e ammettono la modalità di affidamento del servizio in house solo in via eccezionale.

7.1.1.1. – La ricorrente osserva che tali disposizioni esprimono il disfavore del legislatore statale per la modalità di gestione del servizio pubblico attraverso una società a totale partecipazione pubblica, ponendo pesanti limiti sostanziali e procedurali. Esse operano una drastica compressione dell’autonomia legislativa regionale in materia di servizi pubblici locali ed organizzazione degli enti locali (art. 117, quarto comma, Cost.), dato che le possibili scelte della Regione sulla forma di gestione del servizio vengono limitate a due possibilità, mentre la gestione diretta viene esclusa e quella tramite società in house limitata a casi eccezionali.
Ad avviso della difesa regionale, le disposizioni censurate non rientrano nella competenza legislativa statale in materia di tutela della concorrenza, ma si limitano a negare «il diritto dell’ente territoriale responsabile di erogare in proprio il servizio pubblico a favore della propria comunità»; diritto espressamente riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia UE, la quale afferma che un’autorità pubblica, che sia un’amministrazione aggiudicatrice, ha la possibilità di adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti, amministrativi, tecnici e di altro tipo, senza essere obbligata a far ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi.
Ad avviso della Regione Liguria, le limitazioni poste dalle disposizioni censurate alla capacità delle amministrazioni regionali e locali di gestire in proprio i servizi pubblici risultano costituzionalmente illegittime e lesive della potestà legislativa regionale nella materia. E ciò, perché «un problema di tutela della concorrenza può iniziare solo dopo che è stata presa la decisione di gestire il servizio attraverso il mercato, anziché in proprio. Al contrario, la decisione di mantenere il servizio nell’ambito della propria organizzazione diretta, o della propria organizzazione in house, non restringe e non altera in alcun modo la concorrenza».
In relazione ad altri eventuali titoli di competenza statale, la ricorrente osserva, innanzitutto, che «la disciplina in esame non appare riferibile alla competenza legislativa statale in tema di “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” perché riguarda precipuamente servizi di rilevanza economica e comunque non attiene alla determinazione di livelli essenziali». Rileva, poi, che, in base alla giurisprudenza costituzionale, l’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. non può essere invocato in relazione alle modalità di affidamento dei servizi locali. In particolare, il fatto che nella sentenza della Corte costituzionale n. 307 del 2009, si legga che «le competenze comunali in ordine al servizio idrico sia per ragioni storico-normative sia per l’evidente essenzialità di questo alla vita associata delle comunità stabilite nei territori comunali devono essere considerate quali funzioni fondamentali degli enti locali» confermerebbe che, data l’importanza del servizio idrico, lo Stato non può vietare all’ente di svolgerlo direttamente, costringendolo ad affidarlo a terzi.
Con riferimento al censurato comma 4, la ricorrente aggiunge che la sua illegittimità costituzionale consegue logicamente a quella dei precedenti commi 2 e 3. Detto comma, infatti, richiede uno speciale parere per l’adozione della gestione diretta del servizio mediante la propria organizzazione o in house; parere che «si può giustificare soltanto come forma di garanzia della “eccezionalità” della gestione in house e della fondatezza delle specifiche ragioni della scelta, ma che […] non ha più senso né ragionevolezza una volta che si riconosca il diritto dell’amministrazione di gestire in proprio il Servizio».
In conclusione, le disposizioni dei commi 2, 3 e 4 impugnati sono, per la ricorrente, illegittime, perché, in violazione dell’art. 117, quarto comma, Cost., limitano la potestà legislativa regionale di disciplinare il normale svolgimento del servizio pubblico da parte dell’ente, sottoponendo tale scelta a vincoli sia sostanziali (le «peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento») che procedurali (l’onere di trasmettere una relazione contenente gli esiti della predetta verifica all’Autorità garante della concorrenza e del mercato e alle autorità di regolazione del settore).

7.1.1.2. – La ricorrente lamenta anche che le stesse disposizioni violano l’art. 118, primo e secondo comma, Cost., perché – vietando lo svolgimento diretto del servizio idrico – vanificano «la norma che assegna, preferibilmente, le funzioni amministrative ai comuni (il servizio idrico virtualmente rimane di spettanza dei comuni ma in concreto viene assegnato ad altri soggetti; inoltre, la norma impugnata toglie ai comuni una parte essenziale della funzione, cioè la possibilità di scegliere la forma di gestione più adeguata)». Inoltre, svuotano il principio di sussidiarietà, perché si pongono in contrasto con il principio secondo cui «i comuni “sono titolari di funzioni amministrative proprie” (il servizio idrico, essendo una funzione fondamentale, rientra tra le funzioni “proprie” di cui all’art. 118, comma 2)».
La ricorrente sostiene di essere legittimata a far valere la lesione delle competenze amministrative degli enti locali anche indipendentemente dalla prospettazione della violazione della competenza legislativa regionale, perché le competenze comunali sono strettamente connesse con la competenza legislativa regionale in materia di servizi pubblici e di organizzazione degli enti locali.

7.1.1.3. – La difesa regionale lamenta, poi, che i censurati commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis violano l’art. 117, primo comma, Cost., in quanto contrastano con la Carta europea dell’autonomia locale di cui alla legge 30 dicembre 1989, n. 439 (Ratifica ed esecuzione della convenzione europea relativa alla Carta europea dell’autonomia locale, firmata a Strasburgo il 15 ottobre 1985).
Sarebbero, in particolare, violate le seguenti disposizioni della Carta:

a) l’art. 3, comma 1, secondo cui «per autonomia locale, s’intende il diritto e la capacità effettiva, per le collettività locali, di regolamentare ed amministrare nell’ambito della legge, sotto la loro responsabilità, e a favore delle popolazioni, una parte importante di affari pubblici»;
b) l’art. 4, comma 2, secondo cui «le collettività locali hanno, nell’ambito della legge, ogni più ampia facoltà di prendere iniziative proprie per qualsiasi questione che non esuli dalla loro competenza o sia assegnata ad un’altra autorità»;
c) l’art. 4, comma 4, secondo cui «le competenze affidate alle collettività locali devono di regola essere complete ed integrali».

Ad avviso della ricorrente, una volta che si riconosca che il servizio idrico è parte delle funzioni fondamentali dei Comuni, «sembra evidente che solo ad essi spetta la decisione sul migliore modo di organizzarlo. La loro autonomia potrà essere limitata sul versante del dimensionamento del servizio per assicurare una distribuzione efficiente, e dunque sulla eventuale necessità di una gestione associativa della risorsa idrica, ma non si vede come possa risultare legittimo privarli o comunque configurare come eccezionale e soggetta a specifici aggravi procedimentali la scelta di assumere essi stessi la responsabilità della gestione diretta del servizio».
Né a tale assunto potrebbe opporsi – per la stessa ricorrente – che le norme impugnate non incidono sulla spettanza delle funzioni ma solo sulle forme di gestione. Infatti, «quando la disciplina delle forme di gestione arriva ad impedire la gestione diretta del servizio idrico, non si può negare un’incidenza sulla spettanza concreta della funzione».
La ricorrente sostiene di essere legittimata a far valere la violazione della Carta europea dell’autonomia locale, «perché la lesione delle competenze comunali è strettamente connessa alla violazione della competenza legislativa regionale in materia di servizi pubblici e di organizzazione degli enti locali».

7.1.1.4. – In subordine, per il caso in cui «fosse ritenuta legittima l’imposizione di un regime “ordinario” di affidamento del servizio all’esterno e la limitazione a casi eccezionali di forme di gestione non concorrenziali», la Regione censura – in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera e), e quarto comma, Cost. – il comma 2, lettera b), del nuovo art. 23-bis, «nella parte in cui regola in dettaglio l’affidamento del servizio alla società mista, imponendo una partecipazione minima del 40% del socio privato e l’attribuzione al socio di specifici compiti operativi connessi alla gestione del servizio».
Lamenta la ricorrente che tale disposizione viola il criterio di proporzionalità che deve guidare la tutela della concorrenza, invadendo il campo riservato alla potestà legislativa regionale in materia di servizi pubblici. E ciò, perché detta disposizione pone ulteriori vincoli alla potestà legislativa regionale, senza che essi risultino funzionali ad una maggiore promozione della concorrenza, della quale potrebbero persino risultare limitativi. Infatti – prosegue la difesa regionale – «sono gli stessi privati che potrebbero non avere interesse ad acquistare, un pacchetto di azioni significativo (almeno il 40%) e presumibilmente di notevole impegno economico (e che tuttavia non garantisce affatto il controllo sulla società), per avere in cambio […] solo singoli e specifici compiti operativi e non l’intera gestione (a volte, unica condizione per poter rientrare degli investimenti fatti per “comprare” la qualifica di socio). E per altro verso, in senso contrario, in alcuni casi la situazione gestionale concretamente esistente potrebbe rendere preferibile in termini di efficienza una privatizzazione attraverso la selezione di un socio privato mero finanziatore, al quale non affidare alcun compito operativo».

7.1.1.5. – Sempre in via subordinata, «qualora fosse ritenuta legittima l’imposizione di un regime “ordinario” di affidamento del servizio all’esterno e la limitazione a casi eccezionali di forme di gestione non concorrenziali», la Regione censura – con implicito riferimento all’art. 117, quarto comma, Cost. – il comma 3 dell’art. 23-bis, nella parte in cui regola le forme di affidamento non competitive, perché esso «invece di rinviare alle forme di gestione diretta previste dalla legislazione regionale o, in mancanza, scelte dagli enti locali, regola direttamente anche tale caso, imponendo la gestione in house ed escludendo la gestione in proprio da parte dell’ente locale o la gestione tramite azienda speciale». Appare infatti evidente – per la ricorrente – che, nel momento in cui non si attiva la procedura competitiva, è escluso che lo Stato possa invocare la propria competenza in materia di tutela della concorrenza per disciplinare le forme di gestione non competitive, che ricadono, invece, nella competenza regionale piena in materia di servizi pubblici e di organizzazione degli enti locali.

7.1.2. – È censurato, in secondo luogo – in riferimento agli artt. 117, primo e quarto comma, Cost. – il comma 8 del novellato art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, il quale regola il «regime transitorio degli affidamenti non conformi a quanto stabilito ai commi 2 e 3, prevedendo, in particolare:

nella lettera a), le modalità di cessazione delle gestioni in house in essere;
nelle lettere b) e c), il regime transitorio delle gestioni affidate direttamente a società miste;
nella lettera d), le modalità di cessazione degli affidamenti diretti a società a partecipazione pubblica.

7.1.2.1. – La Regione lamenta, innanzitutto, che la disposizione viola l’art. 117, quarto comma, Cost., per ragioni analoghe a quelle fatte valere sub 7.1.1.1.
Aggiunge la ricorrente che la privatizzazione prevista dalla norma censurata non è riconducibile alla materia della tutela della concorrenza e «non ricade in specifiche competenze né della Comunità europea, né dello Stato: né, d’altronde, è una vera materia, trattandosi invece di una modalità di gestione di un bene, servizio o attività. Inoltre, trattandosi di un trasferimento ai privati di risorse costituite a spese della collettività, è un processo che va attentamente valutato in termini di benefici di ritorno alla collettività stessa. Essa, dunque, si giustifica soltanto là dove l’ingresso del privato sia una garanzia di maggiore efficienza della gestione del bene privatizzato». Infatti – sempre secondo la difesa regionale – lo Stato può legiferare solo: «a) per assicurare la concorrenza là dove l’ente competente decida di aprire il servizio ai privati; b) per assicurare i livelli essenziali delle prestazioni; c) ponendo norme di principio sul coordinamento finanziario, là dove si tratti di limitare il costo dei servizi rispetto al bilancio pubblico».
A fronte di ciò, le norme sul superamento della gestione pubblica dei servizi sarebbero, in chiave meramente ideologica, «orientate a favorire un ingiustificabile processo di “svendita” (trattandosi di vendita obbligatoria e quindi fuori dalle condizioni di mercato) del patrimonio pubblico capitalizzato nel valore delle società pubbliche che hanno avuto in affidamento i servizi, senza alcuna valutazione delle conseguenze che questo processo avrebbe sulla qualità dei servizi».

7.1.2.2. – La ricorrente lamenta, infine, che il censurato comma 8 dell’art. 23-bis viola, per le ragioni già esposte in relazione ai precedenti commi 2, 3 e 4:

a) l’art. 117, primo comma, Cost., «per contrasto con la Carta europea dell’autonomia locale»;
b) l’art. 117, secondo comma, Cost., «per erronea interpretazione dei confini dei poteri statali ivi previsti»;
c) l’art. 117, quarto comma, Cost., «per violazione della potestà legislativa regionale piena in materia di servizi locali e organizzazione degli enti locali»;
d) l’art. 118, primo e secondo comma, Cost., «per violazione del principio di sussidiarietà e della titolarità comunale di funzioni proprie»;
e) l’art. 119 Cost., sotto il profilo dell’autonomia finanziaria degli enti locali, perché «impone ad essi di cedere rilevanti quote delle società da essi controllate»;
f) in subordine, per il caso in cui «fosse ritenuta legittima l’imposizione di un regime “ordinario” di affidamento del servizio all’esterno e la limitazione a casi eccezionali di forme di gestione non concorrenziali», l’art. 117, secondo comma, lettera e), e quarto comma, Cost., perché regola nel dettaglio le quantità, le modalità e i tempi delle cessioni, per le ragioni già esposte sub 7.1.1.4.

7.2. – Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni proposte siano dichiarate inammissibili o, comunque, infondate, sulla base di argomentazioni analoghe a quelle svolte in relazione ai ricorsi n. 6 e n. 10 del 2010 (supra: punti 5.2. e 6.2.).

7.3. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, la Regione Liguria ha sostanzialmente ribadito quanto già sostenuto nel ricorso, aggiungendo che, contrariamente a quanto eccepito dalla difesa dello Stato:

a) il ricorso non è generico, perché la ricorrente ha chiaramente individuato le competenze legislative che assume violate;
b) il fatto che l’intervento legislativo censurato abbia carattere macroeconomico non rileva nel caso di specie, perché rileverebbe solo se si trattasse di una legge di sostegno economico a determinati settori produttivi;
c) il richiamo degli articoli 2458-2460 cod. civ. non è pertinente, perché tali norme si riferiscono a profili specifici del diritto societario che nulla hanno a che vedere con le disposizioni censurate.

7.4. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, il Presidente del Consiglio dei ministri ha ribadito quanto affermato nell’atto di costituzione, svolgendo, inoltre, considerazioni analoghe a quelle svolte in relazione al ricorso n. 10 del 2010 (supra: punto 6.3.).

8. – Con ricorso notificato il 21 gennaio 2010 e depositato il 28 gennaio successivo (r. ric. n. 13 del 2010), la Regione Emilia-Romagna ha impugnato – in riferimento agli artt. 114, 117, primo, secondo, quarto e sesto comma, 118 e 119 Cost. – i commi 3, 4-bis, 8, 9 e 10 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 – aggiunto dalla legge di conversione n. 133 del 2008 –, nel testo modificato dall’art. 15 del decreto-legge n. 135 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 166 del 2009.

8.1. – La ricorrente premette che la privatizzazione prevista dalle disposizioni censurate non è riconducibile alla materia della tutela della concorrenza e «non ricade in specifiche competenze né della Comunità europea, né dello Stato». Si tratta invece di una modalità di gestione di un bene, servizio o attività, attraverso un trasferimento ai privati di risorse costituite a spese della collettività, da valutarsi in termini di benefici di ritorno alla collettività stessa. Essa, dunque, si giustifica soltanto là dove l’ingresso del privato sia una garanzia di maggiore efficienza della gestione del bene privatizzato. Infatti – sempre secondo la difesa regionale – lo Stato può legiferare solo: «a) per assicurare la concorrenza là dove l’ente competente decida di aprire il servizio ai privati; b) per assicurare i livelli essenziali delle prestazioni; c) ponendo norme di principio sul coordinamento finanziario, là dove si tratti di limitare il costo dei servizi rispetto al bilancio pubblico». A fronte di ciò, le norme sul superamento della gestione pubblica dei servizi sarebbero meramente ideologiche, in quanto «orientate a favorire un ingiustificabile processo di “svendita” (trattandosi di vendita obbligatoria e quindi fuori dalle condizioni di mercato) del patrimonio pubblico capitalizzato nel valore delle società pubbliche che hanno avuto in affidamento i servizi, senza alcuna valutazione delle conseguenze che questo processo avrebbe sulla qualità dei servizi».
Ad avviso della ricorrente, è evidente il suo interesse ad impugnare tali disposizioni: «a) su un piano generale onde opporre ad una visione ideologica, priva di qualsiasi riscontro oggettivo, una diversa interpretazione degli interessi della propria comunità; b) sul piano più direttamente giuridico, al fine di poter esplicare la propria competenza legislativa in materia di servizi pubblici, che è lo strumento con cui la Costituzione garantisce la sua autonomia politica».
La ricorrente procede poi ad analizzare i precedenti giurisprudenziali costituzionali in tema di servizi pubblici locali, traendone i seguenti principi:

a) l’intervento legislativo statale in una materia come quella dei servizi pubblici locali, non espressamente prevista nell’art. 117 Cost., si giustifica solo alla luce della competenza esclusiva che lo Stato ha in materia di «tutela della concorrenza», la quale, stante la sua trasversalità, può abbracciare qualsiasi attività economica (sentenza n. 272 del 2004);
b) tuttavia, l’ambito di operatività della competenza in materia di «tutela della concorrenza» è definito anche attraverso il rispetto del principio di proporzionalità e adeguatezza, nel senso che l’intervento legislativo statale non può essere talmente dettagliato da escludere qualsiasi possibilità di regolazione da parte della Regione (sentenza n. 272 del 2004);
c) sono costituzionalmente illegittime sia le disposizioni statali dirette a disciplinare i servizi pubblici locali privi di rilevanza economica, sia le disposizioni dirette a disciplinare aspetti dei servizi pubblici locali di rilievo economico, ma con esasperato taglio applicativo e di dettaglio (sentenza n. 272 del 2004);
d) la disciplina statale sulle modalità di affidamento dei servizi pubblici a rilevanza economica è costituzionalmente legittima, in quanto riconducibile alla materia della tutela della concorrenza (sentenza n. 307 del 2009);
e) le competenze comunali in ordine al servizio idrico, sia per ragioni storico-normative, sia per l’evidente essenzialità di questo per la vita associata delle comunità stabilite nei territori comunali, devono essere considerate quali funzioni fondamentali degli enti locali, la cui disciplina è stata affidata alla competenza esclusiva dello Stato dal novellato art. 117 Cost.; ciò non toglie, ovviamente, che la competenza in materia di servizi pubblici locali resti una competenza regionale, la quale risulta in un certo senso limitata dalla competenza statale suddetta, ma può continuare ad essere esercitata negli altri settori, nonché in quello dei servizi fondamentali, purché non sia in contrasto con quanto stabilito dalle leggi statali (sentenza n. 307 del 2009).

8.1.1. – È censurato, in primo luogo – in riferimento agli artt. 114, 117, primo, secondo e quarto comma, e 118 Cost. – il comma 3 del novellato art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, il quale ammette la modalità di affidamento del servizio direttamente a società in house solo in via eccezionale.
La ricorrente prospetta questioni analoghe a quelle prospettate dalla Regione Liguria nel ricorso n. 13 del 2010 in relazione alla stessa disposizione (supra: punti 7.1.1.1. e 7.1.1.2).
Con particolare riferimento al parametro dell’art. 114 Cost., la ricorrente precisa che la norma impugnata viola l’autonomia organizzativa degli enti locali, quanto al miglior soddisfacimento dei servizi di propria titolarità.

8.1.2. – È censurato, in secondo luogo – in riferimento all’art. 117, sesto comma, Cost. – il comma 4-bis del novellato art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, il quale affida al regolamento governativo di cui al successivo comma 10 il compito di individuare una soglia oltre la quale l’affidamento di un servizio pubblico locale in forma derogatoria (ossia a società in house), per assenza in concreto di un mercato di riferimento, deve essere assoggettato alla funzione consultiva e di verifica svolta dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato.
La Regione ritiene che le determinazioni relative a tale soglia non possano che essere assunte in sede regionale, entro limiti fissati direttamente dalla legge statale, trattandosi di determinare un livello di efficienza del servizio, che solo a livello regionale può essere concretamente e correttamente apprezzato. Lamenta, perciò, che è illegittimo spostare sulla fonte regolamentare parte di tale disciplina, in violazione dell’evocato art. 117, sesto comma, Cost., che consente al Governo di intervenire con fonti secondarie solo in materie di esclusiva competenza statale. Tale non sarebbe la fissazione della soglia in questione, perché «non risponde ad alcuna logica affermare che la rilevanza o meno dell’affidamento dipenda da un valore economico».
Osserva la stessa Regione che la soglia in questione «è stata fissata, stando allo schema di regolamento approvato dal Consiglio dei Ministri in data 17 dicembre 2009, nel valore economico del servizio oggetto dell’affidamento superiore a 200.000,00 €, (mentre è comunque richiesto il parere a prescindere dal valore economico del servizio qualora la popolazione interessata sia superiore a 50.000 abitanti)». Si tratta – prosegue la difesa regionale – di un limite che è espressione di un apprezzamento ex ante del tutto forfettario che non è collegato ad alcun livello di efficienza del servizio, «né appare uno strumento in grado di fissare la appropriatezza, la qualità, il controllo e il rispetto dei parametri della concorrenza e, quindi, il grado di concorrenzialità». Sempre secondo la ricorrente, la conseguenza negativa di tale disciplina consiste nel fatto che «gli enti locali, accertata in concreto l’assenza di un mercato di riferimento, se riusciranno a contenere l’affidamento al di sotto della soglia regolamentare, potranno tranquillamente evitare la gara e gestire in house il servizio, senza che nessuna autorità tecnica possa valutare la sussistenza dei requisiti legittimanti la deroga».

8.1.3. – Sono censurati, in terzo luogo – «per violazione degli artt. 114, 118, 117, commi 1, 2 e 4, e 119 Cost., nonché del principio di tutela dell’affidamento connesso alla responsabilità regionale» – i commi 8 e 9 del novellato art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, i quali disciplinano il regime transitorio per gli affidamenti in atto dei servizi pubblici locali di rilievo economico.

8.1.3.1. – In particolare, la ricorrente sostiene che il censurato comma 8 è solo apparentemente una norma a favore della concorrenza, perché «in realtà essa introduce disposizioni più rigide della normativa comunitaria di cui si afferma l’attuazione», incidendo pregiudizialmente nell’ambito degli investimenti, rispetto al quale la Regione ha sempre avuto un ruolo fondamentale.
Al di là della violazione del principio di uguaglianza e di libertà di iniziativa economica – che riguarda più propriamente gli operatori economici che hanno fatto affidamento su una certa durata della gestione del servizio affidato – ciò che rileva in questa sede per la Regione ricorrente è la circostanza che tale disposizione incide sull’assetto del sistema regionale degli affidamenti, ledendo il ruolo della Regione, anche di tipo legislativo, nel definire la durata degli affidamenti medesimi.
Vi sarebbe, quindi, una lesione della disciplina legislativa legittimamente stabilita dalla Regione in base ai suoi livelli di competenza (violazione dell’art. 117, quarto comma, Cost.) e della responsabilità della Regione nei confronti del variegato panorama delle società pubbliche o semi pubbliche affidatarie dei servizi pubblici, che a tale assetto si sono correttamente attenute.

8.1.3.2. – Per la ricorrente, la disposizione viola inoltre l’art.117, primo comma, Cost., perché «nel diritto comunitario il modello organizzativo dell’autoproduzione dei servizi attraverso affidamenti in house è stato ritenuto in linea con i principi del Trattato, tra cui, come noto, vi è quello della tutela e promozione della concorrenza». La Regione svolge sul punto argomentazioni analoghe a quelle svolte nel ricorso n. 12 del 2010 e sopra riportate ai punti: 7.1.1.4., 7.1.1.5. e 7.1.2.1.

8.1.3.3. – La Regione lamenta, poi, che il comma 8 impugnato contrasta con «il principio di pluralismo paritario istituzionale, in violazione degli artt. 114 e 118 Cost». e ciò, perché la nuova disciplina sarebbe così rigida da annullare qualsiasi autonomia esercitabile in materia.

Sarebbe perciò violato il principio fondamentale di sussidiarietà, «che richiede […] una valutazione in concreto della situazione locale (che può enormemente variare da un ambito ottimale all’altro), anche per verificare le specifiche condizioni di mercato in cui si svolge il servizio e in cui si “privatizza” il patrimonio pubblico».
8.1.3.4. – Si lamenta, ancora, che il censurato comma 8 contrasta con l’art. 119, sesto comma, Cost., secondo cui «i Comuni, le Province le Regioni hanno un proprio patrimonio, attribuito secondo i principi generali determinati dalla legge dello Stato».
Per la ricorrente, le ragioni del dedotto contrasto stanno nel fatto che le disposizioni censurate impongono «alle Amministrazioni pubbliche di liberarsi di una quota del proprio patrimonio societario a prescindere dalla convenienza economica dell’operazione, e quindi dalla considerazione in concreto del tempo, delle modalità, della quantità, valutazioni indispensabili ad evitare che si produca una svendita coatta di capitali pubblici». Per come è strutturata la norma – prosegue la difesa regionale – «non c’è alcuna possibilità di realizzare un ritorno economico che equilibri il depauperamento, obbligato per legge, del patrimonio della collettività, e si determina un indebolimento finanziario della governance pubblica senza adeguata giustificazione e idonee contromisure, con evidente violazione della norma costituzionale sull’autonomia finanziaria di Regioni e Comuni che, per tali finalità costituzionalmente riconosciute, ha espressamente ad essi attribuito un proprio patrimonio, il quale non può essere inciso per finalità contrastanti con la sua stessa conservazione ed ottimale gestione».

8.1.3.5. – Quanto al comma 9 dell’art. 23-bis – il quale stabilisce che le società che, in Italia o all’estero, gestiscono servizi pubblici locali in virtú di affidamento diretto, di una procedura non ad evidenza pubblica ovvero ai sensi del comma 2, lettera b), nonché i soggetti cui è affidata la gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali degli enti locali, qualora separata dall’attività di erogazione dei servizi, non possono acquisire la gestione di servizi ulteriori – la Regione sostiene che esso contrasta:

a) con l’art. 117, primo comma, Cost., perché il diritto comunitario prevede che le società in house sia tenuta a svolgere a favore degli enti di riferimento solo l’attività prevalente, ben potendo destinare l’attività residua anche al mercato, mentre «la norma in questione trasforma il concetto di “prevalenza” dell’attività in “attività esclusiva”»;
b) con l’art. 117, quarto comma, Cost., perché reca interventi irragionevoli e non proporzionali agli scopi di tutela della concorrenza prefissati.

In particolare, quanto a quest’ultima questione, la ricorrente lamenta che è irragionevole estendere le conseguenze limitative degli affidamenti diretti anche alle società miste costituite ai sensi del comma 2, lettera b), dell’art. 23-bis, considerato che, per volontà dello stesso legislatore, tale modello di gestione è stato equiparato a quello dell’esternalizzazione, nella comune categoria delle formule ordinarie di organizzazione dei servizi pubblici locali di rilievo economico. Non vi sarebbe, poi, ragionevole motivo «nella scelta legislativa di escludere da tale regime limitativo, invece, le società quotate e di prevedere una specie di moratoria con riferimento alla partecipazione alle cc.dd. prime gare». Un ulteriore elemento di irragionevolezza starebbe nel fatto che la disposizione non riguarda solo il gestore del servizio, «ma anche i soggetti societari ad esso collegati e da esso controllati, i quali conservano in ogni caso una loro autonomia soggettiva e ben potrebbero operare in altri mercati». Conclude la ricorrente che «obiettivamente la portata della disposizione appare un po’ eccessiva e non proporzionata alla tutela della concorrenza: primo, perché, un vincolo di azione ad una società non è di per se stesso elemento atto a garantire la concorrenza; secondo, perché vale solo per le imprese pubbliche o semi-pubbliche, ma non per quelle private, ben potendosi verificare in concreto affidamenti di servizi a privati non preceduti da gara (come dimostra l’esperienza, giustificabili per ragioni di emergenza, ad esempio, nel campo dei servizi ambientali)».

8.1.4. – La Regione censura, in quarto luogo, il comma 10 dell’art 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, per violazione dell’art. 117, secondo e quarto comma, Cost., sotto il profilo della mancanza in capo allo Stato di un titolo di competenza in materia, per motivi analoghi a quelli già espressi dalla stessa Regione nel ricorso n. 69 del 2008 avverso la previgente formulazione della disposizione.

8.2. – Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni proposte siano dichiarate inammissibili e, comunque, infondate, sulla base di argomentazioni analoghe a quelle svolte in relazione ai ricorsi n. 6, n. 10 e n. 12 del 2010 (supra: punti 5.2., 6.2., 7.2.).

8.3. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, la Regione Emilia-Romagna ha sostanzialmente ribadito quanto già sostenuto nel ricorso, insistendo nelle conclusioni già rassegnate.

8.4. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, il Presidente del Consiglio dei ministri ha ribadito quanto affermato nell’atto di costituzione, svolgendo, inoltre, considerazione analoghe a quelle svolte in relazione ai ricorsi n. 10 e n. 12 del 2010 (supra: punti 6.3. e 7.4.).

9. – Con ricorso notificato il 21 gennaio 2010 e depositato il 28 gennaio successivo (r. ric. n. 14 del 2010), la Regione Umbria ha impugnato, in riferimento agli artt. 117, primo, secondo, e quarto comma, 118, primo e secondo comma, e 119 Cost., i commi 2, 3, 4 e 8 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 – aggiunto dalla legge di conversione n. 133 del 2008 –, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 166 del 2009.

9.1. – La Regione − premesso che l’ art. 8 della legge reg. 5 dicembre 1997, n. 43 (Norme in attuazione della legge 5 gennaio 1994, n. 36, recante disposizioni in materia di risorse idriche) consente, contrariamente alla normativa censurata, la gestione in house dei servizi pubblici − pone questioni analoghe a quelle poste dalla Regione Liguria con il ricorso n. 12 del 2010 (supra: punto 7. e seguenti).

9.2. – Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni proposte siano dichiarate inammissibili e, comunque, infondate, sulla base di argomentazioni analoghe a quelle svolte in relazione ai ricorsi n. 6, n. 10, n. 12 e n. 13 del 2010 (supra: punti 5.2., 6.2., 7.2. e 8.2.).

9.3. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, la Regione Umbria ha sostanzialmente ribadito quanto già sostenuto nel ricorso, aggiungendo considerazioni analoghe a quelle svolte dalla Regione Liguria nella memoria depositata in prossimità dell’udienza nel giudizio r. ric. n. 12 del 2010 (supra: punto 7.3.).

9.4. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, il Presidente del Consiglio dei ministri ha ribadito quanto affermato nell’atto di costituzione, svolgendo, inoltre, considerazioni analoghe a quelle svolte in relazione ai ricorsi n. 10, n. 12 e n. 13 del 2010 (supra: punti 6.3., 7.4. e 8.4.).

10. – Con ricorso notificato il 22 gennaio 2010 e depositato il 29 gennaio successivo (r. ric. n. 15 del 2010), la Regione Marche ha impugnato, in riferimento agli artt. 117, primo, quarto e sesto comma, e 119, sesto comma, Cost., i commi 2, 3, 4 e 8 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 166 del 2009, nonché il comma 1-ter dell’art. 15 dello stesso d.l. n. 135 del 2009, nella parte in cui tali disposizioni si applicano al servizio idrico integrato.

10.1. – La Regione osserva preliminarmente che il servizio idrico integrato è disciplinato sia da disposizioni già presenti nel previgente testo dell’art. 23-bis, sia da disposizioni introdotte in tale articolo dall’art. 15 del d.l. n. 135 del 2009.
Quanto alle prime, fa riferimento:

a) all’art. 23-bis, comma 10, lettera d), ai sensi del quale il Governo era incaricato di adottare uno o più regolamenti di delegificazione al fine di «armonizzare la nuova disciplina e quella di settore applicabile ai diversi servizi pubblici locali, individuando le norme applicabili in via generale per l’affidamento di tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica in materia di rifiuti, trasporti, energia elettrica e gas, nonché in materia di acqua»;
b) all’art. 23-bis, comma 10, lett. e) − disposizione, quest’ultima, non più vigente − in forza del quale, sempre mediante regolamento governativo, si doveva procedere a «disciplinare, per i settori diversi da quello idrico, fermo restando il limite massimo stabilito dall’ordinamento di ciascun settore per la cessazione degli affidamenti effettuati con procedure diverse dall’evidenza pubblica o da quella di cui al comma 3, la fase transitoria, ai fini del progressivo allineamento delle gestioni in essere alle disposizioni di cui al presente articolo, prevedendo tempi differenziati e che gli affidamenti diretti in essere debbano cessare alla scadenza, con esclusione di ogni proroga o rinnovo».

Quanto alle seconde, la ricorrente richiama, in particolare, il censurato comma 1-ter dell’art. 15 del d.l. n. 135 del 2009, il quale prevede che «Tutte le forme di affidamento della gestione del servizio idrico integrato di cui all’articolo 23-bis del citato decreto-legge n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 133 del 2008, devono avvenire nel rispetto dei princìpi di autonomia gestionale del soggetto gestore e di piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche, il cui governo spetta esclusivamente alle istituzioni pubbliche, in particolare in ordine alla qualità e prezzo del servizio, in conformità a quanto previsto dal decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, garantendo il diritto alla universalità ed accessibilità del servizio».

10.1.1. – Sono censurati, in primo luogo, i commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008 e l’art. 15, comma 1-ter, del d.l. n. 135 del 2009, per violazione dell’art. 117, sesto comma, Cost., il quale attribuisce agli enti locali territoriali la potestà regolamentare «in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite».
La ricorrente – rilevato che, secondo la disciplina impugnata, i servizi pubblici locali che abbiano rilevanza economica possono essere affidati in house solo in ipotesi eccezionali – lamenta che il comma 1-ter dell’art. 15 del d.l. n. 135 del 2009 stabilisce obbligatoriamente che per la gestione del servizio idrico integrato sia scelta una delle forme di affidamento di cui al nuovo art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008. Secondo la ricorrente, la legge statale non può imporre, in via generale e astratta, ed in modo del tutto inderogabile, la configurazione del servizio idrico integrato quale «servizio pubblico locale avente rilevanza economica», con il conseguente obbligo per gli enti titolari della funzione di conformare scopi, obiettivi e missioni del servizio in questione al perseguimento della rimuneratività del capitale investito o comunque della redditività per il soggetto gestore, escludendo la possibilità di qualificare il servizio come «servizio pubblico locale non avente rilevanza economica».
La stessa ricorrente si sofferma, poi, sul problema della qualificazione di un servizio pubblico locale come «avente rilevanza economica», ovvero come «non avente rilevanza economica».
A tale proposito – sempre per la Regione – va premesso che, come hanno evidenziato con ampiezza di argomentazioni sia la dottrina che la giurisprudenza amministrativa, la nozione di «servizio a rilevanza economica» non può essere intesa quale nozione volta a tracciare una volta per tutte una linea discretiva tra diversi tipi di attività, alla luce di una supposta «natura ontologica» della medesima. E ciò, perché la distinzione è soltanto una «conseguenza del modello gestionale scelto dall’amministrazione per la sua organizzazione». La nozione di «attività economica» dovrebbe essere ricostruita alla luce dell’art. 2082 cod. civ., ai sensi del quale «è imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi», con la conseguenza che il carattere dell’economicità è riferibile solo a quelle attività in grado di essere condotte in modo da produrre degli utili e in ultima analisi l’autosufficienza nel mercato, mentre la rilevanza economica andrebbe esclusa per quei servizi per i quali l’amministrazione intende assicurare la copertura dei costi ricorrendo alla fiscalità generale ovvero applicando prezzi politici. Tale sarebbe anche l’orientamento della giurisprudenza amministrativa − secondo cui debbono considerarsi privi di rilevanza economica i servizi caratterizzati «dall’assenza di uno scopo precipuamente lucrativo, dalla mancanza di assunzione del rischio economico connesso alla specifica attività, nonché dalla presenza di eventuali finanziamenti pubblici» − e della giurisprudenza costituzionale, secondo cui i servizi pubblici locali sono dotati, o, al contrario, privi di rilevanza economica, «in relazione al soggetto erogatore, ai caratteri ed alle modalità della prestazione, ai destinatari» (sentenza n. 272 del 2004).
In conclusione, per la difesa regionale, la qualificazione di un servizio pubblico come servizio dotato o non dotato di rilevanza economica non deriva dai caratteri «naturali», intrinseci al singolo servizio; si tratta, invece, di una mera conseguenza della valutazione schiettamente politica che l’organo o ente titolare del servizio ha effettuato sulle modalità con le quali esso debba essere organizzato e gestito.
Alla rilevanza economica del servizio – prosegue la Regione – consegue, nell’ambito dell’ordinamento costituzionale italiano, la soggezione alle regole poste dallo Stato in funzione della «tutela della concorrenza», ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., sempreché esse siano state legittimamente dettate, nel rispetto dei principi di adeguatezza e proporzionalità in relazione ai fini pro concorrenziali concretamente perseguiti.
In tale quadro, il censurato comma 1-ter dell’art. 15 del d.l. n. 135 del 2009 rende obbligatoria – come visto – la qualificazione del servizio idrico integrato come servizio «avente rilevanza economica» e, conseguentemente, il suo affidamento mediante le forme previste dal vigente testo dell’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008 e, cosí facendo, viola l’evocato art. 117, sesto comma, Cost., in base al quale tale qualificazione dovrebbe spettare alla potestà regolamentare degli enti locali e non al legislatore statale. Il regime giuridico di tale potestà sarebbe stato chiarito dalla sentenza della Corte costituzionale n. 246 del 2006, secondo cui, «se il legislatore regionale nell’ambito delle proprie materie legislative dispone discrezionalmente delle attribuzioni di funzioni amministrative agli enti locali, ulteriori rispetto alle loro funzioni fondamentali, anche in considerazione dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza di cui al primo comma dell’art. 118 della Costituzione», tuttavia «non può contestualmente pretendere di affidare ad un organo della Regione − neppure in via suppletiva − la potestà regolamentare propria dei Comuni o delle Province in riferimento a quanto attribuito loro dalla legge regionale medesima». Secondo la ricorrente, tale orientamento deve essere inteso nel senso che il legislatore può, nell’esercizio della propria discrezionalità legislativa, determinarsi circa l’attribuzione o meno agli enti locali di una determinata funzione amministrativa; ma, una volta che si sia determinato nel senso dell’affidamento ad uno di questi enti della funzione in considerazione, sorge a beneficio della potestà regolamentare dell’ente locale un ambito intangibile e incomprimibile – concernente la disciplina degli aspetti organizzativi e delle modalità di svolgimento della funzione – opponibile anche alla stessa fonte legislativa. Nel caso di specie, la normativa vigente affida la cura del servizio idrico integrato a quella particolare «struttura dotata di personalità giuridica costituita in ciascun ambito territoriale ottimale delimitato dalla competente regione» che è l’Autorità d’ambito, «alla quale gli enti locali partecipano obbligatoriamente ed alla quale è trasferito l’esercizio delle competenze ad essi spettanti in materia di gestione delle risorse idriche, ivi compresa la programmazione delle infrastrutture idriche» (art. 148, comma 1, del d.lgs. n. 152 del 2006). Ne consegue, per la difesa regionale, che «quell’area incomprimibile di formazione regolamentare concernente il servizio idrico integrato non possa che essere ricondotta alla titolarità congiunta degli enti locali che obbligatoriamente fanno parte dell’Autorità d’ambito e come la suddetta area incomprimibile di potestà normativa ricomprenda precisamente la decisione circa la conformazione del servizio quale dotato ovvero non dotato di rilevanza economica».
Tale essendo il quadro complessivo delle competenze, la materia dei servizi pubblici locali rientrerebbe nell’ambito della potestà legislativa residuale affidata alle Regioni dall’art. 117, quarto comma, Cost., con due limiti: il primo, rappresentato dalla potestà legislativa statale nell’ambito della materia di competenza esclusiva della tutela della concorrenza; il secondo, rappresentato dall’impossibilità di violare la riserva che questa disposizione pone a beneficio della potestà regolamentare degli enti locali, cui è congiuntamente affidato il servizio per il tramite dell’Autorità d’ambito, in riferimento al suo svolgimento e alla sua organizzazione.
Ad avviso della ricorrente, si deve, inoltre, escludere la possibilità che le disposizioni legislative impugnate siano riconducibili alla competenza statale concernente le «funzioni fondamentali» di Comuni, Province e Città metropolitane, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. E ciò, per le seguenti ragioni:

a) le funzioni fondamentali non sono quelle amministrativo-gestionali in senso proprio, consistenti nella concreta cura di interessi, ma solo quelle in cui si esprimono la potestà statutaria, la potestà regolamentare e la potestà amministrativa a carattere ordinamentale, concernente le funzioni essenziali che attengono alla vita stessa e al governo dell’ente;
b) secondo il principio di differenziazione, di cui all’art. 118 Cost., la valutazione di adeguatezza rispetto allo svolgimento della funzione che sorregge il principio di sussidiarietà deve tener conto delle differenze concrete che sussistono tra enti della medesima categoria, con la conseguenza che, nella allocazione delle funzioni amministrative, «la legge regionale o statale, competente per materia, dovrebbe compiere una valutazione di adeguatezza-inadeguatezza differente per enti con caratteristiche differenti pur se del medesimo tipo, ad esempio, ritenendo adeguati allo svolgimento della funzione i Comuni con più di x abitanti, ed inadeguati i Comuni con x o meno di x abitanti»;
c) il principio di differenziazione altro non è che una particolare declinazione del principio di uguaglianza;
d) lo Stato è comunque dotato della competenza ad individuare i «livelli essenziali delle prestazioni», e inoltre avrebbe a disposizione, in ogni caso, lo strumento del potere sostitutivo straordinario ex art. 120, secondo comma, Cost., per garantire l’effettività di questi ultimi;
e) la sentenza della Corte costituzionale n. 307 del 2009 – nella quale si legge che «le competenze comunali in ordine al servizio idrico […] devono essere considerate quali funzioni fondamentali degli enti locali» – precisa che l’evocazione del parametro di cui all’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., deve essere ritenuta «inconferente» rispetto a norme concernenti «le modalità di affidamento dei servizi pubblici locali a rilevanza economica», le quali trovano il loro fondamento, invece, nell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., e ciò in quanto «la regolamentazione di tali modalità non riguarda un dato strutturale del servizio né profili funzionali degli enti locali ad esso interessati (come, invece, la precedente questione relativa alla separabilità tra gestione della rete ed erogazione del servizio idrico), bensì concerne l’assetto competitivo da dare al mercato di riferimento».

La ricorrente prosegue osservando che gli aspetti del servizio idrico integrato rilevanti ai fini del riparto di competenze normative sono almeno tre:

a) quello – di competenza dello Stato ex art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. – connesso all’«assetto competitivo da dare al mercato di riferimento», ove il servizio idrico sia strutturato in modo tale da avere rilevanza economica;
b) quello – nel sistema accolto dalla sentenza n. 307 del 2009, di competenza dello Stato, in forza dell’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. – inerente ai «profili funzionali degli enti locali ad esso interessati», tra i quali la «separabilità tra gestione della rete ed erogazione del servizio idrico»;
c) quello – assegnato dall’art. 117, sesto comma, Cost., alla potestà regolamentare locale – concernente la strutturazione del servizio come avente o non avente rilevanza economica.

La ricorrente propone, poi, un’interpretazione adeguatrice delle disposizioni censurate, nel senso che, ove il comma 1-ter dell’art. 15 del d.l. n. 135 del 2009 si riferisce a «tutte le forme di affidamento della gestione del servizio idrico integrato di cui all’articolo 23-bis del citato decreto-legge n. 112 del 2008», norma che a sua volta si riferisce ai servizi dotati di rilevanza economica, esso non impone affatto che il servizio idrico integrato debba per definizione intendersi dotato di rilevanza economica. Il comma 1-ter potrebbe cioè interpretarsi nel senso che il servizio idrico integrato è sottoposto alla disciplina dell’art. 23-bis solo nei casi in cui «gli enti competenti abbiano scelto di organizzarlo in modo da conferirvi rilevanza economica».
A sostegno della percorribilità di una simile opzione interpretativa, la Regione deduce un argomento fondato sull’evoluzione storica della disciplina, rilevando che, prima dell’entrata in vigore dell’art. 23-bis, la materia dell’affidamento della gestione del servizio idrico integrato era regolata dall’art. 150 del d.lgs. n. 152 del 2006 mediante rinvii recettizi all’art. 113 del d.lgs. n. 267 del 2000. Da tali rinvii si poteva desumere che il legislatore imponesse alle Autorità d’ambito territorialmente competenti la conformazione del servizio idrico integrato necessariamente come «servizio pubblico a rilevanza economica», perché il citato art. 113 regolava l’affidamento di tale categoria di servizi. Proprio l’abrogazione del suddetto art. 113 ad opera dell’art. 23-bis citato avrebbe – a detta della ricorrente – fatto venire meno tale necessaria conformazione del servizio idrico.
La ricorrente conclude l’illustrazione del primo motivo di ricorso rilevando, sul piano processuale, che:

a) nel giudizio in via principale, sono ammissibili «questioni interpretative del tipo di quella qui proposta»;
b) sono ammissibili censure «avverso una legge statale, che invochino quale parametro norme costituzionali poste a presidio di competenze degli enti locali», per la strettissima connessione tra competenze regionali e locali, che sussiste nel caso di specie, perché «il riconoscimento agli enti locali della competenza, ex art. 117, sesto comma, Cost., a decidere circa la conformazione del servizio idrico integrato come servizio avente o non avente rilevanza economica determina rispettivamente il contrarsi o il riespandersi dell’ambito di applicazione delle norme regionali adottate in materia di servizi pubblici locali».

10.1.2. – Per il caso in cui la Corte costituzionale non volesse accogliere la ricostruzione del servizio idrico integrato come riconducibile alla potestà regolamentare degli enti locali ex art. 117, sesto comma, Cost., la Regione sostiene che le norme censurate, «con particolare riferimento alla disciplina dei profili di configurazione strutturale del servizio idrico integrato», violano l’art. 117, quarto comma, Cost., il quale attribuisce alle Regioni la potestà legislativa residuale nella materia dei servizi pubblici locali.
La ricorrente richiama la giurisprudenza costituzionale che riconduce la disciplina dei servizi pubblici locali alla competenza legislativa esclusiva regionale e sottolinea che – come già osservato – «la qualificazione di un servizio come avente o non avente rilevanza economica dipende dalle caratteristiche che si intendano conferire al modo in cui esso è organizzato e gestito», con la conseguenza di escludere titoli di competenza dello Stato in materia. In particolare, dalla citata sentenza della Corte costituzionale n. 307 del 2009, si desumerebbe che il «dato strutturale del servizio» ricade nella competenza legislativa regionale.

10.1.3. – La ricorrente censura, in terzo luogo, le stesse disposizioni, per violazione dell’art. 117, quarto comma, Cost., il quale attribuisce alle Regioni la potestà legislativa residuale nella materia dei servizi pubblici locali.
Sostiene la Regione che la disciplina statale non potrebbe trovare il suo titolo di legittimazione nell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., perché la potestà legislativa statale in materia di tutela della concorrenza «è riferibile solo alle disposizioni di carattere generale che disciplinano le modalità di gestione e l’affidamento dei servizi pubblici locali di “rilevanza economica”» e «solo le predette disposizioni non possono essere derogate da norme regionali»; con la conseguenza che non sono censurabili, in riferimento ai servizi pubblici aventi rilevanza economica, solo ed esclusivamente tutte quelle norme statali «che garantiscono, in forme adeguate e proporzionate, la più ampia libertà di concorrenza nell’ambito di rapporti – come quelli relativi al regime delle gare o delle modalità di gestione e conferimento dei servizi – i quali per la loro diretta incidenza sul mercato appaiono più meritevoli di essere preservati da pratiche anticoncorrenziali».
Secondo la difesa regionale, per valutare se la normativa statale rispetti il principio di proporzionalità, è necessario accertare se esista la possibilità di una regolazione diversa e meno invasiva per l’autonomia regionale, la quale raggiunga i medesimi scopi di tutela della concorrenza perseguiti con la disciplina oggetto del giudizio.
Nel caso di specie – prosegue la ricorrente – è agevole rendersi conto che il parametro della proporzionalità della disciplina non è rispettato, perché lo standard di tutela garantito dalla normativa censurata sarebbe ugualmente assicurato da una disciplina meno invasiva delle competenze regionali, che non contenga una specifica indicazione delle condizioni che giustificano l’affidamento in house. In particolare, la Regione osserva che la giurisprudenza comunitaria ha ritenuto non contrastante con il diritto comunitario, e con l’esigenza di tutelare la concorrenza, la disciplina nazionale italiana previgente rispetto a quella oggi in discussione, la quale non individuava specificamente le ipotesi in cui si doveva eccezionalmente ritenere ammissibile il ricorso all’affidamento in house. Ne consegue, secondo la Regione, che le norme impugnate violano il principio di proporzionalità quale delineato dalla giurisprudenza costituzionale. Tale conclusione sarebbe avvalorata anche da un concorrente argomento, desumibile dal censurato comma 8 dell’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, il quale prevede la cessazione «automatica» delle «gestioni in essere alla data del 22 agosto 2008 affidate conformemente ai principi comunitari in materia di cosiddetta “in house”». Tale previsione – a detta della difesa regionale – mostrerebbe con chiarezza che il legislatore statale ha inteso escludere la legittimità della scelta dell’in house providing in situazioni compatibili con la tutela della concorrenza, in quanto conformi al diritto comunitario.
Sempre secondo la ricorrente, i parametri di «generalità» e «proporzionalità» sopra illustrati sono anche direttamente violati dal censurato comma 8 dell’art. 23-bis del d.lgs. n. 112 del 2008, per l’estremo dettaglio «nella indicazione dei tempi e delle modalità di cessazione delle presenti gestioni pure conformi alla disciplina in house posta dal diritto comunitario» e perché, per raggiungere il fine di garantire effettività e tempestività all’entrata a regime della nuova normativa introdotta non era affatto necessario comprimere i poteri decisionali delle Regioni e degli enti locali. Ad avviso della ricorrente, «sarebbe risultata più che sufficiente, infatti, una normativa che prevedesse uno spettro di date entro il quale le singole Regioni potessero compiere le proprie scelte, ovvero un meccanismo di adeguamento progressivo ai nuovi standard».
Tali considerazioni – ribadisce la Regione – varrebbero anche se la «Corte ritenesse di aderire all’interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni impugnate (nel senso che l’art. 15, comma 1-ter, lascerebbe del tutto impregiudicata la questione della conformazione del servizio idrico integrato quale servizio avente o non avente rilevanza economica)». Infatti, nel caso in cui si ritenesse di accogliere la suddetta interpretazione restrittiva della normativa impugnata, «le norme oggetto della presente questione di legittimità costituzionale disciplinerebbero comunque nel dettaglio, e ben oltre i limiti che pone l’art. 117, secondo comma, lett. e), Cost., l’affidamento del servizio idrico integrato che fosse stato conformato − dalla potestà regolamentare locale, ovvero dalla legislazione regionale − in modo tale da far assumere al medesimo rilevanza economica».

10.1.4. – La ricorrente censura, in terzo luogo, il comma 1-ter dell’art. 15 del d.l. n. 135 del 2009, per violazione dell’art. 119, sesto comma, Cost., il quale prevede che «i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno un proprio patrimonio, attribuito secondo i principi generali determinati dalla legge dello Stato».
Quanto all’evocato parametro, la Regione osserva: «a) che la proprietà pubblica regionale e locale ha uno specifico fondamento costituzionale e, pertanto, partecipa a pieno titolo alla definizione delle sfere di autonomia costituzionalmente garantita dei rispettivi enti, risultando “imposto” al legislatore statale l’obbligo di prevedere l’attribuzione a tali enti di un proprio patrimonio; b) che una volta avvenuta l’attribuzione del patrimonio alla proprietà delle Regioni e degli enti locali territoriali, secondo i principi generali fissati dalla legge dello Stato, tale proprietà pubblica deve considerarsi naturalmente assoggettata al regime giuridico del demanio e del patrimonio indisponibile o disponibile sulla base delle ordinarie norme del codice civile (in specie, degli artt. 823, 824, 826, 828 e 829); c) che al legislatore statale la Costituzione riconosce titoli di legittimazione per la sola disciplina dei “principi generali” per l’attribuzione di tali beni e per il relativo regime giuridico, riconducibile alla materia “ordinamento civile”, nel quale è senza dubbio ricompresa la regolazione dei limiti e delle modalità di alienazione dei suddetti beni nelle forme negoziali, ma non certo il potere di disciplinare la sottrazione dei medesimi al patrimonio delle autonomie territoriali».
In tale quadro si inscrive il regime proprietario delle risorse e delle infrastrutture idriche, disciplinato dagli artt. 143, 144 del d.lgs. n. 152 del 2006. Secondo tali disposizioni, le risorse idriche debbono considerarsi di proprietà dello Stato e facenti parte del demanio statale necessario di cui al primo comma dell’art. 822 cod. civ., mentre le infrastrutture idriche possono essere di proprietà pubblica di tutti gli enti territoriali e, qualora lo siano in concreto, appartengono al demanio eventuale dello Stato, delle Regioni o degli enti locali, ai sensi degli artt. 822, secondo comma, e 824, primo comma, cod. civ., risultando perciò assoggettati al regime giuridico stabilito dall’art. 823 anche per quanto concerne la loro tutela. La Regione osserva che a tali norme debbono poi essere aggiunte anche quelle contenute nell’art. 153, comma 1, e nell’art. 151, comma 2, lettera m), dello stesso d.lgs. n. 152 del 2006, le quali stabiliscono, rispettivamente, che «le infrastrutture idriche di proprietà degli enti locali ai sensi dell’articolo 143 sono affidate in concessione d’uso gratuita, per tutta la durata della gestione, al gestore del servizio idrico integrato, il quale ne assume i relativi oneri nei termini previsti dalla convenzione e dal relativo disciplinare» (art. 153, comma 1) e che «l’obbligo di restituzione, alla scadenza dell’affidamento, delle opere, degli impianti e delle canalizzazioni del servizio idrico integrato in condizioni di efficienza ed in buono stato di conservazione» (art. 151, comma 2, lettera m).
Lamenta la ricorrente che la norma censurata si limita a prevedere il «rispetto» del «principio» «di piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche», senza assicurare in alcun modo la salvaguardia, né sotto il profilo formale, né sotto il profilo sostanziale, della proprietà pubblica delle «infrastrutture idriche», le quali ben possono essere di proprietà delle Regioni e degli enti locali ed essere, per ciò stesso, assoggettate al regime del demanio regionale o locale. Formula, perciò, «due distinte ed autonome questioni di legittimità costituzionale».

10.1.4.1. − Da un primo punto di vista – sostiene la Regione – «è del tutto evidente che la normativa impugnata, imponendo agli enti locali di conformare necessariamente il servizio idrico integrato come servizio a rilevanza economica e, su questa base, rendendone obbligatorio l’affidamento della relativa gestione (infrastrutture comprese) a soggetti privati, ponendo altresì una clausola di salvaguardia a tutela della «piena ed esclusiva proprietà pubblica» a favore delle sole risorse idriche appartenenti al demanio statale, determina il sostanziale “svuotamento” della proprietà pubblica dei beni appartenenti al demanio idrico regionale e locale; beni che risulteranno, per espresso disposto del richiamato art. 153, comma 1, del d.lgs. n. 152 del 2006, necessariamente e ope legis “affidati in concessione d’uso gratuita” al gestore privato del servizio idrico integrato». Tale lettura del dato normativo troverebbe conferma nella menzionata clausola di salvaguardia della proprietà pubblica delle risorse idriche che il legislatore statale ha avvertito la necessità di introdurre e che, ovviamente, risulterebbe del tutto inutile qualora la disciplina impugnata non implicasse la sostanziale espropriazione a favore dei privati dei beni appartenenti al demanio idrico.

10.1.4.2. – La Regione sostiene, poi, che, anche a voler accedere a quell’interpretazione costituzionalmente orientata secondo la quale la disciplina in esame non imporrebbe affatto di conformare il servizio idrico integrato come servizio a rilevanza economica (con i relativi vincoli in ordine alle modalità di gestione e al necessario affidamento a soggetti privati), la violazione della evocata norma costituzionale – posta a garanzia del patrimonio delle Regioni e degli enti locali territoriali – risulterebbe evidente per la mancata previsione di una specifica clausola di salvaguardia a favore della proprietà pubblica delle infrastrutture idriche di cui le Regioni e gli enti locali siano in concreto titolari; clausola che, per essere effettiva e corrispondere alla norma costituzionale, non potrebbe limitarsi a fare salvo il solo profilo della titolarità formale del bene, dovendo bensì consistere nella previsione della necessità del consenso esplicito, da parte dell’ente titolare della proprietà delle infrastrutture interessate dal servizio idrico integrato, rispetto alla scelta concernente l’eventuale conformazione del servizio come servizio a rilevanza economica e il conseguente suo affidamento a soggetti privati.

10.1.5. – Sono censurati, in quarto luogo – in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. – i commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008 e l’art. 15, comma 1-ter, del d.l. n. 135 del 2009, nella parte in cui si riferiscono al servizio idrico integrato, perché determinano «la violazione di quelle peculiari norme poste dal diritto comunitario in relazione ai servizi di interesse generale».
La ricorrente evoca, quali parametri interposti, gli artt. 14 e 106 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (già artt. 16 e 86 del Trattato CE). Secondo la prima di queste due disposizioni, «fatti salvi l’articolo 4 del trattato sull’Unione europea e gli articoli 93, 106 e 107 del presente trattato, in considerazione dell’importanza dei servizi di interesse economico generale nell’ambito dei valori comuni dell’Unione, nonché del loro ruolo nella promozione della coesione sociale e territoriale, l’Unione e gli Stati membri, secondo le rispettive competenze e nell’ambito del campo di applicazione dei trattati, provvedono affinché tali servizi funzionino in base a principi e condizioni, in particolare economiche e finanziarie, che consentano loro di assolvere i propri compiti». La seconda disposizione, al paragrafo 2, prevede che: «Le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale sono sottoposte alle norme dei trattati, e in particolare alle regole di concorrenza, nei limiti in cui l’applicazione di tali norme non osti all’adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata. Lo sviluppo degli scambi non deve essere compromesso in misura contraria agli interessi dell’Unione».
Ad avviso della Regione, da tali norme comunitarie risulterebbe che, «per perseguire gli obiettivi di coesione e solidarietà sociali, fatti propri anche dall’Unione europea, il diritto di questo ordinamento esclude che ai servizi di interesse generale debbano senz’altro applicarsi le norme del mercato interno». E, anzi, nella materia considerata avrebbero predominanza gli obiettivi di coesione sociale sottostanti ai servizi di interesse generale: quali che siano le cause che impediscono al sistema concorrenziale di mercato di raggiungere in modo soddisfacente e generalizzato questi obiettivi, siano esse di diritto o di fatto, non devono essere applicate le norme del mercato interno a questi servizi. L’eccezionalità del trattamento giuridico dei servizi di interesse generale è confermata – per la ricorrente – dalla Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni – Libro bianco sui servizi di interesse generale – COM (2004) 374. In questo documento, infatti, si evidenzia che «i servizi di interesse economico generale non sono soggetti alla applicazione delle norme del Trattato nella misura in cui ciò risulti necessario per consentire di adempiere il loro compito di interesse generale», il quale dunque «prevale […] sull’applicazione delle norme del Trattato».
Tra i servizi di interesse generale – prosegue la Regione – è annoverabile anche il servizio idrico integrato, sia in base alla Risoluzione del Parlamento europeo del 15 marzo 2006, che dichiara l’acqua «bene comune dell’umanità», sia in base al già citato Libro bianco della Commissione sui servizi di interesse generale, nel quale, al paragrafo 3.4., si menziona esplicitamente il servizio idrico tra i servizi di interesse generale.
Le ragioni del dedotto contrasto delle norme censurate con l’evocato parametro risiederebbero, dunque, nel fatto che esse, «conformando il servizio idrico come servizio necessariamente a rilevanza economica, abbiano imposto la applicazione delle regole del mercato interno in via generale per tutto il territorio nazionale, prescindendo del tutto dalle diverse condizioni e circostanze che nelle diverse realtà possono ravvisarsi». Ciò che risulta precluso dal diritto comunitario, in definitiva, non è la scelta di un determinato modello per la conformazione dei servizi di interesse generale, ma l’adozione di decisioni generalizzate che non siano in grado di tenere conto delle peculiarità in cui i servizi devono essere svolti. Tale conclusione emergerebbe espressamente dal richiamato Libro bianco della Commissione europea sui servizi di interesse generale, ove, al par. 4.3, si afferma che «le autorità pubbliche competenti degli Stati membri sono sostanzialmente libere di decidere se fornire in prima persona un servizio di interesse generale o se affidare tale compito ad un altro ente (pubblico o privato)», e dalla citata Risoluzione del Parlamento europeo del 15 marzo 2006, secondo cui la gestione delle risorse idriche deve basarsi «su un’impostazione partecipativa e integrata che coinvolga gli utenti e i responsabili decisionali nella definizione delle politiche in materia di acqua a livello locale e in modo democratico».
La ricorrente osserva poi che la tendenza che matura nel contesto delle istituzioni comunitarie è esattamente opposta rispetto all’indirizzo del legislatore italiano e richiama, a tale scopo, la Risoluzione dell’1l marzo 2004 del Parlamento europeo, la quale afferma che «essendo l’acqua un bene comune dell’umanità, la gestione delle risorse idriche non deve essere assoggettata alle norme del mercato interno».
La questione di legittimità costituzionale – conclude la difesa regionale – risulterebbe svuotata del suo significato ove questa Corte si risolvesse ad interpretare le disposizioni impugnate nel senso di ritenerle applicabili soltanto nel caso in cui sia stata compiuta l’opzione (affidata alla libera determinazione degli enti titolari dell’erogazione del servizio idrico integrato) a favore della conformazione del servizio come servizio a rilevanza economica, senza pregiudicare dunque tale scelta.

10.2. – Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni proposte siano dichiarate inammissibili o, comunque, infondate, sulla base di argomentazioni analoghe a quelle svolte in relazione ai ricorsi n. 6, n. 10, n. 12, n. 13 e n. 14 del 2010 (supra: punti 5.2., 6.2., 7.2., 8.2. e 9.2.).

10.3. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, la Regione Marche ha sostanzialmente ribadito quanto già dedotto nel ricorso e ha replicato ai rilievi della controparte.
La ricorrente premette che la difesa statale prende in considerazione, tra le censure proposte, soltanto quelle concernenti la violazione della competenza legislativa regionale di cui al quarto comma dell’art. 117 Cost., in materia di servizi pubblici locali, nonché la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., delle quali si limita a sostenere l’inammissibilità, rilevando che la Regione lamenterebbe «genericamente l’illegittimità costituzionale di leggi statali», nonché «la contrarietà delle stesse all’ordinamento comunitario», senza «indicare specificatamente la lesione di una competenza ad essa attribuita». A tali rilievi, la Regione replica di avere articolato dettagliati motivi di ricorso in relazione a tutte le censure proposte.
Con riferimento alle singole questioni prospettate, la difesa regionale precisa che:

a) «solo ed esclusivamente nei casi in cui l’attività di prestazione del servizio sia conformata dai poteri pubblici competenti in modo tale da creare la possibilità di un utile – intendendo questa espressione nel modo più ampio possibile – si è dinanzi ad un mercato concorrenziale», con la conseguenza che, «senza la possibilità di una qualche remuneratività o utilità per chi si accolla lo svolgimento del servizio non è possibile neanche immaginare in astratto l’esistenza di un mercato concorrenziale»;
b) in relazione al servizio idrico, l’autorità competente può facilmente individuare le motivazioni che giustifichino, nelle diverse situazioni di fatto, la conformazione del servizio come servizio senza rilevanza economica, da un lato, perché si tratta di garantire un diritto fondamentale dell’uomo quale il diritto all’acqua e dunque di garantire a tutti la disponibilità di un bene che non deve necessariamente essere assoggettato al regime di mercato, dall’altro, perché va valutata, con riferimento alle specifiche situazioni territoriali e locali, l’eventuale assenza di imprese disponibili a offrire i servizi o comunque la necessità di garantire il servizio a prezzi non in grado di remunerare un’attività svolta in forma imprenditoriale;
c) deve essere escluso che la conformazione del servizio idrico integrato quale servizio avente o non avente rilevanza economica sia riconducibile alla competenza esclusiva della legge statale in virtù dell’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., perché l’art. 14 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, al comma 27, dispone che siano «considerate funzioni fondamentali dei comuni le funzioni di cui all’articolo 21, comma 3, della legge 5 maggio 2009, n. 42», il quale a sua volta, alla lettera e), esclude da tali funzioni il servizio idrico integrato;
d) nel diritto tedesco spetta alle municipalità la scelta – tra numerosi modelli organizzativi possibili – del modo in cui il servizio idrico deve essere gestito;
e) anche negli altri principali ordinamenti europei «la responsabilità del servizio idrico – in particolar modo in relazione alla attività di distribuzione – è affidata alle istituzioni esponenziali delle comunità locali (Francia, Portogallo, Spagna, Svezia, Finlandia, Paesi Bassi, Belgio, Danimarca)», le quali non sono tenute a conformare il servizio idrico come un servizio a rilevanza economica.

10.4. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, il Presidente del Consiglio dei ministri ha ribadito quanto affermato nell’atto di costituzione, svolgendo, inoltre, considerazione analoghe a quelle svolte in relazione ai ricorsi nn. 10, 12, 13 e 14 del 2010 (supra: punti 6.3., 7.4., 8.4. e 9.4.).

11. – Con ricorso notificato il 29 gennaio 2010 e depositato lo stesso giorno (r. ric. n. 16 del 2010), la Regione Piemonte ha impugnato – in riferimento agli artt. 5, 114, 117, primo, secondo, terzo, quarto e sesto comma, e 118, Cost., anche con riferimento agli artt. 3 e 97, Cost. – i commi 2, 3, 4 e 8 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 – nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 166 del 2009 – nonché il comma 1-ter del citato art. 15.

11.1. – La ricorrente, premessa una sintetica ricostruzione del quadro normativo, formula diverse questioni.

11.1.1. – Sono censurati, in primo luogo – in riferimento agli artt. 3, 5, 97, 114, 117, primo, secondo, quarto e sesto comma, e 118 Cost. – i commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, nonché il comma 1-ter dell’art. 15 del decreto-legge n. 135 del 2009.

11.1.1.1. – Quanto alla dedotta violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., la Regione premette che non appare possibile «confondere il principio di concorrenza posto dal Trattato dell’Unione europea, che disciplina i comportamenti delle amministrazioni pubbliche una volta che abbiano deciso di rivolgersi al mercato delle imprese, con l’idea di prevalenza o preferenza per il mercato nell’organizzazione dei servizi pubblici indicata dalla disciplina statale in esame, nella quale l’in house providing è configurata come un residuo negletto o un cattivo surrogato».
Il parametro evocato sarebbe, perciò, violato, perché il diritto comunitario non consente che il legislatore nazionale spinga la tutela della concorrenza fino comprimere il «principio di libertà degli individui o di autonomia – del pari costituzionale – degli enti territoriali (artt. 5, 117, 118, Cost.) di mantenere la capacità di operare ogni qualvolta la scelta che ritengono più opportuna: cioè se fruire dei vantaggi economici offerti dal mercato dei produttori oppure se procedere a modellare una propria struttura capace di diversamente configurare l’offerta delle prestazioni di servizio pubblico». In tal senso si è espresso – prosegue la ricorrente – l’ordinamento comunitario, laddove «ha ritenuto in contrasto con la disciplina europea sulla concorrenza la legge nazionale sui lavori pubblici (allora legge 11 febbraio 1994, n. 109, art. 21) che aveva limitato la scelta tra i due criteri europei d’aggiudicazione degli appalti». L’attuazione del diritto comunitario non consentirebbe al legislatore interno di esprimere un autonomo indirizzo politico, perché essa può comportare solo «l’adozione di norme esecutive (secundum legem)», con l’impossibilità di spingersi sino a norme «integrative (praeter legem), tali cioè da ampliare, senza derogarli, i contenuti normativi espressi attraverso la legislazione». Nel caso di specie, «nessuna delle disposizioni comunitarie vigenti infatti impone – come invece pretende l’art. 23-bis, decreto-legge n. 112 del 2008, cit. ai suoi commi secondo e terzo – agli Stati membri l’attribuzione ad imprese terze come forma ordinaria o preferenziale di affidamento dei servizi pubblici locali».

11.1.1.2. – Quanto al parametro dell’art. 117, quarto comma, Cost., esso sarebbe violato, perché le norme impugnate recano una disciplina che non è riconducibile alla materia della tutela della concorrenza, ma alla potestà legislativa residuale delle Regioni. Con tali disposizioni, infatti, il legislatore statale «riconosce che entrambe le forme di gestione ed affidamento dei servizi pubblici (soggetto scelto con gara, organizzazione in house providing) sono conformi all’ordinamento europeo ed in particolare alla disciplina sulla concorrenza, ma con la norma nazionale giunge sino ad individuare come forma preferenziale “ordinaria” l’affidamento del servizio ad imprese terze, mentre relega la possibilità dell’affidamento in house ai soli casi ivi espressi in via d’eccezione».
Quanto ad altri eventuali titoli di competenza legislativa statale, la Regione rileva, innanzi tutto, che la disciplina del censurato art. 23-bis, cit. «è in tutto o in parte sostitutiva dell’art. 113, d.lgs. n. 267 del 2000» e ha perciò per oggetto unicamente le forme di gestione dei servizi pubblici a rilevanza economica, e non le prestazioni da assicurare agli utenti, con la conseguenza che non può essere richiamata la materia dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali; rileva, inoltre, che la disciplina censurata non è riconducibile alla potestà esclusiva statale in materia di funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane (art. 117, secondo comma, lettera p, Cost.), «giacché la gestione dei predetti servizi non può certo considerarsi esplicazione di una funzione propria ed indefettibile dell’ente locale».
In conclusione – sempre secondo la ricorrente – l’opzione tra le diverse modalità di gestione del servizio pubblico «è una tipica scelta d’organizzazione, in particolare di buon andamento del servizio pubblico (art. 97, primo comma, Cost.), che proprio in quanto organizzazione locale e non nazionale dei servizi oggetto della disciplina dell’art. 23-bis, decreto-legge n. 112 del 2008, cit., non può riconoscersi alla legislazione statale, ma spetta alla legislazione regionale ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost. seppure nel rispetto di una eventuale specifica disciplina degli enti territoriali minori (art. 117, sesto comma, Cost.)». Alle Regioni spetta, inoltre «la legittimazione ad impugnare le leggi statali in via diretta non solo a tutela della propria legislazione ma anche con il riferimento alla prospettata lesione da parte della legge nazionale della potestà normativa degli enti territoriali, con affermazione della regione come ente di tutela avanti alla Corte costituzionale del “sistema regionale delle autonomie territoriali” (art. 114, secondo comma, Cost.)».

11.1.2. – Sono censurati, in secondo luogo – in riferimento agli artt. 3, 97, 117, primo, secondo, terzo e quarto comma, e 118 Cost. – i commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008.

11.1.2.1. – Quanto ai parametri degli artt. 3 e 97 Cost., la ricorrente rileva che essi sarebbero violati perché la disciplina dell’affidamento del servizio pubblico locale contenuta nelle disposizioni censurate risulta lesiva della «competenza delle regioni e degli enti locali ove le s’intenda come disciplina ulteriore rispetto a quella generale sul procedimento amministrativo che da tempo prevede il dovere di motivazione degli atti amministrativi (art. 3, legge 7 agosto 1990, n. 241), secondo molti posto in attuazione del principio costituzionale di motivazione delle scelte della amministrazioni pubbliche quanto meno nella cura di pubblici interessi». Tale ulteriore disciplina, da intendersi come «deroga alla disciplina generale sul procedimento e la motivazione degli atti amministrativi» si porrebbe in violazione del principio di ragionevolezza, poiché non è ravvisabile nel caso in esame alcun interesse pubblico prevalente capace di fondare sia l’esenzione dal generale dovere di motivazione per l’affidamento ad imprese terze, sia la limitazione dei casi sui quali può essere portata la motivazione a fondamento di altre soluzioni organizzative. La denunciata invasione nella sfera di competenza regionale e degli enti territoriali minori è addirittura enfatizzata – prosegue la Regione – dalla precisazione che le disposizioni impugnate «prevalgono» su tutte le «discipline di settore con esse incompatibili» e, in particolare, su quelle della Regione Piemonte relative al servizio idrico integrato (legge regionale 13 dicembre 1997, n. 13) e al sistema integrato di raccolta e smaltimento dei rifiuti solidi urbani (legge regionale 24 ottobre 2002, n. 24), che non limitano la scelta tra le forme di gestione dei servizi compatibili con il diritto comunitario.
La ricorrente non esclude, peraltro, che dell’art. 23-bis, commi 1 e 4, si possa dare «un’interpretazione adeguatrice capace di sorreggere una sentenza interpretativa di rigetto della questione di costituzionalità proposta ove s’intenda che tali disposizioni non deroghino alla disciplina generale sul procedimento amministrativo, dovendo l’amministrazione motivare qualunque scelta della forma di gestione del servizio pubblico locale […] secondo un’interpretazione che espunge dalle norme qualsiasi preferenza o prevalenza in astratto di una forma di gestione sull’altra».
Anche seguendo tale percorso interpretativo, permarrebbe comunque – ad avviso della Regione – l’illegittimità costituzionale parziale dell’art. 23-bis, commi 3 e 4, decreto-legge n. 112 del 2008, «per avere il legislatore statale invaso la sfera di competenza normativa della Regione Piemonte e degli enti territoriali piemontesi nella definizione dello svolgimento delle funzioni loro attribuite (art. 117, commi quarto e sesto, Cost.) poiché una parte della norma prevede una disciplina particolare del procedimento di affidamento della gestione a soggetti diversi dagli operatori di mercato, tra cui l’in house providing».
A tali considerazioni la difesa regionale aggiunge che i commi censurati contengono «norme di dettaglio così puntuali che non sarebbero neppure compatibili con una competenza esclusiva dello Stato […] e in violazione del principio di ragionevolezza (ex art. 3, secondo comma, Cost.) poiché della legge impugnata non si comprendono le ragioni di una disciplina differenziata per l’ambito locale dei pubblici servizi».

11.1.2.2. – Quanto ai parametri «dell’art. 117, commi primo, secondo, terzo, quarto, Cost. con riferimento agli articoli 114, 117, sesto comma, e 118, commi primo e secondo, Cost.», la ricorrente rileva che essi sarebbero violati perché le disposizioni impugnate ledono «l’autonomia costituzionale propria dell’intero sistema degli enti locali», limitando la «capacità d’organizzazione e di autonoma definizione normativa dello svolgimento delle funzioni di affidamento dei servizi pubblici locali». Secondo la Regione, in particolare, la scelta delle forme di gestione ed affidamento del servizio pubblico deve informarsi a valutazioni di efficienza, efficacia ed economicità «che ciascuna organizzazione pubblica non può che esprimere con riferimento ai proposti standard di qualità che intende offrire agli utenti, involgendo perciò questioni di pura autorganizzazione degli enti territoriali». In particolare, la legislazione statale può legittimamente imporre una determinata forma di gestione di un servizio pubblico solo procedendo in via preliminare ad avocare allo Stato la competenza sull’organizzazione della gestione dei servizi sinora considerati locali.

11.1.2.3. – Quanto al parametro «dell’art. 117, secondo comma, Cost. con riferimento all’art. 3, Cost.», la ricorrente sostiene che la disciplina contenuta nei censurati commi 2, 3 e 4, anche ove fosse ritenuta di tutela della concorrenza, difetterebbe di proporzionalità e adeguatezza.
In particolare, la difesa regionale afferma che solo le disposizioni di legge statale a «carattere generale che disciplinano le modalità di gestione e l’affidamento dei servizi pubblici locali di rilevanza economica» trovano il proprio «titolo di legittimazione» nell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. («tutela della concorrenza») e «solo le predette disposizioni non possono essere derogate da norme regionali». Tali considerazioni varrebbero, a maggior ragione, per le disposizioni in esame, perché esse stabiliscono «una disciplina immediatamente autoapplicativa ove senz’altro pongono un criterio o principio di preferenza nell’attribuzione ad imprese terze dei servizi pubblici locali».

11.1.3. – La ricorrente censura, in terzo luogo, il comma 8 dell’art. 23-bis, il quale intacca, senza indennizzo alcuno, il patrimonio che gli enti locali hanno legittimamente realizzato o acquisito mediante l’affidamento in house della gestione di servizi pubblici locali, in conformità sia all’ordinamento comunitario sia a quello interno.

11.1.3.1. – Lamenta la stessa ricorrente che la disposizione impugnata viola gli artt. 5, 114, 117, sesto comma, e 118, Cost., «in ragione di una generalizzata cessazione anticipata al 31 dicembre 2011 disposta ex lege per tutti gli affidamenti in house providing, anche di quelli effettuati dagli enti territoriali in conformità all’ordinamento comunitario e italiano, con grave svalutazione dei valori di mercato dei corrispettivi di cessione delle partecipazioni a causa della simultanea attuazione su tutto il territorio nazionale dell’alienazione del 40% di un numero rilevante di società in mano agli enti locali, che − unitamente agli affidamenti illegittimi − per il solo servizio idrico integrato ammontano a circa n. 60 complessi aziendali, di cui alcuni con valorizzazioni patrimoniali di notevole consistenza (Torino, Milano, Bologna, le Regioni Puglia e Sardegna, ecc.)». L’irragionevolezza della norma sarebbe anche nel fatto di trattare in modo uguale fattispecie significativamente diverse e di non aver scaglionato nel tempo il ricorso al mercato. Oltre a ciò, la disposizione irragionevolmente realizza una sanatoria ex lege di affidamenti illegittimi, «lesivi della concorrenza che la stessa legge qui impugnata proclama di voler riaffermare, anche di quelli più eclatanti in difetto di ogni evidenza pubblica, ivi compresi quelli già oggetto di una sentenza di annullamento non ancora passata in giudicato, persino ove sia stata incidentalmente contornata da una pronuncia in tal senso della Corte di Giustizia delle Comunità Europee». Si tratterebbe cioè di una norma che si pone in contraddizione con i primi commi dello stesso art. 23-bis, i quali realizzano un indirizzo politico ispirato alla “ultra concorrenzialità”.

11.1.3.2. – Per la Regione, la stessa disposizione viola altresì gli artt. 5, 114, 117, secondo e sesto comma, 118, Cost., «anche con riferimento all’art. 3, Cost.», i quali garantiscono l’autonomia costituzionale della Regione Piemonte e degli enti locali, perché – stabilendo la cessazione degli affidamenti rilasciati con procedure diverse dall’evidenza pubblica salvo quelli conformi ai vincoli ulteriori di istruttoria e motivazione previsti dalla nuova disciplina – «cancella d’un tratto la legittimità […] di tutte le gestioni di servizio pubblico in capo a società mista ove la gara per la scelta del socio privato – pure avvenuta con procedura conforme all’ordinamento europeo ed italiano – abbia avuto ad oggetto unicamente la partecipazione finanziaria, con acquisto di quote di capitale, eventualmente accompagnate da patti parasociali allegati ai bandi gara per l’individuazione di taluni amministratori in accordo con il socio pubblico, non importa ora se minoritario o prevalente». Ciò determina una lesione della competenza degli enti territoriali «sull’organizzazione degli stessi anche con riferimento ad enti strumentali […] o a partecipazioni di minoranza».

11.2. – Con separata istanza, la Regione Piemonte ha richiesto la riunione del procedimento con quello introdotto con il ricorso n. 77 del 2008.

11.3. – Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni proposte siano dichiarate inammissibili e, comunque, infondate, sulla base di argomentazioni analoghe a quelle svolte in relazione ai ricorsi n. 6, n. 10, n. 12, n. 13, n. 14 e n. 15 del 2010 (supra: punti 5.2., 6.2., 7.2., 8.2., 9.2. e 10.2.).

11.4. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza la Regione Piemonte ha sostanzialmente ribadito quanto già sostenuto nel ricorso, aggiungendo che, poiché la definizione della questione di costituzionalità dipende dall’interpretazione del diritto dell’Unione europea, appare possibile «ritenere che la Corte costituzionale – ove non accolga i motivi di ricorso […] – debba proporre la seguente questione pregiudiziale avanti la Corte di giustizia […]: “se sia conforme al diritto europeo – al principio di concorrenza ed al principio d’autonomia degli enti territoriali (art. 5 Trattato) – la norma dello Stato italiano che impone l’attribuzione a terzi come forma ordinaria e preferenziale d’affidamento dei servizi pubblici locali, e la norma che relega la rilevanza giuridica dell’in house providing ai soli casi d’eccezione tassativamente individuati dal legislatore statale stesso con una conseguente limitazione dei casi ammessi dalla giurisprudenza comunitaria”».

11.5. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, il Presidente del Consiglio dei ministri ha ribadito quanto affermato nell’atto di costituzione, svolgendo, inoltre, considerazione analoghe a quelle svolte in relazione al ricorso n. 77 del 2008 (supra: punto 3.4.).

12. – Con ricorso notificato il 20 marzo 2010 e depositato il 30 marzo successivo (r. ric. n. 51 del 2010), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato, tra l’altro, l’art. 1, comma 1, della legge della Regione Campania 21 gennaio 2010, n. 2 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione Campania - Legge finanziaria anno 2010), il quale prevede che «La regione Campania disciplina il servizio idrico integrato regionale come servizio privo di rilevanza economica. Nel rispetto dei principi di sussidiarietà, ragionevolezza e leale collaborazione e in assenza di intese con lo Stato in merito alle politiche relative alle società di distribuzione dell’acqua potabile, le aziende operative nella regione Campania devono avere la maggioranza assoluta dell’azionariato a partecipazione pubblica. Tutte le forme attualmente in essere di gestione del servizio idrico con società miste o interamente private decadono a far data dalle scadenze dei contratti di servizio in essere. I proventi ricavati dalla utilizzazione del demanio idrico sono destinati al finanziamento degli interventi della risorsa idrica e dell’assetto idraulico ed idrogeologico sulla base delle linee programmatiche di bacino. Tali proventi sono iscritti dal corrente esercizio finanziario all’Unità previsionale di base (UPB) 11.81.80 della entrata e destinati al finanziamento delle spese iscritte alla UPB 1.1.1. “Difesa Suolo” concernenti i lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria del reticolo idrografico regionale».

12.1. – Il ricorrente sostiene che il servizio idrico integrato, al quale la disposizione in questione fa riferimento, è disciplinato da norme statali, nell’esercizio della competenza legislativa esclusiva di cui all’art. 117, secondo comma, Cost., in vari ambiti, quali: funzioni fondamentali degli enti locali, concorrenza, tutela dell’ambiente, determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni.
In particolare, l’Avvocatura generale dello Stato sottolinea che, nel disciplinare tale servizio, l’art. 141, comma 2, del d.lgs. n. 152 del 2006 afferma chiaramente la sua rilevanza economica, laddove dispone che lo stesso «deve essere gestito secondo principi di efficienza, efficacia ed economicità». Un ulteriore indice di tale rilevanza potrebbe essere individuato nell’art. 154, comma 1, dello stesso d.lgs. n. 152 del 2006, che, nel disciplinare la tariffa del servizio idrico integrato, la qualifica come «corrispettivo» in tutte le quote che la compongono e stabilisce che essa è determinata, tenendo conto, tra l’altro, «dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito». La rilevanza economica del servizio sarebbe, inoltre, confermata sia dall’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, che, nel disciplinare l’affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, precisa che detta disciplina si applica a tutti i servizi pubblici locali, sia dall’art. 113 del d.lgs. n. 267 del 2000, che vi faceva riferimento nel disciplinare proprio la «gestione delle reti ed erogazione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica».

12.1.1. – La difesa dello Stato lamenta, in primo luogo, che la norma regionale censurata, disponendo che la Regione disciplina il servizio predetto «come servizio privo di rilevanza economica», si pone in contrasto con tali disposizioni di legge e, di conseguenza, con l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.
In particolare – per il ricorrente – al servizio idrico integrato deve comunque attribuirsi rilevanza economica, perché esso si sostanzia in attività suscettibili, in astratto o in potenza, di essere gestite in forma remunerativa, e perciò di produrre redditività, e per le quali esiste un mercato concorrenziale. Ne consegue che la disposizione censurata viola anche l’art. 117, primo comma, Cost., perché si pone in contrasto con i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario, come interpretato dalla Corte di giustizia UE.
Inoltre la previsione in esame sarebbe comunque inidonea a sottrarre la disciplina del servizio idrico integrato alla competenza esclusiva del legislatore statale, perché essa, «nel prevedere l’affidamento del servizio ad aziende con azionariato con partecipazione pubblica a maggioranza assoluta, postula, evidentemente, l’esercizio dell’attività in questione nella forma della società commerciale e, comunque, anche la presenza di capitali ed investitori privati, la cui partecipazione implica necessariamente che, in concreto, l’attività in questione sia svolta in forma remunerativa».

12.1.2. – In secondo luogo, la difesa dello Stato lamenta che il secondo periodo del comma denunciato – prevedendo che «in merito alle politiche relative alle società di distribuzione dell’acqua potabile, le aziende operative nella regione Campania devono avere la maggioranza assoluta dell’azionariato a partecipazione pubblica» – contrasta con l’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, perché disciplina in modo del tutto difforme le forme giuridiche dei soggetti cui affidare il servizio ed il termine di decadenza degli affidamenti in essere.
La norma censurata, infatti, porrebbe alle aziende che intendano «operare» nella Regione un vincolo di assetto proprietario definito, incidendo, in tal modo, sulle procedure di affidamento, poiché vieta alle società prive della maggioranza assoluta dell’azionariato pubblico di ottenere l’affidamento del servizio. L’art. 23-bis, comma 2, del d.l. n. 112 del 2008 prevede, sul punto, che il conferimento della gestione dei servizi pubblici locali avviene, in via ordinaria a società miste nelle quali al socio privato sia attribuita una partecipazione non inferiore al 40 per cento, postulando, così, anche la possibilità «che la partecipazione privata si attesti su percentuali superiori, in coerenza con obiettivi di mercato pro concorrenziali, nonché con obiettivi di efficienza finalizzati anche alla salvaguardia dell’ambiente, che i vincoli posti dalla norma regionale pregiudicano non poco».

12.1.3. – In terzo luogo, il ricorrente lamenta che il terzo periodo del denunciato comma 1 dell’art. 1 – nel disporre che «tutte le forme attualmente in essere di gestione del servizio idrico con società miste o interamente private decadono a far data dalle scadenze dei contratti di servizio in essere» – si pone in contrasto con il comma 8 dell’art. 23-bis, che prevede una più complessa, articolata e restrittiva disciplina del regime transitorio.

12.2. – Si è costituita in giudizio la Regione Campania, chiedendo che le questioni proposte siano dichiarate infondate.
Ad avviso della resistente, la stessa normativa statale richiamata nel ricorso non esclude affatto che il legislatore regionale possa conformare il servizio idrico come privo di rilevanza economica: anzi, l’art. 150, comma 3, del d.lgs. n. 152 del 2006 e l’art. 23-bis, comma 3, del d.l. n. 112 del 2008 consentono entrambi che, per esigenze sociali, ambientali o di altro tipo, si possa derogare al regime della concorrenza per la gestione del servizio. Sulla stessa linea si collocherebbe il diritto comunitario, il quale tende a considerare l’acqua come un bene comune e la sua gestione come un’attività che deve necessariamente tenere conto della particolare rilevanza pubblicistica di tale bene.

12.3. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, il Presidente del Consiglio dei ministri ha ribadito, nel merito, quanto già affermato nel ricorso e ha eccepito l’inammissibilità della costituzione in giudizio della Regione Campania. Sostiene il ricorrente che detta costituzione è stata deliberata da un organo privo della relativa competenza, essendo stata adottata con decreto dirigenziale dell’avvocato coordinatore, su proposta del dirigente del settore contenzioso amministrativo e tributario e non – come richiesto dall’art. 32, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e dall’art. 15 della legge regionale 28 maggio 2009, n. 6 (Statuto della Regione Campania), e ribadito dall’ordinanza della Corte costituzionale letta all’udienza del 25 maggio 2010 e relativa al giudizio deciso con la sentenza n. 225 del 2010 – dalla Giunta regionale.

12.4. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, la Regione Campania ha sostanzialmente ribadito, nel merito, quanto già sostenuto nell’atto di costituzione.

Considerato in diritto

1. – Le questioni sottoposte all’esame della Corte con i ricorsi indicati in epigrafe sono state promosse dalle Regioni Emilia-Romagna (registro ricorsi n. 69 del 2008 e n. 13 del 2010), Liguria (registro ricorsi n. 72 del 2008 e n. 12 del 2010), Piemonte (registro ricorsi n. 77 del 2008 e 16 del 2010), Puglia (registro ricorsi n. 6 del 2010), Toscana (registro ricorsi n. 10 del 2010), Umbria (registro ricorsi n. 14 del 2010), Marche (registro ricorsi n. 15 del 2010), nonché dal Presidente del Consiglio dei ministri (registro ricorsi n. 2 del 2009 e n. 51 del 2010).

1.1. – Le disposizioni censurate dalle Regioni possono essere suddivise in tre gruppi: a) un primo gruppo, relativo al testo originario (e non più vigente) dell’art. 23-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria) – articolo aggiunto dalla legge di conversione 6 agosto 2008, n. 133, ed entrato in vigore, in forza dell’art. 1, comma 4, di detta legge, in data 22 agosto 2008 – comprende i commi 1, 2, 3, 4, 7, 8 e 10 di tale articolo (ricorso n. 69 del 2008, Emilia-Romagna; ricorso n. 72 del 2008, Liguria; ricorso n. 77 del 2008, Piemonte); b) un secondo gruppo, relativo al testo vigente dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 – articolo aggiunto dalla legge di conversione n. 133 del 2008, e modificato del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135 (Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della corte di giustizia delle Comunità europee), convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 2009, n. 166, entrato in vigore il 26 settembre 2009 e, per le parti modificate, il 25 novembre 2009 – comprende i commi 2, 3, 4, 4-bis, 8, 9 e 10, di tale articolo (ricorso n. 6 del 2010, Puglia; ricorso n. 10 del 2010, Toscana; ricorso n. 12 del 2010, Liguria; ricorso n. 13 del 2010, Emilia-Romagna; ricorso n. 14 del 2010, Umbria; ricorso n. 15 del 2010, Marche; ricorso n. 16 del 2010, Piemonte); c) un terzo gruppo comprende il solo comma 1-ter dell’art. 15 del citato decreto-legge n. 135 del 2009, comma entrato in vigore in data 26 settembre 2009, in forza dell’art. 21 del medesimo decreto-legge (ricorso n. 15 del 2010, Marche).
Tali gruppi di disposizioni introducono novità normative rilevanti nella disciplina delle modalità di affidamento dei servizi pubblici locali (SPL) e del diritto transitorio degli affidamenti già in corso.
In particolare, si prevede che:

a) l’affidamento del SPL in via ordinaria, mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, riguarda non solo le società di capitali – come nella previgente normativa – ma, più in generale, gli «imprenditori o […] società in qualunque forma costituite» (comma 2 del testo originario e del testo vigente dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008);
b) l’affidamento diretto – cioè senza gara ad evidenza pubblica – della gestione del SPL a società miste il cui socio privato sia scelto mediante procedure competitive ad evidenza pubblica costituisce un caso di conferimento della gestione «in via ordinaria», alla duplice condizione che la procedura di gara riguardi non solo la qualità di socio, ma anche l’attribuzione di «specifici compiti operativi connessi alla gestione del servizio» e che al socio privato sia attribuita una partecipazione non inferiore al 40% (comma 2 del testo attualmente vigente dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008);
c) l’affidamento diretto «in deroga» ai conferimenti effettuati in via ordinaria richiede una previa «pubblicità adeguata» e una motivazione di detta scelta da parte dell’ente in base ad un’«analisi di mercato», oltre alla trasmissione di una «relazione» dall’ente affidante alle autorità di settore, ove costituite (testo originario dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008), ovvero all’Autorità garante della concorrenza e del mercato – AGCM (testo vigente dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008), per un parere obbligatorio ma non vincolante, che deve essere reso entro 60 giorni dalla ricezione;
d) l’affidamento diretto deve – ai sensi dei commi 3 e 4 del testo originario dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 – «avvenire nel rispetto dei princìpi della disciplina comunitaria», con l’ulteriore presupposto che sussistano «situazioni che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace ed utile ricorso al mercato»;
e) lo stesso affidamento deve, invece, avvenire – ai sensi dei commi 3 e 4 del testo attualmente vigente del medesimo art. 23-bis – con le forme della gestione in house, nel rispetto delle condizioni richieste dal diritto comunitario, previo parere della sola AGCM, con l’ulteriore presupposto della sussistenza di «situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace ed utile ricorso al mercato»;
f) i bacini di gara per i diversi servizi sono definiti, nel rispetto delle normative settoriali, dalle Regioni e dagli enti locali d’intesa con la Conferenza unificata di cui all’art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281 (comma 7 dell’art. 23-bis, sia nella versione originaria che in quella vigente);
g) è abrogato, nelle parti incompatibili con la nuova disciplina, l’art. 113 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico sugli enti locali), in seguito indicato come TUEL, concernente l’affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica (comma 11 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, sia nella versione originaria che in quella vigente);
h) il Governo ha il potere di adottare regolamenti di delegificazione sia nelle materie di cui al comma 10 dell’art. 23-bis (come disposto nella versione originaria ed in quella vigente dell’art. 23-bis), sia per la determinazione delle soglie minime oltre le quali gli affidamenti «assumono rilevanza ai fini dell’espressione del parere» dell’AGCM (come disposto dal comma 4-bis nella versione vigente dell’art. 23-bis);
i) gli affidamenti diretti già in essere al momento dell’entrata in vigore della nuova normativa cessano al 31 dicembre 2010 (versione originaria del comma 8 dell’art. 23-bis) o in date successive, a partire dal 31 dicembre 2011, a seconda delle diverse tipologie degli affidamenti stessi (versione vigente del comma 8 dell’art. 23-bis);
l) «Tutte le forme di affidamento della gestione del servizio idrico integrato di cui all’articolo 23-bis del citato decreto-legge n. 112 del 2008 […] devono avvenire nel rispetto dei princìpi di autonomia gestionale del soggetto gestore e di piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche, il cui governo spetta esclusivamente alle istituzioni pubbliche, in particolare in ordine alla qualità e prezzo del servizio, in conformità a quanto previsto dal decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, garantendo il diritto alla universalità ed accessibilità del servizio» (comma 1-ter, dell’art. 15 del decreto-legge n. 135 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 166 del 2009).

1.2. – Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato, a sua volta, due gruppi di disposizioni di leggi regionali.

1.2.1. – Il primo gruppo di disposizioni censurate (ricorso n. 2 del 2009) è costituito dai commi 1, 4, 5, 6 e 14 dell’art. 4 della legge della Regione Liguria 28 ottobre 2008, n. 39 (Istituzione della Autorità d’Ambito per l’esercizio delle funzioni degli enti locali in materia di risorse idriche e gestione dei rifiuti ai sensi del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 – Norme in materia ambientale). Detti commi stabiliscono:

a) la competenza della Giunta regionale ad approvare lo schema-tipo di contratto di servizio e di convenzione per il servizio idrico integrato (comma 1);
b) la competenza dell’Autorità d’ambito a provvedere all’affidamento del servizio idrico integrato, «nel rispetto dei criteri di cui all’articolo 113, comma 7, del d.lgs. 267/2000 e delle modalità di cui agli articoli 150 e 172 del d.lgs.152/2006» (comma 4);
c) la cessazione delle concessioni esistenti e il relativo regime transitorio degli affidamenti del servizio idrico integrato effettuati senza gara, attraverso il rinvio alle disposizioni di cui all’art. 113, comma 15-bis, TUEL (commi 5 e 6);
d) la competenza delle Autorità d’ambito territoriale ottimale a definire i contratti di servizio, gli obiettivi qualitativi dei servizi erogati, il monitoraggio delle prestazioni, gli aspetti tariffari, la partecipazione dei cittadini e delle associazioni dei consumatori (comma 14).

1.2.2. – Il secondo gruppo di disposizioni censurate dallo Stato (ricorso n. 51 del 2010) è costituito dal comma 1 dell’art. 1 della legge della Regione Campania 21 gennaio 2010, n. 2 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione Campania – Legge finanziaria anno 2010), il quale stabilisce la competenza della medesima Regione a disciplinare il servizio idrico integrato regionale come servizio privo di rilevanza economica ed a stabilire autonomamente sia le forme giuridiche dei soggetti cui affidare il servizio sia il termine di decadenza degli affidamenti in essere.

2. – Le Regioni hanno promosso questioni in riferimento agli artt. 3, 5, 41, 97, 114, 117, primo, secondo, terzo, quarto, sesto comma, 118 e 119, sesto comma, e 120 della Costituzione. Ad integrazione del parametro costituito dal primo comma dell’art. 117 Cost., alcune Regioni, hanno evocato quali norme interposte:

a) la Carta europea dell’autonomia locale (in specie gli artt. 3, comma 1, 4, commi 2 e 4), firmata, nell’ambito del Consiglio d’Europa, a Strasburgo il 15 ottobre 1985, e ratificata dalla legge 30 dicembre 1989, n. 439 (Ratifica ed esecuzione della convenzione europea relativa alla Carta europea dell’autonomia locale, firmata a Strasburgo il 15 ottobre 1985);
b) il «diritto comunitario»;
c) i «princìpi del diritto comunitario di libertà degli individui e di autonomia degli enti territoriali»;
d) gli artt. 14 e 106 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE).

In base alle prospettazioni delle ricorrenti, tali questioni possono essere distinte nei sette seguenti nuclei tematici, per i primi quattro dei quali, in considerazione della loro incidenza sull’intero tessuto normativo censurato, è opportuna una trattazione generale e preliminare. Le conclusioni cui si perverrà all’esito di tale trattazione costituiranno la base della decisione delle singole questioni, che saranno in séguito esaminate analiticamente.
Il primo nucleo tematico attiene alla ricostruzione del rapporto tra la disciplina dei SPL ricavabile dall’ordinamento dell’Unione europea e dalla Carta europea dell’autonomia locale e quella dettata con le disposizioni censurate. Tale ricostruzione è necessaria al fine di valutare le opposte prospettazioni delle parti, secondo le quali le particolari – e più restrittive rispetto alla legislazione italiana anteriore – condizioni fissate dal censurato comma 3 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 (sia nella versione originaria che in quella vigente) per l’affidamento in house dei servizi pubblici locali, costituirebbero una obbligatoria applicazione (secondo la difesa dello Stato) oppure una violazione (secondo le ricorrenti) del diritto dell’Unione.
Il secondo nucleo tematico attiene all’individuazione della sfera di competenza in cui, secondo la Costituzione, si colloca la normativa denunciata: se – come afferma lo Stato – nell’ambito costituzionale della tutela della concorrenza, o di altra competenza esclusiva statale, oppure – come afferma la maggioranza delle ricorrenti – nell’ambito della materia dei servizi pubblici locali, di competenza regionale residuale; o ancora, come afferma la Regione Marche, nell’ambito della potestà regolamentare degli enti locali di cui all’art. 117, sesto comma, Cost.; o infine, come afferma la Regione Puglia, nell’ambito della competenza regionale concorrente in materia di tutela della salute e alimentazione.
Il terzo nucleo tematico – nel caso in cui si ritenesse sussistere la competenza esclusiva statale per la tutela della concorrenza – attiene alla valutazione della censura secondo cui la normativa denunciata violerebbe il principio di ragionevolezza, sotto il profilo della proporzionalità ed adeguatezza, e, per l’effetto, lederebbe la sfera di competenza legislativa o regolamentare riservata alle Regioni a statuto ordinario.
Il quarto nucleo tematico attiene alla individuazione della competenza regionale o statale nella determinazione della rilevanza economica dei SPL, cioè del presupposto stesso per l’applicazione della normativa relativa a tali servizi. Tale problema, nella prospettiva della ricorrente Regione Marche, si pone anche nel caso in cui si ritenga che la suddetta normativa sia riconducibile alla materia della tutela della concorrenza e sia proporzionata ed adeguata.
Il quinto nucleo tematico ha per oggetto la violazione degli artt. 3 e 97 Cost., sotto il profilo dell’obbligo di motivazione degli atti amministrativi, in relazione a quanto stabilito dal censurato art. 23-bis del d.l n. 112 del 2008, interpretato nel senso che la scelta dell’ente locale di procedere all’affidamento «in via ordinaria» dei SPL non è onerata di obblighi motivazionali analoghi a quelli previsti per l’affidamento «in deroga» (vale a dire, per l’affidamento in house).
Il sesto nucleo tematico riguarda l’asserita irragionevole diversità di disciplina fra il servizio idrico integrato e gli altri servizi pubblici locali.
Il settimo nucleo tematico attiene alla lamentata violazione dell’autonomia finanziaria delle Regioni e degli enti locali.

3. – Il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questioni in riferimento agli artt. 117, primo e secondo comma, lettere e) ed s), Cost. e alle seguenti norme interposte: a) per le questioni riguardanti la legge della Regione Liguria n. 39 del 2008, l’art. 161, comma 4, lettera c), del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), nonché l’art. 23-bis, commi 2, 3, 8, 9 e 11, del decreto-legge n. 112 del 2008; b) per le questioni riguardanti la legge della Regione Campania n. 2 del 2010, gli artt. 141 e 154 del d.lgs. n. 152 del 2006, l’art. 23-bis, commi 2, 3, 8, 9 e 11, del decreto-legge n. 112 del 2008, il decreto-legge n. 135 del 2009, nonché l’art. 113 del TUEL.
Tali questioni hanno per oggetto:

a) l’individuazione della sfera di competenza in cui, secondo la Costituzione, si colloca la normativa regionale denunciata: se – come afferma lo Stato – nell’ambito costituzionale della tutela della concorrenza o tutela dell’ambiente oppure – come affermano le Regioni resistenti – della materia dei servizi pubblici locali (di competenza regionale residuale);
b) la valutazione della sussistenza del denunciato contrasto tra la normativa regionale e le evocate norme interposte statali.

4. – Le predette questioni di legittimità costituzionale, là dove promosse nell’ambito di uno stesso ricorso unitamente ad altre, devono essere trattate separatamente da queste ultime, essendo opportuno procedere ad un esame distinto. I giudizi, così separati e delimitati nell’oggetto, devono quindi tra loro riunirsi, per essere congiuntamente trattati e decisi, in considerazione della parziale identità di materia delle norme censurate e delle questioni prospettate.

5. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, la difesa dello Stato ha eccepito l’inammissibilità della costituzione della Regione Campania nel giudizio relativo al ricorso n. 51 del 2010. Sostiene il ricorrente che detta costituzione è stata deliberata da un organo privo della relativa competenza, essendo stata adottata con decreto dirigenziale dell’avvocato coordinatore, su proposta del dirigente del settore contenzioso amministrativo e tributario e non dalla Giunta regionale.
L’eccezione è stata accolta da questa Corte con ordinanza pronunciata all’udienza del 5 ottobre 2010, sul rilievo che, a norma dell’art. 32, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, «La questione di legittimità costituzionale, previa deliberazione della Giunta regionale […], è promossa dal Presidente della Giunta» e, in tale competenza ad autorizzare la promozione dei giudizi di costituzionalità, deve ritenersi compresa anche la deliberazione di costituirsi in tali giudizi, data la natura politica della valutazione che i due atti richiedono (nello stesso senso, l’ordinanza letta all’udienza del 25 maggio 2010 e relativa al giudizio deciso con la sentenza n. 225 del 2010).

6. – Il primo dei sopra indicati nuclei tematici attiene – come si è visto – al rapporto tra le disposizioni censurate e la disciplina dei SPL desumibile dall’ordinamento dell’Unione europea e dalla Carta europea dell’autonomia locale. Secondo alcune ricorrenti, le suddette disposizioni, ponendosi in contrasto con la normativa comunitaria ed internazionale, violano il primo comma dell’art. 117 Cost., là dove questo vincola la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni al rispetto dell’ordinamento comunitario e degli obblighi internazionali. Secondo la difesa dello Stato, invece, la stessa formulazione del comma 1 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 («le disposizioni del presente articolo disciplinano l’affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, in applicazione della disciplina comunitaria […]») evidenzia che le disposizioni oggetto di censura, in particolare quelle relative all’affidamento in house dei servizi pubblici locali, costituiscono un’obbligatoria applicazione del diritto dell’Unione e non contrastano con la citata Carta europea dell’autonomia locale.
Nessuna di tali due opposte prospettazioni è condivisibile, perché le disposizioni censurate dalle ricorrenti non costituiscono né una violazione né un’applicazione necessitata della richiamata normativa comunitaria ed internazionale, ma sono semplicemente con questa compatibili, integrando una delle diverse discipline possibili della materia che il legislatore avrebbe potuto legittimamente adottare senza violare l’evocato primo comma dell’art. 117 Cost. Tale conclusione va argomentata procedendo al raffronto delle disposizioni censurate sia con la normativa comunitaria che con quella internazionale evocate a parametro interposto.

6.1. – In ambito comunitario non viene mai utilizzata l’espressione «servizio pubblico locale di rilevanza economica», ma solo quella di «servizio di interesse economico generale» (SIEG), rinvenibile, in particolare, negli artt. 14 e 106 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE). Detti articoli non fissano le condizioni di uso di tale ultima espressione, ma, in base alle interpretazioni elaborate al riguardo dalla giurisprudenza comunitaria (ex multis, Corte di giustizia UE, 18 giugno 1998, C-35/96, Commissione c. Italia) e dalla Commissione europea (in specie, nelle Comunicazioni in tema di servizi di interesse generale in Europa del 26 settembre 1996 e del 19 gennaio 2001; nonché nel Libro verde su tali servizi del 21 maggio 2003), emerge con chiarezza che la nozione comunitaria di SIEG, ove limitata all’ambito locale, e quella interna di SPL di rilevanza economica hanno «contenuto omologo», come riconosciuto da questa Corte con la sentenza n. 272 del 2004. Lo stesso denunciato comma 1 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 – nel dichiarato intento di disciplinare i «servizi pubblici locali di rilevanza economica» per favorire la più ampia diffusione dei princìpi di concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di tutti «gli operatori economici interessati alla gestione di servizi pubblici di interesse generale in ambito locale» – conferma tale interpretazione, attribuendo espressamente ai SPL di rilevanza economica un significato corrispondente a quello di «servizi di interesse generale in ambito locale» di rilevanza economica, di evidente derivazione comunitaria.
Entrambe le suddette nozioni, interna e comunitaria, fanno riferimento infatti ad un servizio che: a) è reso mediante un’attività economica (in forma di impresa pubblica o privata), intesa in senso ampio, come «qualsiasi attività che consista nell’offrire beni o servizi su un determinato mercato» (come si esprimono sia la citata sentenza della Corte di giustizia UE, 18 giugno 1998, C-35/96, Commissione c. Italia, sia le sentenze della stessa Corte 10 gennaio 2006, C-222/04, Ministero dell’economia e delle finanze, e 16 marzo 2004, cause riunite C-264/01, C-306/01, C-354/01 e C-355/01, AOK Bundesverband, nonché il Libro verde sui servizi di interesse generale del 21 maggio 2003, al paragrafo 2.3, punto 44); b) fornisce prestazioni considerate necessarie (dirette, cioè, a realizzare anche “fini sociali”) nei confronti di una indifferenziata generalità di cittadini, a prescindere dalle loro particolari condizioni (Corte di giustizia UE, 21 settembre 1999, C-67/96, Albany International BV). Le due nozioni, inoltre, assolvono l’identica funzione di identificare i servizi la cui gestione deve avvenire di regola, al fine di tutelare la concorrenza, mediante affidamento a terzi secondo procedure competitive ad evidenza pubblica.
Per quanto qui interessa, la disciplina comunitaria del SIEG e quella censurata del SPL divergono, invece, in ordine all’individuazione delle eccezioni alla suddetta regola. Occorre pertanto accertare se le differenze tra le due discipline siano tali da far venir meno, come sostengono le Regioni ricorrenti, la loro compatibilità. Tale accertamento, come si vedrà in seguito, avrà esito negativo.
Una prima differenza è rappresentata dalla gestione diretta del SPL da parte dell’autorità pubblica. La normativa comunitaria la ammette nel caso in cui lo Stato nazionale ritenga che l’applicazione delle regole di concorrenza (e, quindi, anche della regola della necessità dell’affidamento a terzi mediante una gara ad evidenza pubblica) ostacoli, in diritto od in fatto, la «speciale missione» dell’ente pubblico (art. 106 TFUE; ex plurimis, sentenze della Corte di giustizia UEE 11 gennaio 2005, C-26/03, Stadt Halle, punti 48 e 49, e 10 settembre 2009, C-573/07, Sea s.r.l.). In tale ipotesi l’ordinamento comunitario, rispettoso dell’ampia sfera discrezionale attribuita in proposito agli Stati membri, si riserva solo di sindacare se la decisione dello Stato sia frutto di un “errore manifesto”. La censurata disciplina nazionale, invece, rappresenta uno sviluppo del diverso principio generale costituito dal divieto della gestione diretta del SPL da parte dell’ente locale; divieto introdotto dai non censurati art. 35 della legge 28 dicembre 2001, n. 448 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2002) e art. 14 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326. Da quanto precede, è dunque evidente che:

a) la normativa comunitaria consente, ma non impone, agli Stati membri di prevedere, in via di eccezione e per alcuni casi determinati, la gestione diretta del servizio pubblico da parte dell’ente locale;
b) lo Stato italiano, facendo uso della sfera di discrezionalità attribuitagli dall’ordinamento comunitario al riguardo, ha effettuato la sua scelta nel senso di vietare di regola la gestione diretta dei SPL ed ha, perciò, emanato una normativa che pone tale divieto.

Una seconda differenza riguarda l’affidamento della gestione del servizio alle società miste, cioè con capitale in parte pubblico ed in parte privato (cosiddetto PPP, partenariato pubblico e privato). La normativa comunitaria consente l’affidamento diretto del servizio (cioè senza una gara ad evidenza pubblica per la scelta dell’affidatario) alle società miste nelle quali si sia svolta una gara ad evidenza pubblica per la scelta del socio privato e richiede sostanzialmente che tale socio sia un socio «industriale» e non meramente «finanziario» (in tal senso, in particolare, il Libro verde della Commissione del 30 aprile 2004), senza espressamente richiedere alcun limite, minimo o massimo, della partecipazione del socio privato. Il testo originario dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 non prevede una disciplina specifica per tale tipo di affidamento e dà per scontato che la suddetta modalità di scelta del socio rientri nella regola comunitaria dell’affidamento mediante gara ad evidenza pubblica, restando irrilevante che tale gara abbia ad oggetto la scelta del socio privato invece dell’affidatario. La disciplina interna e quella comunitaria sul punto sono, dunque, identiche. Anche il testo vigente dello stesso art. 23-bis è conforme alla normativa comunitaria, nella parte in cui consente l’affidamento diretto della gestione del servizio, «in via ordinaria», ad una società mista, alla doppia condizione che la scelta del socio privato «avvenga mediante procedure competitive ad evidenza pubblica» e che a tale socio siano attribuiti «specifici compiti operativi connessi alla gestione del servizio» (cosiddetta gara ad evidenza pubblica a doppio oggetto: scelta del socio e attribuzione degli specifici compiti operativi). La stessa nuova formulazione dell’art. 23-bis si discosta, però, dal diritto comunitario nella parte in cui pone l’ulteriore condizione, al fine del suddetto affidamento diretto, che al socio privato sia attribuita «una partecipazione non inferiore al 40 per cento». Tale misura minima della partecipazione (non richiesta dal diritto comunitario, come sopra ricordato, ma neppure vietata) si risolve in una restrizione dei casi eccezionali di affidamento diretto del servizio e, quindi, la sua previsione perviene al risultato di far espandere i casi in cui deve essere applicata la regola generale comunitaria di affidamento a terzi mediante gara ad evidenza pubblica. Ne consegue, anche in questo caso, la piena compatibilità della normativa interna con quella comunitaria.
Una terza differenza attiene alle ipotesi di affidamento diretto del servizio «in deroga» alle ipotesi di affidamento in via ordinaria (versione originaria dell’art. 23-bis), che si identificano nella gestione denominata in house (come chiarito dalla versione vigente dello stesso art. 23-bis). Secondo la normativa comunitaria, le condizioni integranti tale tipo di gestione ed alle quali è subordinata la possibilità del suo affidamento diretto (capitale totalmente pubblico; controllo esercitato dall’aggiudicante sull’affidatario di «contenuto analogo» a quello esercitato dall’aggiudicante stesso sui propri uffici; svolgimento della parte più importante dell’attività dell’affidatario in favore dell’aggiudicante) debbono essere interpretate restrittivamente, costituendo l’in house providing un’eccezione rispetto alla regola generale dell’affidamento a terzi mediante gara ad evidenza pubblica. Tale eccezione viene giustificata dal diritto comunitario con il rilievo che la sussistenza delle suddette condizioni esclude che l’in house contract configuri, nella sostanza, un rapporto contrattuale intersoggettivo tra aggiudicante ed affidatario, perché quest’ultimo è, in realtà, solo la longa manus del primo. Nondimeno, la giurisprudenza comunitaria non pone ulteriori requisiti per procedere a tale tipo di affidamento diretto, ma si limita a chiarire via via la concreta portata delle suddette tre condizioni. Viceversa, il legislatore nazionale, nella versione vigente dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, non soltanto richiede espressamente, per l’affidamento diretto in house, la sussistenza delle suddette tre condizioni poste dal diritto comunitario, ma esige il concorso delle seguenti ulteriori condizioni:

a) una previa «pubblicità adeguata» e una motivazione della scelta di tale tipo di affidamento da parte dell’ente in base ad un’«analisi di mercato», con successiva trasmissione di una «relazione» dall’ente affidante alle autorità di settore, ove costituite (testo originario dell’art. 23-bis), ovvero all’AGCM (testo vigente dell’art. 23-bis), per un parere preventivo e obbligatorio, ma non vincolante, che deve essere reso entro 60 giorni dalla ricezione;
b) la sussistenza di «situazioni che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento» (commi 3 e 4 del testo originario dell’art. 23-bis), ovvero di «situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento» (commi 3 e 4 del testo vigente del medesimo art. 23-bis), «non permettono un efficace ed utile ricorso al mercato». Siffatte ulteriori condizioni, sulle quali si appuntano particolarmente le censure delle ricorrenti, si risolvono in una restrizione delle ipotesi in cui è consentito il ricorso alla gestione in house del servizio e, quindi, della possibilità di derogare alla regola comunitaria concorrenziale dell’affidamento del servizio stesso mediante gara pubblica. Ciò comporta, evidentemente, un’applicazione più estesa di detta regola comunitaria, quale conseguenza di una precisa scelta del legislatore italiano. Tale scelta, proprio perché reca una disciplina pro concorrenziale più rigorosa rispetto a quanto richiesto dal diritto comunitario, non è da questo imposta – e, dunque, non è costituzionalmente obbligata, ai sensi del primo comma dell’art. 117 Cost., come sostenuto dallo Stato –, ma neppure si pone in contrasto – come sostenuto, all’opposto, dalle ricorrenti – con la citata normativa comunitaria, che, in quanto diretta a favorire l’assetto concorrenziale del mercato, costituisce solo un minimo inderogabile per gli Stati membri. È infatti innegabile l’esistenza di un “margine di apprezzamento” del legislatore nazionale rispetto a princìpi di tutela, minimi ed indefettibili, stabiliti dall’ordinamento comunitario con riguardo ad un valore ritenuto meritevole di specifica protezione, quale la tutela della concorrenza “nel” mercato e “per” il mercato. Ne deriva, in particolare, che al legislatore italiano non è vietato adottare una disciplina che preveda regole concorrenziali – come sono quelle in tema di gara ad evidenza pubblica per l’affidamento di servizi pubblici – di applicazione più ampia rispetto a quella richiesta dal diritto comunitario. L’identità del “verso” delle discipline interna e comunitaria esclude, pertanto, ogni contrasto od incompatibilità anche per quanto riguarda la indicata terza differenza.

6.2. – Per quanto attiene alla dedotta violazione della Carta europea dell’autonomia locale di cui alla legge n. 439 del 1989, alcune ricorrenti deducono che le disposizioni censurate si pongono in contrasto con i seguenti articoli della Carta:

a) art. 3, comma 1, secondo cui, «per autonomia locale, s’intende il diritto e la capacità effettiva, per le collettività locali, di regolamentare ed amministrare nell’ambito della legge, sotto la loro responsabilità, e a favore delle popolazioni, una parte importante di affari pubblici»;
b) art. 4, comma 2, secondo cui «le collettività locali hanno, nell’ambito della legge, ogni più ampia facoltà di prendere iniziative proprie per qualsiasi questione che non esuli dalla loro competenza o sia assegnata ad un’altra autorità»;
c) art. 4, comma 4, secondo cui «le competenze affidate alle collettività locali devono di regola essere complete ed integrali» e «possono essere messe in causa o limitate da un’altra autorità, centrale o regionale, solamente nell’ambito della legge». La violazione della suddetta convenzione internazionale deriverebbe, secondo la prospettazione delle ricorrenti, dalla lesione dell’autonomia dell’ente pubblico garantita dal parametro evocato. Lesione, questa, che sarebbe determinata dall’introduzione di vincoli e specifici aggravi procedimentali in ordine alla scelta, da parte degli enti pubblici, di assumere essi stessi la gestione diretta del servizio idrico integrato, cioè di una delle funzioni fondamentali dei Comuni.

Il denunciato contrasto con detta Carta non sussiste per le seguenti ragioni.
Innanzitutto, va rilevato che − secondo quanto esposto supra al punto 6.1. − già l’art. 35 della legge n. 448 del 2001, nel sostituire l’art. 113 TUEL, aveva escluso per i servizi pubblici locali «di rilevanza industriale» (secondo la definizione dell’epoca; poi definiti «di rilevanza economica» per effetto dell’art. 14 del decreto-legge n. 269 del 2003, modificativo, appunto, dell’art. 113 TUEL) ogni gestione diretta, in economia oppure tramite aziende speciali, da parte dell’ente pubblico. Lo stesso art. 35, al comma 8, aveva altresì imposto alle aziende speciali esistenti di trasformarsi in società di capitali entro il 31 dicembre 2002. L’esclusione della gestione diretta non è dunque innovativamente disposta, ma solo mantenuta, dall’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, con la conseguenza che il denunciato contrasto con la Carta non è ipotizzabile rispetto alle norme censurate, ma solo, eventualmente, rispetto ai suddetti non censurati artt. 35 della legge n. 448 del 2001 e 14 del decreto-legge n. 269 del 2003.
In secondo luogo, va osservato che le ricorrenti prospettano la censura muovendo dal dichiarato presupposto che il servizio idrico costituisca una delle funzioni fondamentali dell’ente pubblico ed assumono che tali funzioni siano specificamente tutelate dalla Carta. Tuttavia, proprio tale presupposto è privo di fondamento, perché, come questa Corte ha più volte affermato, detto servizio non costituisce funzione fondamentale dell’ente locale (sentenze n. 307 del 2009 e n. 272 del 2004).
In terzo luogo, va evidenziato che gli evocati articoli della Carta europea dell’autonomia locale non hanno uno specifico contenuto precettivo, ma sono prevalentemente definitori (art. 3, comma 1), programmatici (art. 4, comma 2) e, comunque, generici (art. 4, comma 4). Inoltre, la stessa Carta, al comma 1 dell’evocato art. 4, afferma, con previsione di carattere generale, che «le competenze di base delle collettività locali sono stabilite dalla Costituzione o dalla legge», con ciò rinviando alla normativa nazionale la definizione del quadro generale delle competenze.

7. – Il secondo nucleo tematico delle questioni proposte attiene all’individuazione della sfera di competenza in cui, secondo la Costituzione, deve collocarsi la normativa denunciata. In particolare, questa Corte è chiamata a verificare se tale normativa rientra nell’ambito costituzionale della competenza esclusiva statale e, segnatamente, della tutela della concorrenza; o di quello della competenza regionale residuale e, segnatamente, della materia dei servizi pubblici locali; o, ancora, nell’ambito della potestà regolamentare degli enti locali di cui all’art. 117, sesto comma, Cost.; o, infine, se si tratti di un’ipotesi di concorso di competenze.
In proposito, va ribadito che – come questa Corte ha più volte affermato – la disciplina concernente le modalità dell’affidamento della gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica:

a) non è riferibile alla competenza legislativa statale in tema di «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali» (art. 117, secondo comma, lettera m, Cost.), perché riguarda, appunto, i servizi di rilevanza economica e non attiene, comunque, alla determinazione di livelli essenziali (sentenza n. 272 del 2004);
b) non può essere ascritta neppure all’ambito delle «funzioni fondamentali dei Comuni, delle Province e Città metropolitane» (art. 117, secondo comma, lettera p, Cost.), perché «la gestione dei predetti servizi non può certo considerarsi esplicazione di una funzione propria ed indefettibile dell’ente locale» (sentenza n. 272 del 2004) e, quindi, «non riguarda […] profili funzionali degli enti locali» (sentenza n. 307 del 2009, al punto 6.1.);
c) va ricondotta, invece, all’ambito della materia, di competenza legislativa esclusiva dello Stato, «tutela della concorrenza», prevista dall’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., tenuto conto degli aspetti strutturali e funzionali suoi propri e della sua diretta incidenza sul mercato (ex plurimis, sentenze n. 314, n. 307, n. 304 e n. 160 del 2009; n. 326 del 2008; n. 401 del 2007; n. 80 e n. 29 del 2006; n. 272 del 2004).

Di conseguenza, con riguardo alla concreta disciplina censurata, la competenza statale viene a prevalere sulle invocate competenze legislative regionali e regolamentari degli enti locali e, in particolare, su quella in materia di servizi pubblici locali, proprio perché l’oggetto e gli scopi che caratterizzano detta disciplina attengono in via primaria alla tutela e alla promozione della concorrenza (sentenze n. 142 del 2010, n. 246 e n. 148 del 2009, n. 411 e n. 322 del 2008).
Tali conclusioni risultano avvalorate dalla «nozione comunitaria di concorrenza», che si riflette su quella di cui all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., anche per il tramite del primo comma dello stesso art. 117 e dell’art. 11 Cost.; nozione richiamata anche dall’art. 1, comma 4, della legge 10 ottobre 1990, n. 287 (Norme per la tutela della concorrenza e del mercato). Secondo tale nozione, la concorrenza presuppone «la più ampia apertura al mercato a tutti gli operatori economici del settore in ossequio ai principi comunitari della libera circolazione delle merci, della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi» (sentenza n. 401 del 2007). Essa pertanto – come affermato in numerose pronunce di questa Corte (sentenze n. 270, n. 232 e n. 45 del 2010; n. 314 del 2009 e n. 148 del 2009; n. 63 del 2008; n. 430 e n. 401 del 2007; n. 272 del 2004) – può essere tutelata mediante tipi diversi di interventi regolatori, quali:

1) «misure legislative di tutela in senso proprio, che hanno ad oggetto gli atti ed i comportamenti delle imprese che influiscono negativamente sull’assetto concorrenziale dei mercati» (misure antitrust);
2) misure legislative di promozione, «che mirano ad aprire un mercato o a consolidarne l’apertura, eliminando barriere all’entrata, riducendo o eliminando vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese» (per lo più dirette a tutelare la concorrenza “nel” mercato);
3) misure legislative che perseguono il fine di assicurare procedure concorsuali di garanzia mediante la strutturazione di tali procedure in modo da realizzare «la più ampia apertura del mercato a tutti gli operatori economici» (dirette a tutelare la concorrenza “per” il mercato).

Nell’ambito di tali misure e, in particolare, di quelle al punto 3), rientra espressamente la previsione di procedure concorsuali competitive di evidenza pubblica volte – come quelle di specie – a garantire il rispetto, per un verso, dei princìpi di parità di trattamento, di non discriminazione, di proporzionalità e di trasparenza e, per l’altro, delle regole dell’efficacia e dell’efficienza dell’attività dei pubblici poteri, al fine di assicurare la piena attuazione degli interessi pubblici in relazione al bene o al servizio oggetto dell’aggiudicazione.
Anche tali rilievi, basati sul diritto comunitario, confermano pertanto che la disciplina delle modalità di affidamento della gestione dei servizi pubblici locali rientra nella materia «tutela della concorrenza» e che la concreta disciplina in esame prevale su altre competenze (sentenze n. 270 del 2010; n. 307 e n. 283 del 2009; n. 320 e n. 51 del 2008; n.430 e n. 401 del 2007; n. 272 del 2004).
Con riferimento, poi, allo specifico settore del servizio idrico integrato, questa Corte – in applicazione dei suddetti princìpi e scrutinando la disciplina della determinazione della tariffa d’ambito territoriale ottimale − ha stabilito che la normativa riguardante l’individuazione di un’unica Autorità d’ambito e alla determinazione della tariffa del servizio secondo un meccanismo di price cap (art. 148 del d.lgs. n. 152 del 2006) attiene all’esercizio delle competenze legislative esclusive statali nelle materie della tutela della concorrenza (art. 117, secondo comma, lettera e, Cost.) e dell’ambiente (art. 117, secondo comma, lettera s, Cost.), materie che hanno prevalenza su eventuali competenze regionali, che ne risultano così corrispondentemente limitate. Ciò in quanto tale disciplina, finalizzata al superamento della frammentazione della gestione delle risorse idriche, consente la razionalizzazione del mercato ed è quindi diretta a garantire la concorrenzialità e l’efficienza del mercato stesso (sentenze n. 142 e n. 29 del 2010; n. 246 del 2009). Nella citata sentenza n. 246 del 2009 è stato ulteriormente precisato che la forma di gestione del servizio idrico integrato e le procedure di affidamento dello stesso, disciplinate dall’art. 150 del d.lgs. n. 152 del 2006, sono da ricondurre alla materia della tutela della concorrenza, di competenza legislativa esclusiva statale, trattandosi di regole «dirette ad assicurare la concorrenzialità nella gestione del servizio idrico integrato, disciplinando le modalità del suo conferimento e i requisiti soggettivi del gestore, al precipuo scopo di garantire la trasparenza, l’efficienza, l’efficacia e l’economicità della gestione medesima».
In conclusione, secondo la giurisprudenza di questa Corte, le regole che concernono l’affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica − ivi compreso il servizio idrico – ineriscono essenzialmente alla materia «tutela della concorrenza», di competenza esclusiva statale, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.

8. – Il terzo nucleo tematico, posto dalle questioni promosse dalle Regioni in ordine alle censurate discipline sia a regime che transitorie, attiene al principio di ragionevolezza. Al riguardo, le ricorrenti richiamano la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui l’esercizio della potestà normativa esclusiva dello Stato in tema di tutela della concorrenza è legittimo – in particolare, in caso di concorso con competenze regionali – alla condizione del rispetto, da parte del legislatore statale, del principio di ragionevolezza, sotto il profilo della proporzionalità e dell’adeguatezza (sentenza n. 272 del 2004, cui possono aggiungersi le sentenze n. 148 del 2009; n. 326 del 2008; n. 452 e n. 401 del 2007; n. 345, n. 272 del 2004).

8.1. − Per quanto riguarda la disciplina a regime, alcune ricorrenti assumono che essa, anche se ascrivibile alla materia «tutela della concorrenza», lede comunque la competenza residuale innominata delle Regioni in materia di servizi pubblici locali. In particolare, le ricorrenti deducono che la normativa censurata, nella parte in cui limita i casi in cui è consentito l’affidamento diretto in house, non è ragionevole, proporzionale o adeguata, perché:

a) è normativa autoapplicativa e di dettaglio;
b) pone vincoli ulteriori – e perciò ingiustificati – rispetto a quelli previsti dall’ordinamento comunitario per l’affidamento in house.

Nessuno di tali rilievi è condivisibile.

8.1.1. − Quanto al primo rilievo, va qui ribadita la giurisprudenza costituzionale, per la quale l’emanazione, nell’esercizio di una competenza esclusiva dello Stato, di una norma autoapplicativa e di dettaglio non integra alcuna violazione dei criteri di riparto costituzionale delle competenze legislative. Al riguardo, questa Corte ha ripetutamente affermato (sentenze n. 232 del 2010 e n. 430 del 2007, in materia di tutela della concorrenza; analogamente, sentenza n. 255 del 2010, in materia di sistema tributario dello Stato) che:

a) «l’attribuzione delle misure [a tutela della concorrenza] alla competenza legislativa esclusiva dello Stato comporta sia l’inderogabilità delle disposizioni nelle quali si esprime, sia che queste legittimamente incidono, nei limiti della loro specificità e dei contenuti normativi che di esse sono proprie, sulla totalità degli ambiti materiali entro i quali si applicano»;
b) una volta ricondotta una norma nell’ambito della «tutela della concorrenza», «non si tratta […] di valutare se essa sia o meno di estremo dettaglio, utilizzando princìpi e regole riferibili alla disciplina della competenza legislativa concorrente delle Regioni, ma occorre invece accertare se, alla stregua del succitato scrutinio, la disposizione sia strumentale ad eliminare limiti e barriere all’accesso al mercato ed alla libera esplicazione della capacità imprenditoriale».

Neppure può affermarsi – come sostenuto da alcune ricorrenti – che le norme sull’affidamento e le modalità di gestione dei servizi pubblici locali sono di per sé irragionevoli, perché intervengono in materia di tutela della concorrenza con discipline di dettaglio e autoapplicative. Infatti questa Corte ha più volte rilevato che è ragionevole che norme in materia di tutela della concorrenza, al fine di meglio tutelare le finalità pro concorrenziali loro proprie, possano essere dettagliate ed autoapplicative (sentenze n. 148 del 2009; n. 320 del 2008; n. 431 del 2007).

8.1.2. − Quanto al secondo profilo, non può accogliersi l’assunto delle ricorrenti, secondo cui l’unica disciplina della concorrenza che possa considerarsi proporzionale e adeguata è quella che non pone limiti (che non siano quelli evidenziati dalla giurisprudenza comunitaria) all’affidamento in house di servizi pubblici locali di rilevanza economica.
Al riguardo, va innanzitutto osservato che non appare irragionevole, anche se non costituzionalmente obbligata, una disciplina, quale quella di specie, intesa a restringere ulteriormente – rispetto al diritto comunitario – i casi di affidamento diretto in house (cioè i casi in cui l’affidatario costituisce la longa manus di un ente pubblico che lo controlla pienamente e totalmente). Come si è osservato al punto 6.1., tale normativa si innesta coerentemente in un sistema normativo interno in cui già vige il divieto della gestione diretta mediante azienda speciale o in economia (introdotto dai non censurati artt. 35 della legge n. 448 del 2001 e 14 del decreto-legge n. 269 del 2003) e nel quale, pertanto, i casi di affidamento in house, quale modello organizzativo succedaneo della (vietata) gestione diretta da parte dell’ente pubblico, debbono essere eccezionali e tassativamente previsti.
In secondo luogo, va rilevato che le norme censurate dalle ricorrenti non possono essere considerate sproporzionate od inadeguate solo perché, attraverso la riduzione delle ipotesi di eccezionale affidamento diretto dei servizi pubblici locali, rafforzano la generale regola pro concorrenziale, prescelta dal legislatore, che impone l’obbligo di procedere all’affidamento solo mediante procedure competitive ad evidenza pubblica. La possibilità, secondo l’ordinamento comunitario, di affidamenti in house anche in casi in cui detti affidamenti sono vietati dalle denunciate disposizioni nazionali non rende queste ultime irragionevoli in relazione agli indicati profili, perché – come messo in evidenza sempre al punto 6.1. − l’ordinamento comunitario, in tema di tutela della concorrenza e, in particolare, in tema di affidamento della gestione dei servizi pubblici, costituisce solo un minimo inderogabile per il legislatore degli Stati membri e, pertanto, non osta a che la legislazione interna disciplini piú rigorosamente, nel senso di favorire l’assetto concorrenziale di un mercato, le modalità di tale affidamento. Pertanto, il legislatore nazionale ha piena libertà di scelta tra una pluralità di discipline ugualmente legittime.
In terzo luogo, deve essere sottolineato che la normativa censurata non impedisce del tutto all’ente pubblico la gestione di un servizio locale di rilevanza economica, negandogli ogni possibilità di svolgere la sua «speciale missione» pubblica (come si esprime il diritto comunitario), ma trova, tra i molti possibili, un punto di equilibrio rispetto ai diversi interessi operanti nella materia in esame. In proposito, va ricordato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, la sfera di autonomia privata e la concorrenza non ricevono «dall’ordinamento una protezione assoluta» e possono, quindi, subire limitazioni ed essere sottoposte al coordinamento necessario «a consentire il soddisfacimento contestuale di una pluralità di interessi costituzionalmente rilevanti» (sentenza n. 279 del 2006; analogamente, ordinanza n. 162 del 2009). La stessa giurisprudenza ha tuttavia evidenziato che «una regolazione strumentale a garantire la tutela anche di interessi diversi rispetto a quelli correlati all’assetto concorrenziale del mercato garantito» ha carattere «derogatorio e per ciò stesso eccezionale» e deve costituire «la sola misura in grado di garantire al giusto la tutela di quegli interessi» (sentenza n. 270 del 2010). Nella specie, intendendo contemperare la regola della massima tutela della concorrenza con le eccezioni derivanti dal perseguimento della speciale missione pubblica da parte dell’ente locale, il legislatore ha in effetti ponderato due diversi interessi: da un lato, quello generale alla tutela della concorrenza; dall’altro, quello specifico degli enti locali a gestire il SPL (tramite l’affidamento in house) nell’ipotesi in cui sia «efficace ed utile» il ricorso al mercato e non solo quando esso non sia possibile. Il bilanciamento tra tali interessi è stato attuato, in concreto, in modo non irragionevole, per un verso, consentendo alle società a capitale (interamente o parzialmente) pubblico, quando non ricorrano le condizioni per l’affidamento diretto, di partecipare alle gare ad evidenza pubblica per l’affidamento della gestione del servizio, al pari di ogni altro imprenditore o società (comma 1 dell’art. 23-bis); per altro verso, limitando l’affidamento in house alle ipotesi in cui, pur in presenza di un SPL di rilevanza economica, il ricorso al mercato per la gestione del servizio non è «efficace e utile» (comma 2 dell’art. 23-bis). Ciò è confermato dal comma 2 dell’art. 3 del d.P.R. 7 settembre 2010, n. 168 (Regolamento in materia di servizi pubblici locali di rilevanza economica, a norma dell’articolo 23-bis, comma 10, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133), il quale stabilisce espressamente che le «società a capitale interamente pubblico possono partecipare alle procedure competitive ad evidenza pubblica di cui all’articolo 23-bis, comma 2, lettera a), sempre che non vi siano specifici divieti previsti dalla legge».

8.2. – Tali conclusioni relative alla disciplina a regime influiscono sulla soluzione della questione posta dalle ricorrenti circa l’adeguatezza e la proporzionalità − dunque, la ragionevolezza − del regime transitorio stabilito dalla normativa denunciata.
La relativa censura non può essere accolta, oltre che per le considerazioni generali svolte nel punto precedente, anche per i seguenti ulteriori argomenti, concernenti specificamente la disciplina transitoria.
Al riguardo, anche a non voler considerare che, in caso di successione di leggi, il legislatore ha ampia discrezionalità di modulare nel tempo la disciplina introdotta, con l’unico limite della ragionevolezza (ex plurimis, sentenza n. 376 del 2008; ordinanze n. 40 del 2009 e n. 9 del 2006), va comunque rilevato che, nel caso di specie, il margine temporale concesso dalla normativa censurata per la cessazione degli affidamenti diretti esistenti è congruo e proporzionato all’entità ed agli effetti delle modifiche normative introdotte e, dunque, ragionevole. A tale conclusione si perviene agevolmente considerando la seguente successione cronologica delle disposizioni di legge oggetto di censura. Con riferimento al servizio idrico integrato, il comma 8 del testo originario dell’art. 23-bis (entrato in vigore il 22 agosto 2008) prevedeva la cessazione alla data del 31 dicembre 2010 delle concessioni per le quali non sussistevano le peculiari caratteristiche di cui al comma 3. Con riferimento ai settori diversi dal servizio idrico integrato, lo stesso comma demandava la fissazione di una disciplina transitoria ai regolamenti di delegificazione da adottare ai sensi della lettera e) del comma 10, ma che non sono stati mai emanati. Il vigente comma 8 dell’art. 23-bis (entrato in vigore il 26 settembre 2009) disciplina ora il regime transitorio degli affidamenti non conformi a quanto previsto dai commi 2 e 3 dello stesso articolo, con una cadenza differenziata, a seconda delle varie ipotesi, a partire dal 31 dicembre 2010 e sino al 31 dicembre 2012, termine, quest’ultimo, successivamente modificato, a decorrere dal 25 novembre 2009, in quello del 31 dicembre 2015. Tali ampi margini temporali assicurano una concreta possibilità di attenuare le conseguenze economiche negative della cessazione anticipata della gestione e, pertanto, escludono la possibilità di invocare quell’incolpevole affidamento del gestore nella durata naturale del contratto di servizio che, solo, potrebbe determinare una possibile irragionevolezza della norma.

9. – Il quarto tema generale posto dalle questioni promosse, da trattare in via preliminare, attiene all’individuazione della competenza legislativa regionale o statale nella determinazione della rilevanza economica dei SPL. Infatti, una volta accertato che la disciplina delle modalità di affidamento della gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica rientra nell’ambito della competenza legislativa esclusiva dello Stato, resta ancora da verificare se allo Stato competa, in via esclusiva, anche il potere di indicare le condizioni per le quali debba ritenersi sussistente detta «rilevanza economica» oppure se la decisione di attribuire al servizio locale una siffatta qualificazione sia riservata, dal diritto comunitario o comunque dalla Costituzione, alla Regione od all’ente locale.
A tal fine è necessario, innanzitutto, valutare la portata della nozione di «rilevanza economica» nel sistema della normativa statale sui SPL; successivamente, individuare il fondamento costituzionale di tale nozione e, infine, trarre le conclusioni in ordine alla competenza a determinare la sussistenza dell’indicata «rilevanza».

9.1. – Quanto al primo profilo, va osservato che né il censurato art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, in entrambe le sue versioni, né l’art. 113 TUEL, nel disciplinare l’affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali «di rilevanza economica», forniscono una esplicita definizione di tale «rilevanza». Tuttavia, lo stesso art. 23-bis fornisce all’interprete alcuni elementi utili per giungere a tale definizione, precisando che:

a) l’articolo ha come fine (tra l’altro) di favorire la più ampia diffusione dei princìpi di concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di tutti «gli operatori economici interessati alla gestione di servizi pubblici di interesse generale in ambito locale» (comma 1);
b) la presenza di situazioni tali da non permettere – in relazione alle caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento – «un efficace ed utile ricorso al mercato del servizio», non rende il servizio stesso privo di rilevanza economica, ma ne consente solo l’affidamento della gestione con modalità derogatorie rispetto a quelle ordinarie (comma 3);
c) la «rilevanza economica» dei servizi non ha nulla a che vedere con le soglie oltre le quali gli affidamenti dei medesimi servizi «assumono rilevanza» ai fini dell’espressione del parere preventivo che l’AGCM deve rendere in ordine alla scelta dell’ente locale di affidare la gestione di un servizio pubblico «di rilevanza economica» secondo modalità derogatorie rispetto a quelle ordinarie (commi 4 e 4-bis, nella versione vigente).

Dall’evidente omologia posta da tale articolo tra «servizi pubblici locali di rilevanza economica» e «servizi pubblici di interesse generale in ambito locale» si desume, innanzitutto, che la nozione di «servizio pubblico locale di rilevanza economica» rimanda a quella, piú ampia, di «servizio di interesse economico generale» (SIEG), impiegata nell’ordinamento comunitario e già esaminata al punto 6. Del resto, questa Corte, con la sentenza n. 272 del 2004, aveva già sottolineato l’omologia esistente anche tra la nozione di «rilevanza economica», utilizzata nell’art. 113-bis TUEL (relativo ai servizi pubblici locali «privi di rilevanza economica» e dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla stessa sentenza), e quella comunitaria di «interesse economico generale», interpretata anche dalla Commissione europea nel Libro verde sui servizi di interesse generale del 21 maggio 2003. In particolare, secondo le indicazioni fornite dalla giurisprudenza comunitaria e dalla Commissione europea, per «interesse economico generale» si intende un interesse che attiene a prestazioni dirette a soddisfare i bisogni di una indifferenziata generalità di utenti e, al tempo stesso, si riferisce a prestazioni da rendere nell’esercizio di un’attività economica, cioè di una «qualsiasi attività che consista nell’offrire beni o servizi su un determinato mercato», anche potenziale (sentenza Corte di giustizia UE, 18 giugno 1998, causa C-35/96, Commissione c. Italia, e Libro verde sui servizi di interesse generale del 21 maggio 2003, § 2.3, punto 44) e, quindi, secondo un metodo economico, finalizzato a raggiungere, entro un determinato lasso di tempo, quantomeno la copertura dei costi. Si tratta dunque di una nozione oggettiva di interesse economico, riferita alla possibilità di immettere una specifica attività nel mercato corrispondente, reale o potenziale.
Se si ragiona sulla base di una siffatta ampia nozione comunitaria di interesse economico, è agevole rilevare che gli indici empirici di tale interesse – come lo scopo lucrativo, l’assunzione dei rischi dell’attività, l’incidenza del finanziamento pubblico – talvolta impiegati dalla Corte di giustizia UE (sentenza 22 maggio 2003, C-18/2001, Korhonen e.a.) e richiamati anche da questa Corte (sentenza n. 272 del 2004) possono essere utili solo con riferimento ad un servizio già esistente sul mercato, per accertare se l’attività svolta sia da considerare economica. Ciò però non significa che l’economicità dell’interesse si debba determinare ex post, esclusivamente in base a tali indici, e cioè a séguito di una scelta discrezionale dell’ente locale competente circa le modalità di gestione del servizio. Al contrario, nel diverso caso in cui si debba immettere nel mercato un servizio pubblico – e, quindi, si debba accertare se e come applicare le regole concorrenziali e concorsuali comunitarie per l’affidamento della sua gestione – occorre necessariamente prendere in considerazione la possibilità dell’apertura di un mercato, obiettivamente valutata secondo un giudizio di concreta realizzabilità, a prescindere da ogni soggettiva determinazione dell’ente al riguardo. È vero che il diritto comunitario lascia qualche spazio in materia alla scelta degli Stati membri, riservando loro, sia pure in via di eccezione, il potere di derogare alle regole del Trattato relative alla concorrenza e agli aiuti di Stato, ove tali regole – salvo errori manifesti da parte degli Stati stessi – siano ritenute ostative al perseguimento della speciale missione e delle finalità sociali del servizio. Tuttavia, il potere di deroga presuppone la sussistenza dell’interesse economico del servizio stesso, esercitandosi tale potere proprio nell’ambito dei SIEG, e cioè di servizi che sono, per definizione ed obiettivamente, di «interesse economico» perché idonei ad influenzare un assetto concorrenziale in atto o in fieri.
Analogamente a quanto visto a proposito del diritto comunitario, le disposizioni censurate non fanno esclusivo riferimento ad un servizio locale operante in un mercato già esistente, ma riguardano servizi dotati di mera «rilevanza» economica e, quindi, anche servizi ancora da organizzare e da immettere sul mercato. Infatti, esse, in armonia con l’indicata nozione comunitaria di interesse economico, evidenziano le due seguenti fondamentali caratteristiche della nozione di «rilevanza» economica:

a) che l’immissione del servizio possa avvenire in un mercato anche solo potenziale, nel senso che, per l’applicazione dell’art. 23-bis, è condizione sufficiente che il gestore possa immettersi in un mercato ancora non esistente, ma che abbia effettive possibilità di aprirsi e di accogliere, perciò, operatori che agiscano secondo criteri di economicità;
b) che l’esercizio dell’attività avvenga con metodo economico, nel senso che essa, considerata nella sua globalità, deve essere svolta in vista quantomeno della copertura, in un determinato periodo di tempo, dei costi mediante i ricavi (di qualsiasi natura questi siano, ivi compresi gli eventuali finanziamenti pubblici).

Tale impostazione − consequenziale alla scelta legislativa di promuovere la concorrenza “per” il mercato della gestione dei servizi – emerge nettamente, in particolare, dai commi 3, 4 e 4-bis, dell’art. 23-bis, i quali possono essere interpretati soltanto nel senso che i servizi pubblici locali non cessano di avere «rilevanza economica» per il solo fatto che sia formulabile una prognosi di inefficacia o inutilità del semplice ricorso al mercato, con riferimento agli obiettivi pubblici perseguiti dall’ente locale. Evidentemente, anche per il legislatore nazionale, come per quello comunitario, la rilevanza economica sussiste pure quando, per superare le particolari difficoltà del contesto territoriale di riferimento e garantire prestazioni di qualità anche ad una platea di utenti in qualche modo svantaggiati, non sia sufficiente l’automaticità del mercato, ma sia necessario un pubblico intervento o finanziamento compensativo degli obblighi di servizio pubblico posti a carico del gestore, sempre che sia concretamente possibile creare un «mercato a monte», e cioè un mercato «in cui le imprese contrattano con le autorità pubbliche la fornitura di questi servizi» agli utenti (così – si è visto al punto 6.1. – si esprime la Commissione europea nel citato Libro verde al punto 44).
Dall’evidenziata portata oggettiva delle nozioni in esame e dalla indicata sufficienza di un mercato solo potenziale consegue l’erroneità delle interpretazioni volte a dare alle medesime nozioni un carattere meramente soggettivo e, in particolare, di quell’interpretazione – fatta propria da alcune ricorrenti – secondo cui si avrebbe rilevanza economica solo alla duplice condizione che un mercato del servizio sussista effettivamente e che l’ente locale decida a sua discrezione di finanziare il servizio con gli utili ricavati dall’esercizio di impresa in quel mercato.

9.2. – Quanto al secondo profilo da esaminare, relativo al fondamento costituzionale della legge statale che fissa il contenuto della suddetta nozione oggettiva di «rilevanza economica», va preso atto che detta nozione, al pari di quella omologa di «interesse economico» propria del diritto comunitario, va utilizzata, nell’ambito della disciplina del mercato dei servizi pubblici, quale criterio discretivo per l’applicazione delle norme concorrenziali e concorsuali comunitarie in materia di affidamento della gestione di tali servizi (come, del resto, esplicitamente affermato dal comma 1 dell’art. 23-bis). Ne deriva che, proprio per tale suo ambito di utilizzazione, la determinazione delle condizioni di rilevanza economica è riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato in tema di «tutela della concorrenza», ai sensi del secondo comma, lettera e), dell’art. 117 Cost. Poiché l’ordinamento comunitario esclude che gli Stati membri, ivi compresi gli enti infrastatuali, possano soggettivamente e a loro discrezione decidere sulla sussistenza dell’interesse economico del servizio, conseguentemente il legislatore statale si è adeguato a tale principio dell’ordinamento comunitario nel promuovere l’applicazione delle regole concorrenziali e ha escluso che gli enti infrastatuali possano soggettivamente e a loro discrezione decidere sulla sussistenza della rilevanza economica del servizio (rilevanza che, come più volte sottolineato, corrisponde per il diritto interno all’interesse economico considerato dal diritto comunitario).

10. – Alla luce dei nuclei tematici evidenziati al punto 2., occorre ora esaminare le singole questioni proposte dalle Regioni ricorrenti.
A tale proposito, va preliminarmente rilevato che, quanto ai ricorsi delle Regioni aventi ad oggetto il testo vigente dell’art. 23-bis, l’Avvocatura generale dello Stato ha formulato due eccezioni di inammissibilità.

10.1. – In primo luogo si eccepisce, in via generale, che «la Regione non può lamentare genericamente l’illegittimità costituzionale di leggi statali, ovvero la contrarietà delle stesse all’ordinamento comunitario senza indicare specificamente la lesione di una competenza ad essa attribuita».
L’eccezione deve essere rigettata per la sua genericità, in quanto lo Stato non specifica a quali delle questioni sollevate dalle Regioni si riferisca.

10.2. – La difesa dello Stato afferma, in secondo luogo, che, «in riferimento alle questioni ex adverso sollevate sulla mancata e/o inesatta applicazione dei principi comunitari in materia di servizi pubblici locali, si ritiene che la doglianza sia mal posta in termini di incostituzionalità», in quanto, «qualora codesta Corte dovesse ravvisare l’esigenza di assicurare una uniforme interpretazione del diritto comunitario, la questione, ai sensi dell’art. 234 del Trattato CE, dovrebbe essere preventivamente oggetto di un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE».
L’eccezione deve essere rigettata, perché nei giudizi principali le Regioni possono sempre porre alla Corte questioni di costituzionalità nelle quali siano evocate, quali parametri interposti, norme di diritto comunitario. Spetterà semmai alla Corte costituzionale – come precisato nella sentenza n. 102 del 2008 e nell’ordinanza n. 103 del 2008 – effettuare il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia nel caso in cui ritenga che l’interpretazione del diritto comunitario non sia chiara. Peraltro, nel caso di specie – come visto al punto 6. – l’interpretazione delle disposizioni comunitarie evocate dalle ricorrenti quali parametri interposti di legittimità costituzionale è sufficientemente chiarita, nel senso che esse non ostano alla normativa censurata, dalla consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia UE già citata.

11. – Le questioni riconducibili al primo dei sopra indicati nuclei tematici (trattato al punto 6.) – che attiene al rapporto tra le disposizioni censurate e la disciplina dei SPL desumibile dall’ordinamento dell’Unione europea e dalla Carta europea dell’autonomia locale – sono poste dalle Regioni Liguria, Emilia-Romagna, Umbria, Piemonte, Toscana. La Regione Marche propone una questione che involge, allo stesso tempo, sia tale nucleo tematico sia il quarto dei nuclei tematici (analizzato al punto 9.), relativo alla determinazione della rilevanza economica dei SPL.

11.1. – La Regione Piemonte impugna i commi 1, 2 e 3 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo originario (ricorso n. 77 del 2008), e i commi 2, 3 e 4 dello stesso art. 23-bis, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009 (ricorso n. 16 del 2010), nonché il comma 1-ter dello stesso art. 15 del decreto-legge n. 135 del 2009, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., sostenendo che il diritto comunitario non consente che il legislatore nazionale spinga la tutela della concorrenza fino a comprimere il «principio di libertà degli individui o di autonomia – del pari costituzionale – degli enti territoriali (artt. 5, 117, 118, Cost.) di mantenere la capacità di operare ogni qualvolta fanno la scelta che ritengono più opportuna: cioè se fruire dei vantaggi economici offerti dal mercato dei produttori oppure se procedere a modellare una propria struttura capace di diversamente configurare l’offerta delle prestazioni di servizio pubblico».
La questione è inammissibile perché generica
Infatti, la ricorrente, limitandosi a richiamare il diritto comunitario nel suo complesso, non specifica le norme comunitarie da utilizzare come parametri interposti. E ciò, a prescindere dal fatto che il diritto comunitario consente in ogni caso al legislatore interno di prevedere limitazioni dell’affidamento diretto più estese di quelle comunitarie (che consistono solamente nella totale partecipazione pubblica, nel cosiddetto “controllo analogo”, nella preponderanza dell’attività svolta in favore dell’ente controllante). Come si è visto al punto 6.1., esso infatti, nel prevedere solo regole “minime” pro concorrenziali, lascia al legislatore nazionale un ampio margine di apprezzamento, con la conseguenza che nelle ipotesi – come quella di specie – in cui quest’ultimo prevede condizioni ulteriori aventi lo stesso “verso” del diritto comunitario, deve escludersi il prospettato contrasto.

11.2. – Le Regioni Toscana ed Emilia-Romagna impugnano diversi commi dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 per violazione del diritto comunitario.

11.2.1. – In particolare, la Regione Toscana censura i commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, in riferimento all’art. 117, primo, secondo e quarto comma, Cost., affermando che l’ordinamento comunitario ammette espressamente la possibilità di fornire i servizi pubblici con un’organizzazione propria, in alternativa all’affidamento ad imprese terze, con la conseguenza che le disposizioni censurate non trovano fondamento né nella riserva costituzionale alla legislazione statale esclusiva della materia «tutela della concorrenza» (art. 117, secondo comma, lettera e, Cost.), né nella disciplina comunitaria.
La stessa Regione censura anche il comma 8 dell’art. 23-bis, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, il quale prevede che gli affidamenti diretti già in essere al momento dell’entrata in vigore della nuova normativa cessano in date successive, a partire dal 31 dicembre 2011, a seconda delle diverse tipologie degli affidamenti stessi. Per la ricorrente, tale comma viola l’art. 117, primo, comma Cost., perché, nella parte in cui impone al 31 dicembre 2011 la cessazione di tutte le gestioni in house si pone in contrasto con il diritto comunitario, che invece consente la prosecuzione di tali gestioni.
La Regione Emilia-Romagna (ricorso n. 13 del 2010) impugna, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., lo stesso comma 8, lamentando che «nel diritto comunitario il modello organizzativo dell’autoproduzione dei servizi attraverso affidamenti in house è stato ritenuto in linea con i principi del Trattato, tra cui, come noto, vi è quello della tutela e promozione della concorrenza».
Le questioni sono inammissibili per genericità, in quanto le ricorrenti non specificano le norme comunitarie che sarebbero state violate, e per perplessità, in quanto le stesse ricorrenti affermano che l’ordinamento comunitario consente e non impone agli enti locali di continuare a fornire i servizi pubblici attraverso le gestioni in house già in essere. E ciò, a prescindere dal fatto che, per le ragioni esposte ai punti 6.1. e 11.1., il diritto comunitario consente in ogni caso al legislatore interno di prevedere limitazioni dell’affidamento diretto più estese di quelle comunitarie.

11.2.2. – La Regione Emilia-Romagna (ricorso n. 13 del 2010) impugna, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., il comma 8 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, anche sotto un diverso profilo.
Afferma la ricorrente che il diritto comunitario prevede che la società in house sia tenuta a svolgere a favore degli enti di riferimento solo l’attività prevalente, ben potendo destinare l’attività residua anche al mercato, mentre «la norma in questione trasforma il concetto di “prevalenza” dell’attività in “attività esclusiva”, costringendo il soggetto titolare dell’affidamento diretto (non solo in house provider) a svolgere la propria attività esclusivamente nei confronti degli enti affidanti».
La questione è inammissibile per genericità, in quanto la ricorrente non specifica le norme comunitarie che sarebbero state violate. E ciò, a prescindere dal fatto che, per le ragioni esposte ai punto 6.1. e 11.1., il diritto comunitario consente in ogni caso al legislatore interno di prevedere limitazioni dell’affidamento diretto piú estese di quelle comunitarie.


11.3. – Lo stesso comma 8 dell’art. 23-bis, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, è impugnato anche dalle Regioni Liguria (ricorso n. 12 del 2010) e Umbria, in riferimento all’art. 117, primo comma Cost., «per contrasto con la Carta europea dell’autonomia locale».
La questione è inammissibile per genericità, in quanto le ricorrenti non specificano quali disposizioni della Carta europea dell’autonomia locale sarebbero state violate.

11.4. – Come sopra accennato, la Regione Marche solleva una questione ascrivibile, nello stesso tempo, a due nuclei tematici: al quarto, perché assume che rientra nella competenza propria e degli enti locali decidere se il servizio idrico integrato abbia o no rilevanza economica; al primo, perché afferma che tale riserva di competenza è garantita dal diritto comunitario e che, pertanto, la normativa denunciata, nel porre limiti all’affidamento del servizio non previsti dalla normativa comunitaria, si pone con questa in contrasto.
In particolare, la Regione impugna – per il caso, appunto, in cui il comma 1-ter dell’art. 15 del decreto-legge n. 135 del 2009 non possa interpretarsi nel senso che il servizio idrico integrato è sottoposto alla disciplina dell’art. 23-bis solo nei casi in cui «gli enti competenti abbiano scelto di organizzarlo in modo da conferirvi rilevanza economica» – i commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, e l’art. 15, comma 1-ter, dello stesso decreto-legge n. 135 del 2009, nella parte in cui si riferiscono al servizio idrico integrato.
Le disposizioni censurate – già sinteticamente riportate al punto 1.1. – prevedono che:

1) «Il conferimento della gestione dei servizi pubblici locali avviene, in via ordinaria:

a) a favore di imprenditori o di società in qualunque forma costituite individuati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, nel rispetto dei principi del Trattato che istituisce la Comunità europea e dei principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento e proporzionalità;
b) a società a partecipazione mista pubblica e privata, a condizione che la selezione del socio avvenga mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, nel rispetto dei principi di cui alla lettera a), le quali abbiano ad oggetto, al tempo stesso, la qualità di socio e l’attribuzione di specifici compiti operativi connessi alla gestione del servizio e che al socio sia attribuita una partecipazione non inferiore al 40 per cento» (comma 2 dell’art. 23-bis);

2) «In deroga alle modalità di affidamento ordinario di cui al comma 2, per situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato, l’affidamento può avvenire a favore di società a capitale interamente pubblico, partecipata dall’ente locale, che abbia i requisiti richiesti dall’ordinamento comunitario per la gestione cosiddetta “in house”e, comunque, nel rispetto dei principi della disciplina comunitaria in materia di controllo analogo sulla società e di prevalenza dell’attività svolta dalla stessa con l’ente o gli enti pubblici che la controllano» (comma 3 dell’art. 23-bis);
3) «Nei casi di cui al comma 3, l’ente affidante deve dare adeguata pubblicità alla scelta, motivandola in base ad un’analisi del mercato e contestualmente trasmettere una relazione contenente gli esiti della predetta verifica all’Autorità garante della concorrenza e del mercato per l’espressione di un parere preventivo, da rendere entro sessanta giorni dalla ricezione della predetta relazione. Decorso il termine, il parere, se non reso, si intende espresso in senso favorevole» (comma 4 dell’art. 23-bis);
4) «Tutte le forme di affidamento della gestione del servizio idrico integrato di cui all’articolo 23-bis del citato decreto-legge n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 133 del 2008, devono avvenire nel rispetto dei princìpi di autonomia gestionale del soggetto gestore e di piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche, il cui governo spetta esclusivamente alle istituzioni pubbliche, in particolare in ordine alla qualità e prezzo del servizio, in conformità a quanto previsto dal decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, garantendo il diritto alla universalità ed accessibilità del servizio» (art. 15, comma 1-ter, del decreto-legge n. 135 del 2009).

La ricorrente lamenta la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., per il tramite degli artt. 14 e 106 TFUE, i quali così dispongono: «fatti salvi l’articolo 4 del trattato sull’Unione europea e gli articoli 93, 106 e 107 del presente trattato, in considerazione dell’importanza dei servizi di interesse economico generale nell’ambito dei valori comuni dell’Unione, nonché del loro ruolo nella promozione della coesione sociale e territoriale, l’Unione e gli Stati membri, secondo le rispettive competenze e nell’ambito del campo di applicazione dei trattati, provvedono affinché tali servizi funzionino in base a principi e condizioni, in particolare economiche e finanziarie, che consentano loro di assolvere i propri compiti.» (art. 14); «Le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale sono sottoposte alle norme dei trattati, e in particolare alle regole di concorrenza, nei limiti in cui l’applicazione di tali norme non osti all’adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata. Lo sviluppo degli scambi non deve essere compromesso in misura contraria agli interessi dell’Unione.» (art. 106).
Per la Regione, le disposizioni censurate si pongono in contrasto con gli evocati parametri, perché, conformando il servizio idrico come servizio necessariamente a rilevanza economica e ponendo limitazioni alle condizioni di affidamento della gestione di tale servizio non contemplate dal diritto comunitario, impongono l’applicazione delle regole del mercato interno in via generale per tutto il territorio nazionale e negano, cosí, alle Regioni e agli enti locali quel potere di effettuare caso per caso una valutazione concreta della rilevanza economica del servizio stesso, che, invece, la normativa comunitaria riserva loro.
La questione non è fondata.
I parametri evocati non fissano le condizioni di uso dell’espressione, in essi utilizzata, di «interesse economico generale» – espressione che la stessa ricorrente ammette essere un sinonimo di «rilevanza economica» – e non specificano se la sussistenza di tale interesse possa essere discrezionalmente stabilita dagli Stati membri o dagli enti infrastatuali. Tuttavia, come più diffusamente esposto ai punti 6.1. e 9., lo spazio interpretativo lasciato aperto dai suddetti articoli del Trattato è stato colmato dalla giurisprudenza comunitaria e dalla Commissione europea, secondo le quali «l’interesse economico generale», in quanto funzionale ad una disciplina comunitaria diretta a favorire l’assetto concorrenziale dei mercati, è riferito alla possibilità di immettere una specifica attività nel mercato corrispondente (reale o potenziale) ed ha, pertanto, natura essenzialmente oggettiva. Ne deriva che (secondo quanto meglio osservato al punto 9.2.) l’ordinamento comunitario, in considerazione della rilevata portata oggettiva della nozione di «interesse economico», vieta che gli Stati membri e gli enti infrastatuali possano soggettivamente e a loro discrezione decidere circa la sussistenza di tale interesse. In particolare, la previsione, da parte delle disposizioni censurate, di condizioni per l’affidamento diretto del servizio pubblico locale piú restrittive di quelle previste dall’ordinamento comunitario non integra alcuna violazione dei princìpi comunitari della concorrenza, perché tali princìpi costituiscono solo un minimo inderogabile per gli Stati membri, i quali hanno la facoltà di dettare una disciplina più rigorosamente concorrenziale, come quella di specie, che, restringendo le eccezioni all’applicazione della regola della gara ad evidenza pubblica – posta a tutela della concorrenza –, rende più estesa l’applicazione di tale regola.
Con riferimento alla fattispecie in esame, il legislatore statale, in coerenza con la menzionata normativa comunitaria e sull’incontestabile presupposto che il servizio idrico integrato si inserisce in uno specifico e peculiare mercato (come riconosciuto da questa Corte con la sentenza n. 246 del 2009), ha correttamente qualificato tale servizio come di rilevanza economica, conseguentemente escludendo ogni potere degli enti infrastatuali di pervenire ad una diversa qualificazione.

11.5. – I commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, sono censurati, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., dalle Regioni Liguria (ricorso n. 12 del 2010) e Umbria, nonché, limitatamente al comma 3, dalla Regione Emilia-Romagna (ricorso n. 13 del 2010).
Le ricorrenti lamentano la violazione dell’evocato parametro, per il tramite della Carta europea dell’autonomia locale e, in particolare, delle seguenti disposizioni:

a) l’art. 3, comma 1, secondo cui «per autonomia locale, s’intende il diritto e la capacità effettiva, per le collettività locali, di regolamentare ed amministrare nell’ambito della legge, sotto la loro responsabilità, e a favore delle popolazioni, una parte importante di affari pubblici»;

b) l’art. 4, comma 2, secondo cui «le collettività locali hanno, nell’ambito della legge, ogni più ampia facoltà di prendere iniziative proprie per qualsiasi questione che non esuli dalla loro competenza o sia assegnata ad un’altra autorità»;

c) l’art. 4, comma 4, secondo cui «le competenze affidate alle collettività locali devono di regola essere complete ed integrali».

Sostengono le ricorrenti che, una volta che si riconosca che il servizio idrico è parte delle funzioni fondamentali dei Comuni, «sembra evidente che solo ad essi spetta la decisione sul migliore modo di organizzarlo» e il legislatore non può «configurare come eccezionale e soggetta a specifici aggravi procedimentali la scelta di assumere essi stessi la responsabilità della gestione diretta del servizio».
Le questioni non sono fondate.
Infatti, come più diffusamente osservato al punto 6.2.:

a) con riferimento alla gestione diretta, il denunciato contrasto con la Carta non è ipotizzabile rispetto alle norme censurate, ma solo, eventualmente, rispetto ai non censurati artt. 35 della legge n. 448 del 2001 e 14 del decreto-legge n. 269 del 2003;

b) il presupposto da cui muovono le ricorrenti che il servizio idrico costituisca una delle funzioni fondamentali dell’ente pubblico è privo di fondamento (sentenze n. 307 del 2009 e n. 272 del 2004);

c) gli evocati articoli della Carta europea dell’autonomia locale non hanno natura precettiva e sono prevalentemente definitori (art. 3, comma 1), programmatici (art. 4, comma 2) e, comunque, generici (art. 4, comma 4).

Inoltre, la stessa Carta, al comma 1 dell’evocato art. 4, afferma, con previsione di carattere generale, che «le competenze di base delle collettività locali sono stabilite dalla Costituzione o dalla legge», con ciò rinviando alla normativa nazionale la definizione del quadro generale delle competenze.

12. – Le questioni che attengono al secondo dei sopra indicati nuclei tematici, relativo all’individuazione della sfera di competenza in cui collocare la normativa denunciata e già esaminato al punto 7, sono poste dalle Regioni Piemonte, Liguria, Toscana, Umbria, Marche, Emilia-Romagna e Puglia. Le ricorrenti contestano la riconducibilità di diverse disposizioni dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 – sia nella formulazione originaria sia in quella vigente – nonché del decreto-legge n. 135 del 2009 alla competenza legislativa esclusiva statale in materia di «tutela della concorrenza». La normativa denunciata si collocherebbe, per la Regione Marche, nell’ambito della potestà regolamentare degli enti locali di cui all’art. 117, sesto comma, Cost.; per la Regione Puglia, nell’ambito della competenza regionale concorrente in materia di tutela della salute e alimentazione; nonché, per le altre ricorrenti, nell’ambito della materia dei servizi pubblici locali, di competenza regionale residuale.

12.1. – Occorre innanzitutto esaminare le questioni che, in ragione della loro formulazione, non consentono un esame nel merito.

12.1.1. – Le Regioni Liguria (ricorso n. 12 del 2010) e Umbria impugnano il comma 8 dell’art. 23-bis, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, in riferimento all’art. 117, secondo comma, Cost., «per erronea interpretazione dei confini dei poteri statali ivi previsti».
La questione è inammissibile per genericità, perché le ricorrenti non specificano a quali tra le molteplici competenze dello Stato disciplinate dall’art. 117, secondo comma, Cost. si debba far riferimento ai fini dello scrutinio di costituzionalità.

12.1.2. – Le stesse Regioni Liguria e Umbria impugnano il medesimo comma 8 dell’art. 23-bis, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009 anche in riferimento all’art. 118, primo e secondo comma, Cost., «per violazione del principio di sussidiarietà e della titolarità comunale di funzioni proprie».
Anche tale questione è inammissibile per genericità, perché le ricorrenti non specificano in cosa consista la dedotta violazione del principio di sussidiarietà, né quali siano le funzioni proprie dei Comuni cui fanno riferimento.

12.1.3. – Il comma 8 dell’art. 23-bis, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, è censurato anche dalla Regione Emilia-Romagna, in quanto lesivo del «principio di pluralismo paritario istituzionale, in violazione degli artt. 114 e 118 Cost.» e dell’art. 117, quarto comma, Cost., perché contiene una disciplina così rigida da annullare qualsiasi autonomia esercitabile in materia e lede, perciò, il principio di sussidiarietà.
La questione è inammissibile per genericità, perché la ricorrente si limita ad affermare che la norma denunciata annulla «qualsiasi autonomia esercitabile in materia», senza indicare quali siano le competenze costituzionali che ritiene lese e senza spiegare le ragioni della prospettata lesione.

12.2. – Le questioni attinenti allo stesso nucleo tematico che, invece, debbono essere scrutinate nel merito vanno distinte tra quelle che riguardano:

a) la disciplina in generale del SPL, a regime e transitoria (commi 1, 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis, nel testo originario e in quello vigente, nonché comma 8 dello stesso articolo, nel testo vigente);

b) la determinazione delle soglie minime per l’assoggettamento al parere dell’AGCM (comma 4-bis dell’art. 23-bis, nel testo vigente);

c) la determinazione dei bacini di gara (comma 7 dell’art. 23-bis, nel testo originario);

d) l’assoggettamento al patto di stabilità e la gestione associata dei servizi (comma 10, lettere a e b, nel testo originario e vigente dell’art. 23-bis).

Tali gruppi di questioni vanno esaminati separatamente.

12.3. – Il primo gruppo di questioni – attinente, come si è visto, alla competenza a disciplinare in generale i servizi pubblici locali ed avente ad oggetto i commi 1, 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis, nel testo originario e in quello vigente, nonché il comma 8 dello stesso articolo, nel testo vigente – è posto dalle Regioni Piemonte, Liguria, Toscana, Umbria, Marche ed Emilia-Romagna.

12.3.1. – La Regione Piemonte (ricorso n. 77 del 2008) censura i commi 1, 2 e 3 dell’art. 23-bis, nel testo originario.
Le disposizioni censurate, già sinteticamente riportate al punto 1.1., prevedono che:

a) «Le disposizioni del presente articolo disciplinano l’affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, in applicazione della disciplina comunitaria e al fine di favorire la più ampia diffusione dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di tutti gli operatori economici interessati alla gestione di servizi di interesse generale in ambito locale, nonché di garantire il diritto di tutti gli utenti alla universalità ed accessibilità dei servizi pubblici locali ed al livello essenziale delle prestazioni, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettere e) e m), della Costituzione, assicurando un adeguato livello di tutela degli utenti, secondo i principi di sussidiarietà, proporzionalità e leale cooperazione. Le disposizioni contenute nel presente articolo si applicano a tutti i servizi pubblici locali e prevalgono sulle relative discipline di settore con esse incompatibili» (comma 1);
b) «Il conferimento della gestione dei servizi pubblici locali avviene, in via ordinaria, a favore di imprenditori o di società in qualunque forma costituite individuati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, nel rispetto dei principi del Trattato che istituisce la Comunità europea e dei principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità» (comma 2);
c) «In deroga alle modalità di affidamento ordinario di cui al comma 2, per situazioni che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato, l’affidamento può avvenire nel rispetto dei principi della disciplina comunitaria» (comma 3).

La ricorrente sostiene che tali disposizioni violano l’art. 117, quarto comma, Cost., il quale attribuisce alle Regioni la competenza legislativa residuale in materia di pubblici servizi, perché, non permettendo alle Regioni di optare per affidamenti dei servizi in house anche nelle ipotesi diverse da quelle del comma 3, determinano, di fatto, una compressione delle loro attribuzioni costituzionali in materia; compressione non giustificabile sulla base dell’esercizio di competenze legislative esclusive dello Stato, in particolare in materia di tutela della concorrenza.

12.3.2. – La Regione Liguria (ricorso n. 72 del 2008) censura, oltre ai commi 2 e 3 riportati al punto precedente, anche il comma 4 dell’art. 23-bis, nel testo originario, il quale prevede che: «Nei casi di cui al comma 3, l’ente affidante deve dare adeguata pubblicità alla scelta, motivandola in base ad un’analisi del mercato e contestualmente trasmettere una relazione contenente gli esiti della predetta verifica all’Autorità garante della concorrenza e del mercato e alle autorità di regolazione del settore, ove costituite, per l’espressione di un parere sui profili di competenza da rendere entro sessanta giorni dalla ricezione della predetta relazione».
Ad avviso della ricorrente, le disposizioni impugnate violano l’art. 117, quarto comma, Cost., il quale attribuisce alle Regioni la competenza legislativa residuale in materia di pubblici servizi, per motivi analoghi a quelli formulati dalla Regione Piemonte al punto precedente.

12.3.3. – La Regione Piemonte (ricorso n. 77 del 2008) censura i commi 3 e 4 dell’art. 23-bis, nel testo originario, sostenendo che essi violano l’art. 117, quarto e sesto comma, «per avere il legislatore statale invaso la sfera di competenza normativa della Regione Piemonte e degli enti territoriali piemontesi nella definizione dello svolgimento delle funzioni loro attribuite […] poiché una parte della norma prevede una disciplina particolare del procedimento di affidamento della gestione a soggetti diversi dagli operatori di mercato, tra cui l’in house providing», disciplina che spetta alla competenza legislativa regionale.

12.3.4. – La Regione Toscana censura i commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 2009, n. 166, in riferimento all’art. 117, secondo e quarto comma, Cost., perché esprimono una prevalenza della gestione esternalizzata dei servizi pubblici locali, in quanto intervengono nella materia dell’organizzazione della gestione di detti servizi, con una normativa di dettaglio, che non lascia margini all’autonomia del legislatore regionale, pur perseguendo finalità che esulano da profili strettamente connessi alla tutela della concorrenza.

12.3.5. – Le Regioni Liguria (ricorso n. 12 del 2010) e Umbria impugnano – in riferimento all’art. 117, quarto comma, Cost. – i commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, nel testo vigente, sul rilievo che essi limitano la potestà legislativa regionale di disciplinare il normale svolgimento del servizio pubblico da parte dell’ente, sottoponendo la scelta dell’affidamento in house a vincoli sia sostanziali (le «peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento») che procedurali (l’onere di trasmettere una relazione contenente gli esiti della predetta verifica all’Autorità garante della concorrenza e del mercato e alle autorità di regolazione del settore).
Le stesse ricorrenti censurano i medesimi commi in riferimento l’art. 118, primo e secondo comma, Cost., sostenendo che essi, vietando lo svolgimento diretto del servizio idrico, vanificano «la norma che assegna, preferibilmente, le funzioni amministrative ai comuni (il servizio idrico virtualmente rimane di spettanza dei comuni ma in concreto viene assegnato ad altri soggetti; inoltre, la norma impugnata toglie ai comuni una parte essenziale della funzione, cioè la possibilità di scegliere la forma di gestione più adeguata)» e svuotano il principio di sussidiarietà, perché si pongono in contrasto con il principio secondo cui «i comuni “sono titolari di funzioni amministrative proprie”».

12.3.6. – La Regione Marche impugna – per il caso in cui la Corte costituzionale non volesse accogliere la ricostruzione del servizio idrico integrato come riconducibile alla potestà regolamentare degli enti locali ex art. 117, sesto comma, Cost. – i commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, e l’art. 15, comma 1-ter, dello stesso decreto-legge n. 135 del 2009, nella parte in cui si riferiscono al servizio idrico integrato, affermando che essi violano l’art. 117, secondo comma, lettera e), e quarto comma, Cost., perché disciplinano illegittimamente la materia dei servizi pubblici locali, nella quale le Regioni hanno potestà legislativa residuale.

12.3.7. – La Regione Piemonte (ricorso n. 16 del 2010) impugna i commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, in riferimento all’art. 117, quarto comma, Cost., rilevando che essi recano una disciplina che non è riconducibile alla materia della tutela della concorrenza, né ad altre materie di competenza statale, ma alla potestà legislativa residuale delle Regioni.

12.3.8. – La Regione Emilia-Romagna (ricorso n. 13 del 2010) censura il comma 3 dell’art. 23-bis citato, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, perché esso, ammettendo la modalità di affidamento del servizio direttamente a società in house solo in via eccezionale, limita la potestà legislativa regionale di disciplinare il normale svolgimento del servizio pubblico da parte dell’ente, sottoponendo tale scelta a vincoli sia sostanziali che procedurali e, di conseguenza, viola l’art. 117, quarto comma, Cost.
La stessa Regione impugna il medesimo comma in riferimento all’art. 118, primo e secondo comma, Cost., perché, vietando lo svolgimento diretto del servizio idrico, vanifica il principio per cui le funzioni amministrative sono assegnate preferibilmente ai comuni e svuota il principio di sussidiarietà, ponendosi in contrasto con il principio secondo cui «i comuni “sono titolari di funzioni amministrative proprie”».

12.3.9. – La Regione Piemonte (ricorso n. 16 del 2010) censura i commi 3 e 4 dell’art. 23-bis citato, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, sostenendo che essi violano l’art. 117, quarto e sesto comma, Cost., per motivi analoghi a quelli riportati al punto 12.3.3.

12.3.10. – La Regione Toscana impugna il comma 8 dell’art. 23-bis citato, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, in riferimento all’art. 117, primo comma, secondo comma, lettera e), e quarto comma Cost., lamentando che il legislatore statale, con la disciplina in esame, non ha limitato il proprio intervento agli aspetti più strettamente connessi alla tutela della concorrenza ed alla regolazione del mercato, ma è intervenuto, con una norma di dettaglio, sottraendo alle Regioni la libera determinazione se ricorrere o meno al mercato ai fini della gestione del servizio pubblico; determinazione che rientra nell’ambito del buon andamento dell’organizzazione dei servizi pubblici, che spetta alle Regioni ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost.

12.3.11. – Le Regioni Liguria (ricorso n. 12 del 2010) e Umbria censurano il comma 8 dell’art. 23-bis citato, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, in riferimento all’art. 117, quarto comma, Cost., affermando che esso limita la potestà legislativa regionale di disciplinare, anche sotto il profilo temporale, il normale svolgimento del servizio pubblico da parte dell’ente, sottoponendo tale scelta a vincoli sia sostanziali che procedurali e che viola la potestà legislativa regionale piena in materia di servizi locali e organizzazione degli enti locali».
Le stesse Regioni censurano, in subordine, il medesimo comma, per il caso in cui «fosse ritenuta legittima l’imposizione di un regime “ordinario” di affidamento del servizio all’esterno e la limitazione a casi eccezionali di forme di gestione non concorrenziali», in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera e), e quarto comma, Cost., lamentando che esso regola nel dettaglio le quantità, le modalità e i tempi delle cessioni delle gestioni dei servizi.

12.3.12. – La Regione Emilia-Romagna (ricorso n. 13 del 2010) censura il comma 8 dell’art. 23-bis citato, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, in riferimento all’art. 117, quarto comma, Cost., sostenendo che esso incide sull’assetto del sistema regionale degli affidamenti, ledendo il ruolo della Regione, anche di tipo legislativo, nel definire la durata degli affidamenti medesimi.

12.3.13. – La Regione Piemonte (ricorso n. 16 del 2010) censura lo stesso comma 8 dell’art. 23-bis citato, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, in relazione agli artt. 5, 114, 117, secondo e sesto comma, 118, Cost., «anche con riferimento all’art. 3, Cost.», perché, «cancella d’un tratto la legittimità […] di tutte le gestioni di servizio pubblico in capo a società mista ove la gara per la scelta del socio privato – pure avvenuta con procedura conforme all’ordinamento europeo ed italiano – abbia avuto ad oggetto unicamente la partecipazione finanziaria», con conseguente lesione della competenza degli enti territoriali «sull’organizzazione degli stessi anche con riferimento ad enti strumentali controllati da tali enti territoriali o a partecipazioni di minoranza».

12.3.14. – Le questioni indicate ai punti da 12.3.1. a 12.3.13. non sono fondate, per le ragioni ampiamente esposte al punto 7.
Si è visto, infatti, che la disciplina delle modalità di affidamento della gestione dei servizi pubblici locali prevista dalle disposizioni censurate afferisce alla materia «tutela della concorrenza», di competenza legislativa esclusiva dello Stato.

12.3.15. – La Regione Puglia censura, in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., i commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, perché:

a) «limitano la potestà legislativa regionale di disciplinare il normale svolgimento del servizio pubblico da parte dell’ente e di gestire in proprio i servizi pubblici», attraverso vincoli sostanziali e procedurali, impedendo una previa valutazione comparativa da parte dell’amministrazione fra tutte le possibili opzioni di scelta della forma di gestione, «cioè se fruire dei vantaggi economici offerti dal mercato dei produttori oppure se procedere a modellare una propria struttura capace di diversamente configurare l’offerta delle prestazioni di servizio pubblico»;
b) non si limitano a stabilire principi fondamentali della materia, ma dettano «una disciplina articolata e specifica, invasiva delle competenze regionali anche in materia di regolazione del servizio idrico integrato», che sono ascrivibili all’evocato parametro «nella misura in cui quel servizio sia funzionalizzato e utilizzato a fini di alimentazione e di tutela della salute».

La stessa ricorrente censura altresì, in riferimento allo stesso parametro, il comma 8 dell’art. 23-bis, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, perché, stabilendo che cessano al 31 dicembre 2010 gli affidamenti rilasciati con procedure diverse dall’evidenza pubblica salvo quelli conformi ai vincoli ulteriori di istruttoria e motivazione previsti dalla nuova disciplina, «parrebbe determinare per l’effetto la cessazione di tutti gli affidamenti attribuiti secondo la disciplina previgente (d.lgs. n. 267 del 2000, art. 113, comma 5, lettera c), ponendo nell’incertezza l’attuazione dei piani gestionali e di investimento, nonché i relativi piani tariffari, travolgendo rapporti giuridici perfezionati ed in via di esecuzione che le parti vogliono vedere procedere secondo la loro scadenza naturale».
Le questioni non sono fondate, per erronea interpretazione del parametro.
Infatti, la Regione muove dall’assunto che la materia dei servizi pubblici locali sia riconducibile alla competenza legislativa concorrente di cui all’art. 117, terzo comma, Cost. Tale parametro è del tutto inconferente con la fattispecie in esame, perché esso non costituisce il fondamento dell’invocata competenza legislativa regionale in materia di servizi pubblici.

12.3.16. – La Regione Piemonte censura i commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis, sia nel testo originario (ricorso n. 77 del 2008) che nel testo vigente (ricorso n. 16 del 2010), in relazione ai parametri «dell’art. 117, commi primo, secondo, terzo, quarto, Cost. con riferimento agli articoli 114, 117, sesto comma, e 118, commi primo e secondo, Cost.», perché ledono «l’autonomia costituzionale propria dell’intero sistema degli enti locali», limitando la «capacità d’organizzazione e di autonoma definizione normativa dello svolgimento delle funzioni di affidamento dei servizi pubblici locali», in quanto la legislazione statale può legittimamente imporre una determinata forma di gestione di un servizio pubblico solo previa avocazione allo Stato della competenza sull’organizzazione della gestione dei servizi «sinora considerati locali (es. idrico integrato, raccolta dei rifiuti solidi urbani) sul presupposto che l’esercizio unitario di tali servizi sia divenuto ottimale solo a livello d’ambito statale (art. 118, primo comma, Cost.)».
La questione non è fondata.
Essa si basa sull’assunto della ricorrente secondo cui il legislatore statale può legittimamente disciplinare le forme di gestione di un servizio pubblico locale solo previa avocazione allo Stato della competenza amministrativa sull’organizzazione della gestione del servizio stesso. Tale assunto non può essere condiviso, perché la competenza legislativa esclusiva statale nella materia «tutela della concorrenza» comprende anche la disciplina amministrativa relativa all’organizzazione delle modalità di gestione dei servizi pubblici locali, a prescindere dall’avocazione allo Stato di competenze amministrative degli altri livelli territoriali di governo.

12.4. – Il secondo gruppo di questioni da esaminare nel merito – attinenti sempre al nucleo tematico relativo all’ individuazione della competenza legislativa a disciplinare i servizi pubblici locali – concerne la determinazione delle soglie minime per l’assoggettamento al parere dell’AGCM (comma 4-bis dell’art. 23-bis, nel testo vigente). Detto gruppo si identifica nella questione promossa dalla Regione Emilia Romagna con il ricorso n. 13 del 2010.
La ricorrente impugna il comma 4-bis dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, il quale stabilisce che «I regolamenti di cui al comma 10 definiscono le soglie oltre le quali gli affidamenti di servizi pubblici locali assumono rilevanza ai fini dell’espressione del parere di cui al comma 4».
La Regione deduce che tale disposizione – affidando ad un regolamento governativo il compito di individuare le soglie oltre le quali è richiesto il parere dell’AGCM per le gestioni in house – viola l’art. 117, sesto comma, Cost., perché le determinazioni relative a tali soglie non possono che essere assunte in sede regionale, entro limiti fissati direttamente dalla legge statale. Infatti, sempre per la ricorrente, con la fissazione delle suddette soglie, si determina un livello di efficienza del servizio che può essere concretamente e correttamente apprezzato solo a livello regionale e che è illegittimo demandare alla fonte regolamentare, in mancanza di una competenza legislativa esclusiva statale.
La questione non è fondata, perché le soglie cui fa riferimento la norma censurata attengono alle modalità di affidamento dei servizi pubblici locali, le quali afferiscono – come visto al punto 7 – alla materia «tutela della concorrenza», di competenza legislativa esclusiva dello Stato e non alla materia dei pubblici servizi. Ne deriva che lo Stato è titolare anche della competenza regolamentare, in base al disposto dell’evocato art. 117, sesto comma, Cost.

12.5. –Il terzo gruppo di questioni da esaminare nel merito e riguardanti il nucleo tematico attinente all’individuazione della competenza legislativa a disciplinare i servizi pubblici locali concerne la determinazione dei bacini di gara (comma 7 dell’art. 23-bis, nel testo originario).
Le Regioni Emilia-Romagna (ricorso n. 69 del 2008) e Liguria (ricorso n. 72 del 2008) impugnano il comma 7 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, nella formulazione originaria, per violazione degli artt. 117, quarto comma, e 118, primo e secondo comma, Cost.
La disposizione censurata prevede che «Le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle rispettive competenze e d’intesa con la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, possono definire, nel rispetto delle normative settoriali, i bacini di gara per i diversi servizi, in maniera da consentire lo sfruttamento delle economie di scala e di scopo e favorire una maggiore efficienza ed efficacia nell’espletamento dei servizi, nonché l’integrazione di servizi a domanda debole nel quadro di servizi più redditizi, garantendo il raggiungimento della dimensione minima efficiente a livello di impianto per piú soggetti gestori e la copertura degli obblighi di servizio universale».
Le ricorrenti sostengono che la disciplina della dimensione di esercizio dei servizi pubblici rientra nella potestà legislativa «della regione e il condizionare l’esercizio di tale potestà e delle scelte amministrative che essa esprime ad opera dello Stato viola sia la potestà legislativa in sé considerata […], sia il principio di sussidiarietà, non potendosi vedere alcuna ragione di centralizzazione di tali scelte».
Le questioni non sono fondate.
La norma censurata disciplina la dimensione di esercizio dei servizi pubblici, attribuendo alle Regioni e agli enti locali la competenza ad individuare i bacini di gara per i diversi servizi nel rispetto della legge statale. Come già affermato da questa Corte con la sentenza n. 246 del 2009, con specifico riferimento al servizio idrico integrato, la disciplina dei bacini di gestione del servizio pubblico (e, pertanto, anche dei bacini di gara) rientra nella potestà legislativa statale, perché diretta a tutelare la concorrenza, attraverso il superamento della frammentazione delle gestioni. Non trovano perciò applicazione, nella specie, né l’art. 117, quarto comma, Cost., né l’art. 118 Cost.

12.6. – Il quarto gruppo di questioni da esaminare nel merito – attinenti sempre al tema dell’individuazione della competenza legislativa in ordine ai servizi pubblici locali – riguarda l’assoggettamento al patto di stabilità e la gestione associata dei servizi (comma 10, lettere a e b, nel testo originario e in quello vigente dell’art. 23-bis).
Le Regioni Emilia-Romagna (ricorsi n. 69 del 2008 e n. 13 del 2010), Liguria (ricorso n. 72 del 2008) e Piemonte (ricorso n. 77 del 2008) impugnano il comma 10 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 – il cui alinea prevede che «il Governo, su proposta del Ministro per i rapporti con le regioni ed entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, sentita la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, nonché le competenti Commissioni parlamentari, adotta uno o più regolamenti di delegificazione, ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400» – e formulano censure specifiche in relazione alle lettere a) e b) di detto comma. Per quanto qui rileva, tali lettere stabiliscono – sia nella versione originaria, sia in quella, sostanzialmente coincidente, modificata dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009 – , che i suddetti regolamenti statali prevedano: l’assoggettamento dei soggetti affidatari diretti di servizi pubblici locali al patto di stabilità interno e l’osservanza, da parte delle società in house e delle società a partecipazione mista pubblica e privata, di «procedure ad evidenza pubblica per l’acquisto di beni e servizi e l’assunzione di personale» (lettera a); la possibilità per i Comuni con un limitato numero di residenti, di «svolgere le funzioni relative alla gestione dei servizi pubblici locali in forma associata» (lettera b).
Quanto alla formulazione originaria della norma, le ricorrenti evocano quale parametro di costituzionalità l’art. 117, sesto comma, Cost., secondo cui la potestà regolamentare spetta allo Stato nelle sole materie di potestà legislativa esclusiva statale, salva delega alle Regioni. La sola Regione Piemonte evoca anche l’art. 117, secondo e quarto comma, Cost., nonché «il principio di ragionevolezza e leale collaborazione» (artt. 3 e 120 Cost.).
Quanto alla formulazione vigente della norma, la Regione Emilia-Romagna (ricorso n. 13 del 2010) evoca quale parametro l’art. 117, secondo e quarto comma, Cost.
Tutte le disposizioni oggetto di censura violerebbero gli evocati parametri: in via principale, perché lo Stato, non avendo potestà legislativa in materia, non ha neanche potestà regolamentare né in relazione alla lettera a), né in relazione alla lettera b) dell’art. 10; in via subordinata, perché il solo modo di contemperare le competenze rispettive dello Stato e delle Regioni consisterebbe nel sottoporre il regolamento all’intesa della Conferenza Stato-Regioni o della Conferenza unificata, in luogo del semplice parere previsto dalle disposizioni impugnate, tenuto conto dell’inestricabile intreccio esistente al riguardo tra le materie oggetto di potestà concorrente (come il coordinamento della finanza pubblica, fondamento della lettera a) o esclusiva delle Regioni (come nel caso della gestione associata dei servizi locali, oggetto della lettera b), e la competenza dello Stato.
In riferimento alla prima parte della lettera a) – in cui si prevede che la potestà regolamentare dello Stato prescriva l’assoggettamento dei soggetti affidatari diretti di servizi pubblici locali al patto di stabilità interno – la questione è fondata.
Infatti, l’ambito di applicazione del patto di stabilità interno attiene alla materia del coordinamento della finanza pubblica (sentenze n. 284 e n. 237 del 2009; n. 267 del 2006), di competenza legislativa concorrente, e non a materie di competenza legislativa esclusiva statale, per le quali soltanto l’art. 117, sesto comma, Cost. attribuisce allo Stato la potestà regolamentare.
In riferimento alla seconda parte della lettera a) – che stabilisce che la potestà regolamentare dello Stato prescriva alle società in house e alle società a partecipazione mista pubblica e privata di osservare «procedure ad evidenza pubblica per l’acquisto di beni e servizi e l’assunzione di personale» – la questione non è fondata.
Tale disposizione, infatti, attiene, in primo luogo, alla materia della tutela della concorrenza, perché è finalizzata ad evitare che, nel caso di affidamenti diretti, si possano determinare distorsioni dell’assetto concorrenziale del mercato nella fase, successiva all’affidamento del servizio, dell’acquisizione degli strumenti necessari alla concreta gestione del servizio stesso. In secondo luogo, essa attiene anche alla materia dell’ordinamento civile, anch’essa di competenza esclusiva dello Stato, in quanto impone alla particolare categoria di società cui è affidata in via diretta la gestione di servizi pubblici locali una specifica modalità di conclusione dei contratti per l’acquisto di beni e servizi e per l’assunzione di personale (sulla riconduzione delle modalità di conclusione dei contratti alla materia dell’ordinamento civile, ex plurimis, sentenza n. 295 del 2009). Ne consegue che la previsione del semplice parere della «Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni», anziché dell’intesa, non lede alcuna competenza regionale.
In riferimento alla lettera b) – che attribuisce allo Stato la potestà di prevedere con regolamento che «i comuni con un limitato numero di residenti possano svolgere le funzioni relative alla gestione dei servizi pubblici locali in forma associata» –, la questione è, del pari, non fondata.
Infatti, l’ambito nel quale il regolamento statale interviene attiene alla materia «tutela della concorrenza», avendo per oggetto la determinazione della dimensione ottimale della gestione del servizio (sentenza n. 246 del 2009, punti 12.2. e 12.5. del Considerato in diritto). Ne consegue, anche in tal caso, che la previsione del semplice parere della «Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni», anziché dell’intesa, non lede alcuna competenza regionale.

13. – Al terzo dei sopra indicati nuclei tematici (analizzato al punto 8.), relativo al principio di ragionevolezza, sotto il profilo della proporzionalità ed adeguatezza, attengono alcune delle questioni proposte dalle Regioni Piemonte, Liguria, Umbria, Toscana ed Emilia-Romagna.

13.1. – Occorre innanzitutto esaminare le questioni proposte dalle Regioni Piemonte ed Emilia-Romagna che, in ragione della loro formulazione, non consentono un esame nel merito.

13.1.1. – La Regione Piemonte (con il ricorso n. 77 del 2008) censura il testo originario del comma 8 dell’art. 23-bis in riferimento agli artt. 5, 114, 117, sesto comma, e 118 Cost., sul rilievo che detto comma determina la cessazione «di tutti gli affidamenti attribuiti secondo la disciplina previgente (d.lgs. n. 267 del 2000, cit., art. 113, comma 5, lettera c), ponendo in forse l’attuazione dei piani gestionali e di investimento, nonché i relativi piani tariffari, travolgendo rapporti giuridici perfezionati ed in via di esecuzione che le parti vogliono vedere procedere secondo la loro scadenza naturale, al pari delle concessioni rilasciate ad imprese terze secondo le procedure ad evidenza pubblica».
La questione è inammissibile, per difetto di motivazione, in quanto la ricorrente non spiega perché gli evocati parametri siano violati. E ciò, a prescindere dalla considerazione svolta al punto 8.2., secondo cui il legislatore statale può legittimamente stabilire, come nel caso in esame, una disciplina transitoria allo scopo di modulare nel tempo gli effetti del divieto di utilizzazione in via ordinaria dello strumento della gestione in house.

13.1.2. – La Regione Piemonte (con il ricorso n. 16 del 2010) impugna il testo del comma 8 dell’art. 23-bis, come modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, in riferimento agli artt. 3, 5, 42, 114, 117, sesto comma, e 118, Cost., perché stabilisce «una generalizzata cessazione anticipata al 31 dicembre 2011 disposta ex lege per tutti gli affidamenti in house providing, anche di quelli effettuati dagli enti territoriali in conformità all’ordinamento comunitario e italiano, con grave svalutazione dei valori di mercato dei corrispettivi di cessione delle partecipazioni a causa della simultanea attuazione su tutto il territorio nazionale dell’alienazione del 40% di un numero rilevante di società in mano agli enti locali».
La questione è inammissibile, perché si risolve in una valutazione critica in termini di convenienza economica in ordine ai tempi di attuazione della riforma degli affidamenti; valutazione che rimane riservata alla discrezionalità del legislatore.

13.1.3. – La Regione Emilia-Romagna (ricorso n. 13 del 2010) impugna il comma 9 dell’art. 23-bis, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009 – il quale pone, attraverso un’articolata previsione, limiti alla possibilità per i gestori di SPL di gestire servizi ulteriori ovvero in ambiti territoriali diversi o di svolgere servizi od attività per altri enti pubblici o privati – in riferimento all’art. 117, quarto comma, Cost., perché reca interventi irragionevoli e non proporzionali agli scopi di tutela della concorrenza prefissati.
La questione è inammissibile per genericità, perché la ricorrente non chiarisce le ragioni per cui la disciplina contenuta nella disposizione censurata sarebbe irragionevole e non proporzionale alla tutela della concorrenza.

13.2. – Le questioni attinenti allo stesso terzo nucleo tematico (concernente la ragionevolezza della disciplina censurata) che devono essere scrutinate nel merito sono state proposte dalle Regioni Piemonte, Liguria, Umbria e Toscana.

13.2.1. – La Regione Piemonte censura i commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis sia nel testo originario (ricorso n. 77 del 2008) che nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009 (ricorso n. 10 del 2010), nonché il comma 1-ter dell’art. 15 del decreto-legge n. 135 del 2009, in relazione all’art. 117, secondo comma, «con riferimento all’art. 3 Cost.», perché la disciplina contenuta nelle disposizioni censurate, anche ove fosse ritenuta di tutela della concorrenza, difetterebbe di proporzionalità e adeguatezza.
Le Regioni Liguria e Umbria censurano – per il caso in cui «fosse ritenuta legittima l’imposizione di un regime “ordinario” di affidamento del servizio all’esterno e la limitazione a casi eccezionali di forme di gestione non concorrenziali» – i commi 2, lettera b), e 3 dell’art. 23-bis, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, nella parte in cui regolano in dettaglio l’affidamento del servizio a società miste e le forme di affidamento non competitive, per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), e quarto comma, Cost., lamentando che dette disposizioni contrastano con il criterio di proporzionalità che deve guidare la tutela della concorrenza, invadendo il campo riservato alla potestà legislativa regionale in materia di servizi pubblici, in quanto pongono ulteriori vincoli alla potestà legislativa regionale, senza che essi risultino funzionali ad una maggiore promozione della concorrenza, della quale potrebbero persino risultare limitativi.
Le ricorrenti lamentano che le norme denunciate violano il principio di ragionevolezza sotto il profilo della proporzionalità e adeguatezza nella materia della tutela della concorrenza attraverso l’apposizione di limiti all’utilizzabilità della gestione in house, rappresentati dalle peculiari circostanze richieste dal comma 3 per consentire il ricorso all’in house providing; con ciò intendendo chiedere che sia garantita agli enti territoriali la possibilità di scegliere discrezionalmente se fare ricorso a tale forma di gestione, indipendentemente dalla sussistenza di eccezionali situazioni che non permettono un efficace e utile ricorso al mercato.
Le questioni non sono fondate.
Come già ampiamente evidenziato al punto 8., le norme censurate devono, invece, essere considerate proporzionate e adeguate, perché:

a) esse si innestano coerentemente in un sistema normativo interno in cui già vige il divieto della gestione diretta mediante azienda speciale o in economia, nel quale, pertanto, i casi di affidamento in house debbono essere eccezionali e tassativamente previsti;
b) l’ordinamento comunitario, in tema di affidamento della gestione dei servizi pubblici, costituisce solo un minimo inderogabile per i legislatori degli Stati membri e, pertanto, non osta a che la legislazione interna disciplini più rigorosamente, nel senso di favorire l’assetto concorrenziale di un mercato, le modalità di tale affidamento;
c) quando non ricorrano le condizioni per l’affidamento diretto, l’ente pubblico ha comunque la facoltà di partecipare alle gare ad evidenza pubblica per l’affidamento della gestione del servizio.

13.2.2. – La Regione Piemonte censura i commi 3 e 4 dell’art. 23-bis, sia nel testo originario (ricorso n. 77 del 2008) che nel testo vigente (ricorso n. 16 del 2010), in riferimento all’art. 3 Cost., sotto il profilo del principio di ragionevolezza, perché essi contengono «norme di dettaglio così puntuali che non sarebbero neppure compatibili con una competenza esclusiva dello Stato […] e in violazione del principio di ragionevolezza (ex art. 3, secondo comma, Cost.) poiché della legge impugnata non si comprendono le ragioni di una disciplina differenziata per l’ambito locale dei pubblici servizi rispetto a quella generalmente prevista per l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ed in genere per le autorità di regolazione».
La questione non è fondata.
Contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, la previsione di norme di dettaglio – come visto al punto 8.1.1. – non viola di per sé il principio di ragionevolezza; e ciò a prescindere dal fatto che nelle materie di competenza esclusiva statale, come la tutela della concorrenza, non rileva la distinzione tra norme di dettaglio e norme di principio. Deve aggiungersi, inoltre, che il tertium comparationis della disciplina «generalmente prevista per l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ed in genere per le autorità di regolazione» è inconferente con la fattispecie in esame, perché non si riferisce all’ambito della disciplina dei pubblici servizi, ma a quello, del tutto diverso, del funzionamento dell’AGCM e delle autorità di regolazione. Tutto ciò a prescindere dalla soluzione del problema se l’AGCM abbia o no natura di autorità di regolazione.

13.2.3. – La Regione Toscana impugna il comma 8 dell’art. 23-bis, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, in riferimento all’art. 117, primo comma, secondo comma, lettera e), e quarto comma Cost., perché, nel dettare la disciplina transitoria e, in particolare, nel fissare i termini entro cui cessano gli affidamenti in essere, non rispetta i princìpi di adeguatezza e di proporzionalità cui deve attenersi il legislatore statale nella legislazione avente finalità pro concorrenziali.
La ricorrente lamenta, in sostanza, che le norme denunciate violano il principio di ragionevolezza sotto il profilo della proporzionalità e adeguatezza nella materia «tutela della concorrenza», attraverso l’apposizione di limiti temporali agli affidamenti diretti già in essere.
La questione non è fondata.
Come più analiticamente evidenziato al punto 8.2., tali limiti temporali per la cessazione delle gestioni dirette in essere devono ritenersi congrui e ragionevoli, perché sono sufficientemente ampi da consentire di attenuare le conseguenze economiche negative della cessazione anticipata della gestione e, pertanto, escludono che il gestore possa invocare quell’incolpevole affidamento nella durata naturale del contratto di servizio che, solo, potrebbe determinare l’irragionevolezza della norma; e ciò a prescindere dall’ampia discrezionalità di cui gode il legislatore in materia di disciplina transitoria.

13.2.4. – La Regione Piemonte (ricorso n. 77 del 2008) censura il comma 8 dell’art. 23-bis nella formulazione originaria – la quale prevede che, in generale «le concessioni relative al servizio idrico integrato rilasciate con procedure diverse dall’evidenza pubblica cessano comunque entro e non oltre la data del 31 dicembre 2010» – in relazione agli artt. 41, 114 e 117, secondo comma, Cost. e «con riferimento all’art. 3, Cost.», perché si pone in contrasto con «il principio di ragionevolezza e di concorrenza comunitaria» che la stessa disposizione proclama di voler affermare ed addirittura di voler superare, in quanto essa «si configura come ennesima […] norma di sanatoria degli affidamenti al mercato dei produttori seppur disposti ancora una volta in difetto di evidenza pubblica, con proroga di cui le imprese terze si possono giovare ex lege sino alla data indicata dal 31 dicembre 2010». La ricorrente censura altresì lo stesso comma nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, il quale prevede che gli affidamenti diretti già in essere cessano in date successive, a partire dal 31 dicembre 2011, a seconda delle diverse tipologie degli affidamenti stessi, per violazione degli artt. 3, 5, 42, 114, 117, sesto comma, e 118, Cost., rilevando che esso irragionevolmente realizza una sanatoria ex lege di affidamenti “illegittimi” «lesivi della concorrenza che la stessa legge qui impugnata proclama di voler riaffermare».
La ricorrente lamenta, in sostanza, che la norma impugnata – in entrambe le sue formulazioni – opera una «sanatoria», in deroga al sistema creato dallo stesso legislatore, che vieta in via ordinaria il ricorso all’in house providing, ammettendolo solo in casi particolari.
Le questioni non sono fondate.
Deve qui rilevarsi che la proroga della durata delle «concessioni relative al servizio idrico integrato rilasciate con procedure diverse dall’evidenza pubblica», di cui al censurato comma 8, va intesa come riferita non agli affidamenti in house non rispettosi della normativa comunitaria – come erroneamente ritiene la ricorrente –, ma solo a quelli che, benché in origine rispettosi della normativa comunitaria e nazionale, risultano privi dei requisiti oggi richiesti dal censurato art. 23-bis. Ne consegue che tale previsione è ragionevole – e dunque legittima –, perché non opera alcuna sanatoria, ma si limita a stabilire una disciplina transitoria per modulare nel tempo gli effetti del divieto di utilizzazione in via ordinaria dello strumento della gestione in house.

13.2.5. – La Regione Piemonte (con il ricorso n. 16 del 2010) censura il comma 8 dell’art. 23-bis, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, in riferimento agli artt. 3, 5, 42, 114, 117, sesto comma, e 118, Cost., perché tratta in modo uguale fattispecie significativamente diverse e non scagliona nel tempo il ricorso al mercato.
La questione non è fondata, perché – contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente – la disposizione censurata diversifica adeguatamente, come rilevato in modo specifico al punto 8.2., la cessazione degli affidamenti diretti in atto, sia in relazione alle diverse categorie di affidatari sia in relazione al tempo.

14. – Al quarto dei nuclei tematici sopra evidenziati (analizzato al punto 9.), relativo all’individuazione della competenza legislativa regionale o statale nella determinazione della rilevanza economica dei SPL, attiene, oltre alla questione proposta dalla Regione Marche già trattata al punto 11.4. e dichiarata non fondata, una diversa questione, proposta dalla stessa Regione – per il caso in cui il comma 1-ter dell’art. 15 del decreto-legge n. 135 del 2009 non possa interpretarsi nel senso che il servizio idrico integrato è sottoposto alla disciplina dell’art. 23-bis solo nei casi in cui «gli enti competenti abbiano scelto di organizzarlo in modo da conferirvi rilevanza economica» – ed avente ad oggetto i commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 e l’art. 15, comma 1-ter, dello stesso decreto-legge n. 135 del 2009, nella parte in cui si riferiscono al servizio idrico integrato.
Ad avviso della ricorrente, dette disposizioni violano l’art. 117, sesto comma, Cost., il quale attribuisce agli enti locali territoriali la potestà regolamentare «in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite», perché la legge statale non può imporre, in via generale e astratta, ed in modo del tutto inderogabile, la configurazione del servizio idrico integrato quale «servizio pubblico locale avente rilevanza economica», spettando tale qualificazione alla potestà regolamentare degli enti locali.
La questione non è fondata.
Infatti, l’art. 117, sesto comma, Cost. non pone una riserva di regolamento degli enti locali per la qualificazione come economica dell’attività dei servizi pubblici, perché tale qualificazione attiene – come visto al punto 9. – alla materia «tutela della concorrenza», di competenza legislativa esclusiva dello Stato, al quale pertanto spetta la potestà regolamentare nella stessa materia, ai sensi del primo periodo del sesto comma dell’art. 117 Cost.

15. – Il quinto dei nuclei tematici menzionati si riferisce – come visto al punto 2. – alla dedotta violazione degli artt. 3 e 97 Cost., sotto il profilo dell’obbligo di motivazione degli atti amministrativi.
In particolare, la Regione Piemonte impugna i commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis, sia nel testo originario (ricorso n. 77 del 2008) che nel testo vigente (ricorso n. 16 del 2010), sul rilievo che essi violano gli evocati parametri, perché:

a) la disciplina dell’affidamento del servizio pubblico locale nella forma organizzativa dell’in house providing contenuta nelle disposizioni censurate risulta lesiva della «competenza delle regioni e degli enti locali ove la s’intenda come disciplina ulteriore rispetto a quella generale sul procedimento amministrativo che da tempo prevede il dovere di motivazione degli atti amministrativi (art. 3, legge 7 agosto 1990, n. 241), secondo molti posto in attuazione del principio costituzionale di motivazione delle scelte della amministrazioni pubbliche quanto meno nella cura di pubblici interessi»;
b) «non è ravvisabile nel caso in esame alcun interesse pubblico prevalente capace di fondare sia l’esenzione dal generale dovere di motivazione per l’affidamento ad imprese terze (art. 23-bis, secondo comma), sia viceversa la limitazione dei casi sui quali può essere portata la motivazione a fondamento di altre soluzioni organizzative».

La ricorrente lamenta, in sostanza, che le norme impugnate stabiliscono per l’ente affidante l’obbligo di motivare, in base ad un’analisi di mercato, solo la scelta di procedere all’affidamento in house del servizio pubblico (art. 23-bis, comma 3) e non quella di procedere all’affidamento mediante procedure competitive ad evidenza pubblica (art. 23-bis, comma 2); obbligo che sarebbe in contrasto con gli evocati parametri, perché ulteriore rispetto al generale obbligo di motivazione degli atti amministrativi.
La questione è inammissibile.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, le Regioni sono legittimate a censurare le leggi dello Stato, mediante impugnazione in via principale, esclusivamente per questioni attinenti alla lesione del sistema di riparto delle competenze legislative, ammettendosi la deducibilità di altri parametri costituzionali soltanto ove la loro violazione comporti una compromissione delle attribuzioni regionali costituzionalmente garantite (ex plurimis, sentenze n. 156 e n. 52 del 2010; n. 289 e n. 216 del 2008). Ne deriva – in relazione al caso di specie – l’inammissibilità della questione proposta, perché la prospettata violazione dell’obbligo di motivazione di cui agli artt. 3 e 97 Cost. non comporta una compromissione delle attribuzioni regionali costituzionalmente garantite, né ridonda sul riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni. E ciò, a prescindere dalla considerazione che i parametri evocati non vietano che il legislatore stabilisca specifici obblighi di motivazione per le sole deroghe fondate sulle peculiari situazioni di fatto di cui al comma 3 e non per le situazioni ordinarie di cui al comma 2.

16. – Il sesto dei nuclei tematici evidenziati al punto 2. riguarda l’asserita irragionevole diversità di disciplina fra il servizio idrico integrato e gli altri servizi pubblici locali.
La Regione Piemonte (ricorso n. 77 del 2008) censura – sempre in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost. – il comma 10 dell’art. 23-bis, nel testo originario, sul rilievo che esso rinvia a regolamenti governativi la disciplina transitoria dei servizi pubblici locali diversi da quello idrico, «con una irragionevole differenza di trattamento che non appare giustificata […] per il servizio idrico integrato per il quale la legge statale indica senz’altro in via generale ed astratta la data di scadenza fissa del 31 dicembre 2010, mentre per gli altri servizi pubblici consente al regolamento la previsione di adeguati “tempi differenziati” in ragione di eterogeneità dei servizi presi in considerazione».
Anche tale questione è inammissibile, in base a quanto già osservato al punto 15., perché la ricorrente non ha dedotto alcuna lesione della propria sfera di competenza, ma si è limitata a lamentare l’irragionevolezza della disposizione censurata.

17. – Al settimo dei nuclei tematici elencati al punto 2., attinente alla lamentata violazione dell’autonomia finanziaria delle Regioni e degli enti locali, sono riconducibili alcune questioni poste dalle Regioni Marche, Liguria, Umbria ed Emilia-Romagna.

17.1. – Vanno preliminarmente esaminate le questioni proposte dalle Regioni Marche, Liguria ed Umbria, che non consentono un esame nel merito.

17.1.1. – La Regione Marche censura l’art. 15, comma 1-ter, del decreto-legge n. 135 del 2009, nella parte in cui si riferisce al servizio idrico integrato, per violazione dell’art. 119, sesto comma, Cost.
La ricorrente lamenta che la disposizione censurata si limita a prevedere il «rispetto» del «principio» «di piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche», senza assicurare in alcun modo la salvaguardia, né sotto il profilo formale, né sotto il profilo sostanziale, della proprietà pubblica delle «infrastrutture idriche», in particolare:

a) determinando «il sostanziale “svuotamento” della proprietà pubblica dei beni appartenenti al demanio idrico regionale e locale, beni che risulteranno, per espresso disposto del richiamato art. 153, comma 1, del d.lgs. n. 152 del 2006, necessariamente e ope legis “affidati in concessione d’uso gratuita” al gestore privato del servizio idrico integrato»;
b) omettendo di prevedere una specifica clausola di salvaguardia a favore della proprietà pubblica delle infrastrutture idriche di cui le Regioni e gli enti locali siano in concreto titolari.

La questione è inammissibile.
Essa, infatti, ha per oggetto non la disciplina posta dalla disposizione denunciata, ma l’art. 153, comma 1, del d.lgs. n. 152 del 2006, disposizione che effettivamente prevede l’affidamento in concessione d’uso gratuita delle infrastrutture idriche di proprietà degli enti locali e che non è stata impugnata. La ricorrente è quindi incorsa in una evidente aberratio ictus. Quanto, poi, al censurato art. 15, comma 1-ter, la ricorrente si limita a denunciare che il legislatore ha omesso di prevedere una clausola di salvaguardia a favore della proprietà pubblica delle infrastrutture idriche. La Regione Marche, formulando una censura generica e rivolta contro una mera omissione del legislatore, demanda a questa Corte l’indebito onere di introdurre una disciplina non indicata dalla stessa ricorrente e, comunque, non costituzionalmente obbligata.

17.1.2. – Le Regioni Liguria (ricorso n. 12 del 2010) e Umbria impugnano il comma 8 dell’art. 23-bis, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009 in riferimento all’art. 119 Cost., sotto il profilo della violazione dell’autonomia finanziaria degli enti locali, perché «impone ad essi di cedere rilevanti quote delle società da essi controllate».
La questione è inammissibile per genericità, perché le ricorrenti non indicano le ragioni per cui alla cessione delle quote delle società controllate dagli enti locali conseguirebbe l’effetto della denunciata lesione della loro autonomia finanziaria.

17.2. – L’unica questione attinente al settimo nucleo tematico che può essere esaminata nel merito è quella proposta dalla Regione Emilia-Romagna con il ricorso n. 13 del 2010.
La ricorrente impugna il comma 8 dell’art. 23-bis, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, sostenendo che esso viola l’art. 119, sesto comma, Cost., perché impone «alle Amministrazioni pubbliche di liberarsi di una quota del proprio patrimonio societario a prescindere dalla convenienza economica dell’operazione, e quindi dalla considerazione in concreto del tempo, delle modalità, della quantità, valutazioni indispensabili ad evitare che si produca una svendita coatta di capitali pubblici».
La questione non è fondata.
Il parametro costituzionale evocato, infatti, garantisce alle Regioni e agli enti locali un patrimonio, precisando però che esso è «attribuito secondo i principi generali determinati dalla legge dello Stato». L’autonomia patrimoniale delle Regioni e degli enti locali non è, dunque incondizionata, ma si conforma ai princìpi che il legislatore statale fissa nelle materie di sua competenza legislativa, fra cui va certamente ricompreso quella della tutela della concorrenza, disciplinata, nel caso in esame, proprio dalle norme censurate.

18. – Devono essere ora trattate le questioni poste dal Presidente del Consiglio dei ministri aventi ad oggetto i commi 1, 4, 5, 6 e 14 dell’art. 4 della legge della Regione Liguria n. 39 del 2008.

18.1. – Il ricorrente impugna, in primo luogo, i commi 1 e 14 di detto articolo in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., anche per il tramite dell’art. 161, comma 4, lettera c), del d.lgs. n. 152 del 2006. Tale ultima disposizione prevede, tra l’altro, che sia il Comitato per la vigilanza sull’uso delle risorse idriche e non la Giunta regionale a redigere il contenuto di una o più convenzioni-tipo da adottare con decreto del Ministro per l’ambiente e per la tutela del territorio e del mare.

18.1.1. – Ad avviso della difesa dello Stato, il censurato comma 1 – il quale affida alla Giunta regionale la competenza ad approvare lo schema-tipo di contratto di servizio e di convenzione di cui all’art. 151 del d.lgs. n. 152 del 2006 – si pone in contrasto con il comma 4, lettera c), del nuovo testo dell’art. 161 dello stesso decreto legislativo, il quale ha «tacitamente abrogato» detto art. 151 ed ha attribuito al «Comitato per la vigilanza sull’uso delle risorse idriche» – e non alla Giunta regionale – la competenza a redigere il contenuto di una o piú delle suddette convenzioni-tipo; convenzioni da adottare con decreto del Ministro per l’ambiente e per la tutela del territorio e del mare, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano.
La resistente Regione Liguria eccepisce l’improcedibilità della questione, sul rilievo che l’art. 9-bis, comma 6, del decreto-legge 28 aprile 2009, n. 39 (Interventi urgenti in favore delle popolazioni colpite dagli eventi sismici nella regione Abruzzo nel mese di aprile 2009 e ulteriori interventi urgenti di protezione civile), convertito, con modificazioni, dalla legge 24 giugno 2009, n. 77, ha soppresso il Comitato per la vigilanza sull’uso delle risorse idriche (COVIRI), sostituendolo con la Commissione nazionale per la vigilanza sull’uso delle risorse idriche (CONVIRI), la quale non ha le stesse competenze del soppresso Comitato.
L’eccezione deve essere rigettata.
La questione non è improcedibile, perché lo stesso art. 9-bis, comma 6, del decreto-legge n. 39 del 2009, citato dalla resistente, stabilisce che il CONVIRI subentra nelle competenze già attribuite al COVIRI. Esso, infatti, testualmente prevede che «la Commissione nazionale per la vigilanza sulle risorse idriche, […] a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, è istituita presso il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, subentrando nelle competenze già attribuite all’Autorità di vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti […] e successivamente attribuite al Comitato per la vigilanza sull’uso delle risorse idriche, il quale, a decorrere dalla medesima data, è soppresso». Ne consegue che, data l’identità delle competenze del COVIRI e del CONVIRI, viene meno il presupposto della prospettata eccezione e, pertanto, non si verifica la dedotta improcedibilità, con conseguente trasferimento della questione alla disposizione censurata, quale risultante dalle modificazioni legislative sopra indicate.
Nel merito, la questione è fondata.
Come si è ampiamente rilevato al punto 7, la disciplina del servizio idrico integrato va ascritta alla competenza esclusiva dello Stato nelle materie «tutela della concorrenza» e «tutela dell’ambiente» (sentenza n. 246 del 2009) e, pertanto, è inibito alle Regioni derogare a detta disciplina. Nella specie, la Regione è intervenuta, appunto, in tali materie, dettando una disciplina che si pone in contrasto con quella statale, in quanto attribuisce alla Giunta regionale una serie di competenze amministrative spettanti – come invece dispongono le norme interposte evocate dal ricorrente – al COVIRI (ora CONVIRI). Risulta così violato l’evocato parametro costituzionale, che riserva allo Stato la competenza legislativa nella materia «tutela dell’ambiente» (art. 117, secondo comma, lettera s, Cost.).

18.1.2. – La difesa dello Stato lamenta che il censurato comma 14 dell’art. 4 della legge della Regione Liguria n. 39 del 2008 – il quale affida all’Autorità d’ambito territoriale ottimale (AATO) la competenza a definire «i contratti di servizio, gli obiettivi qualitativi dei servizi erogati, il monitoraggio delle prestazioni, gli aspetti tariffari, la partecipazione dei cittadini e delle associazioni dei consumatori di cui alla legge regionale 2 luglio 2002, n. 26» – si pone «in contrasto con la normativa statale», cioè con il sopra citato comma 4, lettera c), del nuovo testo dell’art. 161 del d.lgs. n. 152 del 2006, il quale ha attribuito al COVIRI la relativa competenza.
La resistente Regione Liguria eccepisce l’inammissibilità della questione, in quanto generica, perché non sarebbero specificati i profili che determinano il contrasto con la norma statale.
L’eccezione deve essere rigettata.
La questione non è generica, perché i profili di contrasto sono sufficientemente precisati. Dalla lettura complessiva della censura, infatti, è agevole rilevare che la norma statale evocata quale parametro interposto è il comma 4, lettera c), del nuovo testo dell’art. 161 del d.lgs. n. 152 del 2006, evocato anche nella precedente questione al punto 18.1.1. e che si denuncia l’attribuzione all’Autorità d’ambito di una serie di competenze amministrative spettanti, invece, al COVIRI.
Nel merito, la questione è fondata per le stesse ragioni indicate al punto precedente. Anche in tal caso, infatti, la Regione è intervenuta, nella materia «tutela dell’ambiente», attribuendo all’Autorità d’ambito una serie di competenze amministrative spettanti, invece, al COVIRI (ora CONVIRI), ai sensi dell’art. 161, comma 4, lettera c), del d.lgs. n. 152 del 2006, ed ha pertanto violato l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.

18.2. – Il ricorrente censura, altresì, il comma 4 del medesimo art. 4 della legge della Regione Liguria n. 39 del 2008, il quale prevede la competenza dell’Autorità d’ambito a provvedere all’affidamento del servizio idrico integrato, «nel rispetto dei criteri di cui all’articolo 113, comma 7, del d.lgs. 267/2000 e delle modalità di cui agli articoli 150 e 172 del d.lgs.152/2006». La censura è proposta in relazione alla violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, per il tramite dell’art. 23-bis, commi 2, 3 e 11, del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo originario.
La difesa dello Stato evidenzia che il comma denunciato, prevedendo che l’AATO provvede all’affidamento del servizio idrico integrato, «nel rispetto dei criteri di cui all’articolo 113, comma 7, del d.lgs. 267/2000 e delle modalità di cui agli articoli 150 e 172 del d.lgs.152/2006», richiama l’art. 150 del d.lgs. n. 152 del 2006, il quale consente all’Autorità d’ambito di scegliere la forma di gestione del servizio tra quelle elencate nell’art. 113, comma 5, TUEL. Tale ultima disposizione prevede, a sua volta, che «L’erogazione del servizio avviene secondo le discipline di settore e nel rispetto della normativa dell’Unione europea, con conferimento della titolarità del servizio:

a) a società di capitali individuate attraverso l’espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica;

b) a società a capitale misto pubblico privato nelle quali il socio privato venga scelto attraverso l’espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica che abbiano dato garanzia di rispetto delle norme interne e comunitarie in materia di concorrenza secondo le linee di indirizzo emanate dalle autorità competenti attraverso provvedimenti o circolari specifiche;

c) a società a capitale interamente pubblico a condizione che l’ente o gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano».

Ad avviso della difesa dello Stato, la norma censurata, richiamando le forme di gestione dei SPL di cui al citato art. 113, comma 5, TUEL, si pone in contrasto con l’art. 23-bis, del decreto-legge n. 112 del 2008, il quale dispone, invece, che le parti del citato art. 113 incompatibili con le prescrizioni dello stesso art. 23-bis sono abrogate (comma 11), e prevede come regola per l’affidamento dei servizi pubblici locali non più quella fissata dagli artt. 150 del d.lgs. n. 152 del 2006 e 113 TUEL, bensì quella della procedura competitiva ad evidenza pubblica (comma 2), ferma restando la possibilità di ricorrere all’affidamento diretto solo in presenza delle condizioni di cui al comma 3 del medesimo articolo.
La Regione Liguria eccepisce la cessazione della materia del contendere, rilevando che il censurato comma 4 dell’art. 4 della legge della Regione Liguria n. 39 del 2008, il quale regola le competenze delle Autorità d’ambito, non ha avuto in concreto alcuna applicazione e non potrà averne, in quanto tali Autorità sono state abolite dal decreto-legge n. 135 del 2009 prima che nella Regione si procedesse alla loro istituzione.
L’eccezione deve essere rigettata.
La materia del contendere non è cessata, perché il decreto-legge n. 135 del 2009 non ha soppresso le Autorità d’ambito con effetto immediato. V’è, dunque, la possibilità che tali Autorità vengano ancora istituite ed operino fino al termine fissato dalla legge per la loro soppressione e, cioè, fino al termine di un anno indicato dall’art. 2, comma 186-bis, della legge 23 dicembre 2009, n. 191 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato legge – finanziaria 2010). Tale norma dispone, infatti, che «Decorso un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, sono soppresse le Autorità d’ambito territoriale di cui agli articoli 148 e 201 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive modificazioni. Decorso lo stesso termine, ogni atto compiuto dalle Autorità d’ambito territoriale è da considerarsi nullo. Entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, le regioni attribuiscono con legge le funzioni già esercitate dalle Autorità, nel rispetto dei princìpi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. Le disposizioni di cui agli articoli 148 e 201 del citato decreto legislativo n. 152 del 2006, sono efficaci in ciascuna regione fino alla data di entrata in vigore della legge regionale di cui al periodo precedente. I medesimi articoli sono comunque abrogati decorso un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge».
Nel merito, la questione è fondata.
La norma censurata impone, infatti, l’applicazione del comma 5 dell’art. 113 TUEL, cioè di un comma abrogato per incompatibilità dal citato art. 23-bis, con il quale, pertanto, si pone in contrasto. L’art. 23-bis prevede infatti, come sopra osservato, che «l’art. 113 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 e successive modificazioni, è abrogato nelle parti incompatibili con le disposizioni di cui al presente articolo» (comma 11). In particolare, il citato comma 5 dell’art. 113 è palesemente incompatibile con i commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis, perché disciplina le modalità di affidamento del SPL in modo difforme da quanto previsto da detti commi, evocati come norme interposte.

18.3. – Il ricorrente censura, in terzo luogo – per contrasto con l’art. 23-bis, commi 8 e 9, del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo originario, e, di conseguenza, con l’art. 117, secondo comma, lett. e), Cost. – i commi 5 e 6 del medesimo art. 4 della legge della Regione Liguria n. 39 del 2008, i quali prevedono, rispettivamente, che:

a) «Resta ferma la previsione di cui all’articolo 113, comma 15-bis, del d.lgs. 267/2000; a tal fine l’AATO determina la data di cessazione delle concessioni esistenti, avuto riguardo alla durata media delle concessioni aggiudicate nello stesso settore a seguito di procedure ad evidenza pubblica, salva la possibilità di determinare caso per caso la cessazione in una data successiva, qualora la medesima risulti proporzionata ai tempi di recupero di particolari investimenti effettuati dal gestore, fermi restando l’aggiornamento e la rinegoziazione delle convenzioni in essere» (comma 5);
b) «L’AATO individua forme e modalità dirette all’integrazione del servizio di gestione dei rifiuti e del servizio idrico, avuto riguardo agli affidamenti esistenti che non risultano cessati nei termini di cui all’articolo 113, comma 15-bis, del d.lgs. 267/2000, al fine di pervenire al superamento della frammentazione del servizio nel territorio dell’ambito» (comma 6).

A sua volta, il comma 15-bis dell’art. 113 TUEL – richiamato dalle suddette disposizioni censurate – prevede, con un’articolata serie di eccezioni soggettive, che «nel caso in cui le disposizioni previste per i singoli settori non stabiliscano un congruo periodo di transizione […] le concessioni rilasciate con procedure diverse dall’evidenza pubblica cessano comunque entro e non oltre la data del 31 dicembre 2006, relativamente al solo servizio idrico integrato al 31 dicembre 2007, senza necessità di apposita deliberazione dell’ente affidante».
Lo Stato lamenta che i commi censurati, disciplinando la cessazione delle concessioni esistenti ed il relativo regime transitorio degli affidamenti del servizio idrico integrato effettuati senza gara, attraverso il rinvio alle disposizioni di cui all’art. 113, comma 15-bis, TUEL, contrastano con l’art. 23-bis, commi 8 e 9, del decreto-legge n. 112 del 2008, che – come visto – ha abrogato l’art. 113 citato nelle parti incompatibili con le sue disposizioni e che fissa al 31 dicembre 2010 la data per la cessazione delle concessioni esistenti rilasciate con procedure diverse dall’evidenza pubblica.
Anche in relazione a tale questione, la Regione Liguria eccepisce la cessazione della materia del contendere per i motivi esposti al punto 18.2.
Tale eccezione deve essere parimenti rigettata per le stesse ragioni indicate al medesimo punto 18.2.
Nel merito, la questione è fondata.
Come già osservato al punto 18.2., la norma censurata impone l’applicazione del comma 15-bis dell’art. 113 TUEL, abrogato per incompatibilità dall’art. 23-bis, con il quale, pertanto, si pone in contrasto. Il citato comma 15-bis dell’art. 113 TUEL, infatti, è incompatibile con il suddetto art. 23-bis, perché disciplina il regime transitorio degli affidamenti diretti del servizio pubblico locale in modo difforme da quanto previsto dal parametro interposto. Ne deriva la violazione dell’art. 117, secondo comma, lett. e), Cost.

19. – Devono essere infine trattate le questioni proposte dal Presidente del Consiglio dei ministri in merito al comma 1 dell’art. 1 della legge della Regione Campania n. 2 del 2010, il quale prevede la competenza della medesima Regione a disciplinare il servizio idrico integrato regionale come servizio privo di rilevanza economica ed a stabilire autonomamente sia le forme giuridiche dei soggetti cui affidare il servizio sia il termine di decadenza degli affidamenti in essere.
La difesa dello Stato lamenta che la disposizione viola l’art. 117, commi primo e secondo, lettera e), Cost., nonché, quali norme interposte, gli artt. 141 e 154 del d.lgs. n. 152 del 2006, l’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, il decreto-legge n. 135 del 2009 e l’art. 113 TUEL – i quali stabiliscono che il servizio idrico integrato ha rilevanza economica – perché:

a) prevede che la Regione disciplini il servizio predetto «come servizio privo di rilevanza economica»;
b) regola in modo del tutto difforme dall’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 le forme giuridiche dei soggetti cui affidare il servizio ed il termine di decadenza degli affidamenti in essere, prevedendo che «tutte le forme attualmente in essere di gestione del servizio idrico con società miste o interamente private decadono a far data dalle scadenze dei contratti di servizio in essere».

Entrambe le questioni sono fondate, perché le disposizioni censurate sono in contrasto con la normativa statale evocata quale parametro interposto ed emanata nell’esercizio della competenza esclusiva dello Stato nella materia «tutela della concorrenza» (come più diffusamente argomentato al punto 7.).
In particolare, la questione di cui al punto a) è fondata, perché la disposizione censurata si pone in evidente contrasto con le sopra indicate norme statali interposte, le quali ricomprendono il servizio idrico integrato tra i servizi dotati di rilevanza economica. Come visto al punto 9., infatti, la disciplina statale pone una nozione generale e oggettiva di rilevanza economica, alla quale le Regioni non possono sostituire una nozione meramente soggettiva, incentrata cioè su una valutazione discrezionale da parte dei singoli enti territoriali.
La questione di cui al punto b) è del pari fondata, perché la disposizione censurata, che individua le figure soggettive cui conferire la gestione del servizio idrico e determina un regime transitorio per la cessazione degli affidamenti diretti già in essere, si pone in evidente contrasto con il regime transitorio disciplinato dall’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, il quale – come visto al punto 7. – non può essere oggetto di deroga da parte delle Regioni.

PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi;
riservata a separate pronunce la decisione delle altre questioni di legittimità costituzionale promosse dalle Regioni Emilia-Romagna (ricorso n. 69 del 2008) e Liguria (ricorso n. 72 del 2008), nonché dal Presidente del Consiglio dei ministri (ricorso n. 51 del 2010);

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 23-bis, comma 10, lettera a), prima parte, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria) – articolo aggiunto dalla legge di conversione 6 agosto 2008, n. 133 – sia nel testo originario, sia in quello modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135 (Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee), convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 2009, n. 166, limitatamente alle parole: «l’assoggettamento dei soggetti affidatari diretti di servizi pubblici locali al patto di stabilità interno e»;

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, commi 1, 4, 5, 6 e 14, della legge della Regione Liguria 28 ottobre 2008, n. 39 (Istituzione della Autorità d’Ambito per l’esercizio delle funzioni degli enti locali in materia di risorse idriche e gestione dei rifiuti ai sensi del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 – Norme in materia ambientale);

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge della Regione Campania 21 gennaio 2010, n. 2 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione Campania – Legge finanziaria anno 2010);

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dei commi 1, 2 e 3 dell’art. 23-bis, nel testo originario, nonché dei commi 2, 3 e 4 dello stesso art. 23-bis, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, promosse, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., dalla Regione Piemonte, con i ricorsi indicati in epigrafe;

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dei commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis, sia nel testo originario (ricorso n. 77 del 2008) sia nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, nonché del comma 10 dello stesso articolo, nel testo originario, promosse, in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., dalla Regione Piemonte, con i ricorsi indicati in epigrafe;

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dei commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, promossa, in riferimento all’art. 117, primo, secondo e quarto comma, Cost., dalla Regione Toscana, con il ricorso indicato in epigrafe;

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale del comma 8 dell’art. 23-bis, nel testo originario, promossa, in riferimento agli artt. 5, 114, 117, sesto comma, e 118 Cost., dalla Regione Piemonte, con il ricorso n. 77 del 2008 indicato in epigrafe;

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale del comma 8 dell’art. 23-bis, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, promosse, con i ricorsi indicati in epigrafe: in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., dalle Regioni Toscana ed Emilia-Romagna (ricorso n. 13 del 2010); in riferimento agli artt. 117, primo e secondo comma, 118, primo e secondo comma, e 119 Cost., dalle Regioni Liguria (ricorso n. 12 del 2010) e Umbria; in riferimento agli artt. 114, 117, quarto comma, e 118 Cost., dalla Regione Emilia-Romagna (ricorso n. 13 del 2010); in riferimento agli artt. 3, 5, 42, 114, 117, sesto comma, e 118, Cost., dalla Regione Piemonte (ricorso n. 16 del 2010; questione riportata al punto 13.6. del Considerato in diritto);

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale del comma 9 dell’art. 23-bis, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, promossa, in riferimento all’art. 117, primo e quarto comma, dalla Regione Emilia-Romagna, con il ricorso n. 13 del 2010 indicato in epigrafe;

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 15, comma 1-ter, del decreto-legge n. 135 del 2009, nella parte in cui si riferisce al servizio idrico integrato, promossa, in riferimento all’art. 119, sesto comma, Cost., dalla Regione Marche, con il ricorso indicato in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dei commi 1, 2 e 3 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo originario, promossa, in riferimento all’art. 117, quarto comma, Cost., dalla Regione Piemonte, con il ricorso n. 77 del 2008 indicato in epigrafe;

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dei commi 2, lettera b), e 3 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, promosse, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera e), e quarto comma, Cost., dalle Regioni Liguria (ricorso n. 12 del 2010) e Umbria, con i ricorsi indicati in epigrafe;

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dei commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo originario, promosse, con i ricorsi indicati in epigrafe: in riferimento all’art. 117, quarto comma, Cost., dalla Regione Liguria (ricorso n. 72 del 2008); in riferimento agli artt. 3 e 117, secondo comma, Cost., dalla Regione Piemonte (ricorso n. 77 del 2008);

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dei commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo originario (ricorso n. 77 del 2008) e in quello modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009 (ricorso n. 16 del 2010), promosse, in riferimento agli artt. 114, 117, primo, secondo, terzo, quarto e sesto comma, e 118, primo e secondo comma, Cost., dalla Regione Piemonte, con i ricorsi indicati in epigrafe;

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dei commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, promosse, con i ricorsi indicati in epigrafe: in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. e agli artt. 3, comma 1, 4, commi 2 e 4, della Carta europea dell’autonomia locale di cui alla legge 30 dicembre 1989, n. 439 (Ratifica ed esecuzione della convenzione europea relativa alla Carta europea dell’autonomia locale, firmata a Strasburgo il 15 ottobre 1985), dalle Regioni Liguria (ricorso n. 12 del 2010) e Umbria; in riferimento all’art. 117, secondo e quarto comma, Cost., dalla Regione Toscana; in riferimento agli artt. 117, quarto comma, e 118, primo e secondo comma, Cost., dalle Regioni Liguria (ricorso n. 12 del 2010) e Umbria; in riferimento all’art. 117, quarto comma, Cost., dalla Regione Piemonte, (ricorso n. 16 del 2010);

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dei commi 2, 3, 4 e 8 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, promossa, in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., dalla Regione Puglia, con il ricorso indicato in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dei commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 – nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009 – e dell’art. 15, comma 1-ter, del decreto-legge n. 135 del 2009, promossa, in riferimento agli artt. 3 e 117, secondo comma, Cost., dalla Regione Piemonte, con il ricorso n. 16 del 2010 indicato in epigrafe;

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dei commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 – nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009 – e dell’art. 15, comma 1-ter, del medesimo decreto-legge n. 135 del 2009, nella parte in cui si riferiscono al servizio idrico integrato, promosse, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. e agli artt. 14 e 106 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, nonché all’art. 117, secondo comma, lettera e), quarto e sesto comma, Cost., dalla Regione Marche, con il ricorso indicato in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del comma 3 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, promossa, in riferimento agli artt. 117, primo comma, Cost. e agli artt. 3, comma 1, 4, commi 2 e 4, della Carta europea dell’autonomia locale, nonché agli artt. 117, quarto comma, e 118, primo e secondo comma, Cost., dalla Regione Emilia-Romagna, con il ricorso n. 13 del 2010 indicato in epigrafe;

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dei commi 3 e 4 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, sia nel testo originario (ricorso n. 77 del 2008) sia nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009 (ricorso n. 16 del 2010), promosse, in riferimento agli artt. 3 e 117, quarto e sesto comma, Cost., dalla Regione Piemonte, con i ricorsi indicati in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del comma 4-bis dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, promossa, in riferimento all’art. 117, sesto comma, Cost., dalla Regione Emilia-Romagna, con il ricorso n. 13 del 2010 indicato in epigrafe;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del comma 7 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo originario, promossa, in riferimento agli artt. 117, quarto comma, e 118, primo e secondo comma, Cost., dalle Regioni Emilia-Romagna (ricorso n. 69 del 2008) e Liguria (ricorso n. 72 del 2008), con i ricorsi indicati in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del comma 8 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo originario, promossa, in riferimento agli artt. 3, 41, 114, 117, secondo comma, Cost., dalla Regione Piemonte, con il ricorso n. 77 del 2008 indicato in epigrafe;

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale del comma 8 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, promosse, con i ricorsi indicati in epigrafe: in riferimento all’art. 117, primo comma, secondo comma, lettera e), e quarto comma, Cost., dalla Regione Toscana; in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera e), e quarto comma, Cost., dalle Regioni Liguria (ricorso n. 12 del 2010) e Umbria; in riferimento agli artt. 117, quarto comma, e 119, sesto comma, Cost., dalla Regione Emilia-Romagna, (ricorso n. 13 del 2010); in riferimento agli artt. 3, 5, 42, 114, 117, secondo e sesto comma, e 118 Cost., dalla Regione Piemonte, con il ricorso n. 16 del 2010;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del comma 8 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 – nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009 – questione riportata al punto 13.7. del Considerato in diritto, promossa, in riferimento agli artt. 3, 5, 42, 114, 117, sesto comma, e 118 Cost., dalla Regione Piemonte, con il ricorso n. 16 del 2010 indicato in epigrafe.

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale del comma 10, lettere a), seconda parte, e b), dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo originario, promosse, con i ricorsi indicati in epigrafe: in riferimento all’art. 117, sesto comma, Cost., dalle Regioni Emilia-Romagna (ricorso n. 69 del 2008), Liguria (ricorso n. 72 del 2008) e Piemonte (ricorso n. 77 del 2008); in riferimento agli artt. 3, 117, secondo e quarto comma, e 120 Cost., dalla Regione Piemonte (ricorso n. 77 del 2008);

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del comma 10, lettere a), seconda parte, e b), dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, promossa, in riferimento all’art. 117, secondo e quarto comma, Cost., dalla Regione Emilia-Romagna, con il ricorso n. 13 del 2010 indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 novembre 2010.

F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Franco GALLO, Redattore

Depositata in Cancelleria il 17 novembre 2010.