AFFARI GENERALI - 071
Corte costituzionale, 17 novembre
2010, n. 325
Sull'articolo 23-bis
del decreto-legge n. 112 del 2008, convertito dalla legge n. 133 del 2008
come modificato dall’art. 15 del decreto-legge n. 135 del 2009, convertito dalla
legge n. 166 del 2009 (servizi pubblici locali)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Francesco AMIRANTE
Presidente
- Ugo DE SIERVO Giudice
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO
"
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI
"
- Sabino CASSESE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO
"
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 23-bis del
decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo
sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la
stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria),
convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, nel
testo originario ed in quello modificato dall’art. 15, comma 1, del
decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135 (Disposizioni urgenti per
l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della
Corte di giustizia delle Comunità europee), convertito, con
modificazioni, dalla legge 20 novembre 2009, n. 166; dell’art. 15, comma
1-ter, dello stesso decreto-legge n. 135 del 2009, convertito, con
modificazioni, dalla legge n. 166 del 2009; dell’art. 4, commi 1, 4, 5,
6 e 14 della legge della Regione Liguria 28 ottobre 2008, n. 39
(Istituzione delle Autorità d’Ambito per l’esercizio delle funzioni
degli enti locali in materia di risorse idriche e gestione rifiuti ai
sensi del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152. Norme in materia
ambientale); dell’art. 1, comma 1, della legge della Regione Campania 21
gennaio 2010, n. 2 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale
e pluriennale della regione Campania – Legge finanziaria anno 2010);
promossi dalle Regioni Emilia-Romagna (mediante due ricorsi), Liguria
(mediante due ricorsi), Piemonte (mediante due ricorsi), Puglia,
Toscana, Umbria e Marche e dal Presidente del Consiglio dei ministri
(mediante due ricorsi), notificati il 20 ottobre 2008, il 21 gennaio
2010, il 20 ottobre 2008, il 22 gennaio 2010, il 20 ottobre 2008, il 29
gennaio, il 9 gennaio, il 22 gennaio, il 21 gennaio ed il 22 gennaio
2010, il 30 dicembre 2008 e il 20 marzo 2010, depositati in cancelleria
il 22 ottobre 2008, il 28 gennaio 2010, il 22 ottobre 2008, il 27
gennaio, il 27 ottobre, il 29 gennaio, il 18 gennaio, il 27 gennaio, il
28 gennaio ed il 29 gennaio 2010, il 2 gennaio 2009 e il 30 marzo 2010,
ed iscritti ai nn. 69 del registro ricorsi 2008, 13 del registro ricorsi
2010, 72 del registro ricorsi 2008, 12 del registro ricorsi 2010, 77 del
registro ricorsi 2008, 16, 6, 10, 14 e 15 del registro ricorsi 2010, 2
del registro ricorsi 2009, 51 del registro ricorsi 2010.
Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri
e delle Regioni Liguria e Campania;
udito nell’udienza pubblica del 5 ottobre 2010 il Giudice relatore
Franco Gallo;
uditi gli avvocati
Giandomenico Falcon, Franco Mastragostino e Luigi
Manzi per la Regione Emilia-Romagna, Giandomenico Falcon, Luigi Manzi e
Luigi Piscitelli per la Regione Liguria,
Alberto Romano e Roberto
Cavallo Perin per la Regione Piemonte,
Nicola Colaianni e Adriana
Shiroka per la Regione Puglia,
Lucia Bora per la Regione Toscana,
Giandomenico Falcon e Luigi Manzi per la Regione Umbria,
Stefano Grassi
per la Regione Marche,
Vincenzo Cocozza per la Regione Campania
e gli
avvocati dello Stato Chiarina Aiello, Giuseppe Albenzio e Paolo Gentili
per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. – Con ricorso notificato il 20 ottobre 2008 e depositato il 22 ottobre successivo (r. ric. n. 69 del 2008), la Regione Emilia-Romagna ha impugnato, tra l’altro, i commi 7 e 10 dell’art. 23-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria) – articolo aggiunto dalla legge di conversione 6 agosto 2008, n. 133, ed entrato in vigore, in forza dell’art. 1, comma 4, di detta legge, in data 22 agosto 2008 – in riferimento all’articolo 117, quarto e sesto comma, nonché all’articolo 118, primo e secondo comma, della Costituzione.
1.1. – La ricorrente premette che, secondo la sentenza della Corte costituzionale n. 272 del 2004, la legge dello Stato può intervenire nella materia dei servizi pubblici a titolo di tutela della concorrenza solo con norme che «che garantiscono, in forme adeguate e proporzionate, la più ampia libertà di concorrenza nell’ambito di rapporti – come quelli relativi al regime delle gare o delle modalità di gestione e conferimento dei servizi – i quali per la loro diretta incidenza sul mercato appaiono piú meritevoli di essere preservati da pratiche anticoncorrenziali».
1.1.1. – La Regione impugna, in primo luogo, il comma 7 dell’art.
23-bis, il quale prevede che «Le regioni e gli enti locali, nell’ambito
delle rispettive competenze e d’intesa con la Conferenza unificata di
cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e
successive modificazioni, possono definire, nel rispetto delle normative
settoriali, i bacini di gara per i diversi servizi, in maniera da
consentire lo sfruttamento delle economie di scala e di scopo e favorire
una maggiore efficienza ed efficacia nell’espletamento dei servizi,
nonché l’integrazione di servizi a domanda debole nel quadro di servizi
più redditizi, garantendo il raggiungimento della dimensione minima
efficiente a livello di impianto per più soggetti gestori e la copertura
degli obblighi di servizio universale».
Per la ricorrente, tale disposizione, «sotto una apparenza meramente facoltizzante», vincola le Regioni e gli enti locali ad assumere le
proprie decisioni relative ai bacini di gara – corrispondenti ai bacini
di esercizio dei servizi pubblici – «d’intesa con la Conferenza
unificata», in violazione degli artt. 117, quarto comma, e 118, primo e
secondo comma, Cost.
Lamenta la Regione che la disciplina della dimensione di esercizio dei
servizi pubblici rientra nella sua potestà legislativa e che il
condizionare l’esercizio di tale potestà e delle scelte amministrative
che essa esprime lede sia la potestà stessa, sia il principio di
sussidiarietà, non sussistendo «alcuna ragione di centralizzazione di
tali scelte». Tale lesione non viene meno per il fatto che la Conferenza
unificata sia un organismo espressivo delle autonomie, perché l’intesa
con la Conferenza richiede necessariamente anche l’intesa con lo Stato,
il quale è esso stesso parte della Conferenza e perché si tratterebbe in
ogni caso di un condizionamento delle scelte della Regione da parte di
altre Regioni ed enti locali, che non hanno alcun potere da esercitare
in relazione al territorio di una specifica Regione.
1.1.2. – È censurato, in secondo luogo, il comma 10 dell’art. 23-bis, il
quale prevede che «Il Governo, su proposta del Ministro per i rapporti
con le regioni ed entro centottanta giorni dalla data di entrata in
vigore della legge di conversione del presente decreto, sentita la
Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28
agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, nonché le competenti
Commissioni parlamentari, adotta uno o più regolamenti, ai sensi
dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, al fine
di:
a) prevedere l’assoggettamento dei soggetti affidatari diretti di servizi pubblici locali al patto di stabilità interno e l’osservanza da parte delle società in house e delle società a partecipazione mista pubblica e privata di procedure ad evidenza pubblica per l’acquisto di beni e servizi e l’assunzione di personale;
b) prevedere, in attuazione dei principi di proporzionalità e di adeguatezza di cui all’articolo 118 della Costituzione, che i comuni con un limitato numero di residenti possano svolgere le funzioni relative alla gestione dei servizi pubblici locali in forma associata;
c) prevedere una netta distinzione tra le funzioni di regolazione e le funzioni di gestione dei servizi pubblici locali, anche attraverso la revisione della disciplina sulle incompatibilità;
d) armonizzare la nuova disciplina e quella di settore applicabile ai diversi servizi pubblici locali, individuando le norme applicabili in via generale per l’affidamento di tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica in materia di rifiuti, trasporti, energia elettrica e gas, nonché in materia di acqua;
e) disciplinare, per i settori diversi da quello idrico, fermo restando il limite massimo stabilito dall’ordinamento di ciascun settore per la cessazione degli affidamenti effettuati con procedure diverse dall’evidenza pubblica o da quella di cui al comma 3, la fase transitoria, ai fini del progressivo allineamento delle gestioni in essere alle disposizioni di cui al presente articolo, prevedendo tempi differenziati e che gli affidamenti di retti in essere debbano cessare alla scadenza, con esclusione di ogni proroga o rinnovo;
f) prevedere l’applicazione del principio di reciprocità ai fini dell’ammissione alle gare di imprese estere;
g) limitare, secondo criteri di proporzionalità, sussidiarietà orizzontale e razionalità economica, i casi di gestione in regime d’esclusiva dei servizi pubblici locali, liberalizzando le altre attività economiche di prestazione di servizi di interesse generale in ambito locale compatibili con le garanzie di universalità ed accessibilità del servizio pubblico locale;
h) prevedere nella disciplina degli affidamenti idonee forme di ammortamento degli investimenti e una durata degli affidamenti strettamente proporzionale e mai superiore ai tempi di recupero degli investimenti;
i) disciplinare, in ogni caso di subentro, la cessione dei beni, di proprietà del precedente gestore, necessari per la prosecuzione del servizio;
l) prevedere adeguati strumenti di tutela non giurisdizionale anche con riguardo agli utenti dei servizi;
m) individuare espressamente le norme abrogate ai sensi del presente articolo».
Tale disposizione violerebbe l’art. 117, sesto comma, Cost., perché la
materia che forma oggetto della competenza regolamentare statale da essa
prevista presenterebbe un «inestricabile intreccio con le materie
oggetto di potestà concorrente (come il coordinamento della finanza
pubblica, fondamento della lettera a) o esclusiva delle regioni (come
nel caso della gestione associata dei servizi locali, oggetto della
lettera c)». Secondo la ricorrente, in presenza di un tale intreccio di
materie, il solo modo di contemperare le competenze rispettive dello
Stato e delle Regioni sarebbe consistito nel sottoporre il regolamento
all’intesa della Conferenza Stato-Regioni o della Conferenza unificata,
in luogo del semplice parere previsto dalla disposizione impugnata.
In particolare, con riferimento alla lettera b) del comma 10 dell’art.
23-bis, la ricorrente lamenta che l’oggetto della potestà regolamentare
da esso assegnata allo Stato – e cioè prevedere che «i comuni con un
limitato numero di residenti possano svolgere le funzioni relative alla
gestione dei servizi pubblici locali in forma associata» – è del tutto
estraneo alla tutela della concorrenza e a ogni altro titolo di
competenza normativa statale.
1.2. – Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato,
chiedendo che le questioni proposte siano dichiarate inammissibili o,
comunque, infondate.
Rileva la difesa dello Stato che:
a) il censurato comma 7 dell’art. 23-bis reca una disciplina che rientra nella materia della tutela della concorrenza, di competenza legislativa esclusiva dello Stato, perché, attraverso l’individuazione dei bacini di gara e dei criteri relativi a tale attività, individua in concreto il «mercato rilevante», allo scopo di evitare le distorsioni della concorrenza derivanti dalla parcellizzazione delle gestioni;
b) il censurato comma 10 dell’art. 23-bis prevede una potestà regolamentare statale che ha la finalità di procedere all’armonizzazione della disciplina di alcuni settori di pubblici servizi nei quali sussiste una regolazione settoriale contrastante con i principi stabiliti da detto articolo e tale finalità giustifica la previsione del parere della Conferenza Stato-Regioni anziché del meccanismo dell’intesa forte;
c) in particolare, la lettera b) del censurato comma 10 dell’art. 23-bis ha anch’essa una finalità di armonizzazione, perché prevede che «il “controllo analogo” possa sussistere anche allorché più comuni e/o enti pubblici non detengano individualmente l’intera partecipazione del soggetto affidatario in house».
1.3. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, la Regione Emilia-Romagna ha sostanzialmente ribadito quanto già sostenuto nel ricorso, aggiungendo che: a) quanto all’individuazione dei bacini di gara di cui al censurato comma 7, l’illegittimità della previsione dell’intesa con la Conferenza unificata è confermata dalla stessa legislazione statale, che affida alle Regioni, senza intese di alcun tipo, il potere di individuare gli ambiti di esercizio dei servizi pubblici, come ad esempio in materia di servizio idrico integrato (art. 147 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, recante «Norme in materia ambientale»); b) quanto al regolamento di delegificazione previsto dal censurato comma 10, lo schema di regolamento adottato il 22 luglio del 2010 dal Consiglio dei ministri e non ancora emanato contiene una previsione tanto dettagliata da rendere oltremodo necessaria la previsione dell’intesa con la Conferenza unificata in luogo del semplice parere.
2. – Con ricorso notificato il 20 ottobre 2008 e depositato il 22 ottobre successivo (r. ric. n. 72 del 2008), la Regione Liguria ha impugnato, tra l’altro, i commi 2, 3, 4, 7 e 10 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 – articolo aggiunto dalla legge di conversione 6 agosto 2008, n. 133, – in riferimento agli artt. 117, quarto e sesto comma, e 118, primo e secondo comma, Cost.
2.1. – La ricorrente premette che la legge dello Stato può intervenire nella materia dei servizi pubblici solo a titolo di tutela della concorrenza e sostiene che le disposizioni censurate non sono riferibili a tale titolo competenziale.
2.1.1. – La Regione impugna, in primo luogo, i commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis, i quali prevedono rispettivamente che:
a) «Il conferimento della gestione dei servizi pubblici locali avviene, in via ordinaria, a favore di imprenditori o di società in qualunque forma costituite individuati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, nel rispetto dei principi del Trattato che istituisce la Comunità europea e dei principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità» (comma 2);
b) «In deroga alle modalità di affidamento ordinario di cui al comma 2, per situazioni che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato, l’affidamento può avvenire nel rispetto dei principi della disciplina comunitaria» (comma 3);
c) «Nei casi di cui al comma 3, l’ente affidante deve dare adeguata pubblicità alla scelta, motivandola in base ad un’analisi del mercato e contestualmente trasmettere una relazione contenente gli esiti della predetta verifica all’Autorità garante della concorrenza e del mercato e alle autorità di regolazione del settore, ove costituite, per l’espressione di un parere sui profili di competenza da rendere entro sessanta giorni dalla ricezione della predetta relazione» (comma 4).
Osserva la ricorrente che il diritto dell’ente territoriale responsabile
di erogare in proprio il servizio pubblico a favore della propria
comunità «non solo non è precluso dalle regole di tutela della
concorrenza, ma è espressamente riconosciuto dalla giurisprudenza della
Corte di giustizia delle Comunità europee», secondo cui «un’autorità
pubblica, che sia un’amministrazione aggiudicatrice, ha la possibilità
di adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa incombenti
mediante propri strumenti, amministrativi, tecnici e di altro tipo,
senza essere obbligata a far ricorso ad entità esterne non appartenenti
ai propri servizi», e «in tal caso, non si può parlare di contratto a
titolo oneroso concluso con un’entità giuridicamente distinta
dall’amministrazione aggiudicatrice», con la conseguenza che «non
sussistono dunque i presupposti per applicare le norme comunitarie in
materia di appalti pubblici».
La stessa giurisprudenza avrebbe, inoltre,
costantemente precisato che, «non è escluso che possano esistere altre
circostanze nelle quali l’appello alla concorrenza non è obbligatorio
ancorché la controparte contrattuale sia un’entità giuridicamente
distinta dall’amministrazione aggiudicatrice», e che «ciò si verifica
nel caso in cui l’autorità pubblica, che sia un’amministrazione
aggiudicatrice, eserciti sull’entità distinta in questione un controllo
analogo a quello che essa esercita sui propri servizi e tale entità
realizzi la parte più importante della propria attività con l’autorità o
le autorità pubbliche che la controllano».
Ad avviso della ricorrente, le disposizioni censurate si pongono in
contrasto con tali principi, perché limitano, in violazione dell’art.
117, quarto comma, Cost., la potestà legislativa regionale di
disciplinare il normale svolgimento del servizio pubblico da parte
dell’ente, sottoponendo tale scelta a vincoli sia sostanziali (le
«peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e
geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono
un efficace e utile ricorso al mercato») che procedurali (l’onere di
«trasmettere una relazione contenente gli esiti della predetta verifica
all’Autorità garante della concorrenza e del mercato e alle autorità di
regolazione del settore, ove costituite, per l’espressione di un parere
sui profili di competenza»).
2.1.2. – La Regione impugna, in secondo luogo, il comma 7 del citato art. 23-bis, in riferimento agli artt. 117, quarto comma, e 118, primo e secondo comma, Cost., proponendo questioni analoghe a quelle proposte dalla Regione Emilia-Romagna nel ricorso n. 69 del 2008 (supra: punto 1.1.1.).
2.1.3. – La stessa Regione impugna, infine, il comma 10 dell’art. 23-bis, in riferimento all’artt. 117, sesto comma, Cost., proponendo questioni analoghe a quelle proposte dalla Regione Emilia-Romagna nel ricorso n. 69 del 2008 (supra: punto 1.1.2.).
2.2. – Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato,
chiedendo che le questioni proposte siano dichiarate inammissibili o,
comunque, infondate.
Rileva la difesa dello Stato che:
a) nella giurisprudenza comunitaria e interna, la possibilità dell’in house providing è costruita come deroga alla regolamentazione generale e deve, perciò, essere interpretata in via restrittiva;
b) nell’attuazione del diritto comunitario in materia di tutela della concorrenza, il legislatore statale ha un margine di discrezionalità e può, perciò, utilizzare gli strumenti che ritiene più congrui in relazione alla situazione nazionale;
c) non vi è alcuna lesione dell’autonomia degli enti locali, perché le norme censurate consentono che essi – qualora ne sussistano i presupposti – possano fare ricorso all’affidamento dei servizi in house;
d) il censurato comma 7 dell’art. 23-bis reca una disciplina che rientra nella materia della tutela della concorrenza, perché, attraverso l’individuazione dei bacini di gara e dei criteri relativi a tale attività, individua in concreto il «mercato rilevante»;
e) il censurato comma 10 dell’art. 23-bis prevede una potestà regolamentare statale che ha la finalità di procedere alla armonizzazione della disciplina di alcuni settori di pubblici servizi nei quali sussiste una disciplina settoriale contrastante con i principi stabiliti da detto articolo.
2.3. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, la Regione Liguria ha sostanzialmente ribadito quanto già sostenuto nel ricorso, svolgendo considerazioni analoghe a quelle svolte nella memoria per l’udienza nel giudizio r. ric. n. 69 del 2008 (supra: punto 1.3.) e precisando, inoltre, che il diritto comunitario consente agli enti locali di gestire in proprio i servizi pubblici e non prevede che la gestione in house sia limitata a casi eccezionali.
3. – Con ricorso notificato il 20 ottobre 2008 e depositato il 27 ottobre successivo (r. ric. n. 77 del 2008), la Regione Piemonte ha impugnato i commi 1, 2, 3, 4, 8 e 10 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 – articolo aggiunto dalla legge di conversione 6 agosto 2008, n. 133, ed entrato in vigore, in forza dell’art. 1, comma 4, di detta legge, in data 22 agosto 2008 – in riferimento agli artt. 3, 5, 97, 114, 117, primo, secondo, terzo, quarto e sesto comma, 118, primo e secondo comma, e 120 Cost.
3.1. – La Regione premette che il censurato comma 1 dell’art. 23-bis
prevede che «Le disposizioni del presente articolo disciplinano
l’affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza
economica, in applicazione della disciplina comunitaria e al fine di
favorire la più ampia diffusione dei principi di concorrenza, di libertà
di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di tutti gli
operatori economici interessati alla gestione di servizi di interesse
generale in ambito locale, nonché di garantire il diritto di tutti gli
utenti alla universalità ed accessibilità dei servizi pubblici locali ed
al livello essenziale delle prestazioni, ai sensi dell’articolo 117,
secondo comma, lettere e) e m), della Costituzione, assicurando un
adeguato livello di tutela degli utenti, secondo i principi di
sussidiarietà, proporzionalità e leale cooperazione. Le disposizioni
contenute nel presente articolo si applicano a tutti i servizi pubblici
locali e prevalgono sulle relative discipline di settore con esse
incompatibili».
Il successivo comma 8 pone una disciplina transitoria per il solo
servizio idrico integrato, prevedendo che: «Salvo quanto previsto dal
comma 10, lettera e), le concessioni relative al servizio idrico
integrato rilasciate con procedure diverse dall’evidenza pubblica
cessano comunque entro e non oltre la data del 31 dicembre 2010, senza
necessità di apposita deliberazione dell’ente affidante. Sono escluse
dalla cessazione le concessioni affidate ai sensi del comma 3».
La preesistente disciplina generale del servizio pubblico locale –
prosegue la Regione – non è tuttavia integralmente sottoposta ad
abrogazione dal nuovo art. 23-bis, perché quest’ultimo espressamente
prevede che cessino di avere effetto le norme preesistenti nelle sole
«parti incompatibili» con le sue nuove disposizioni (comma 11).
3.1.1. – La ricorrente lamenta, in primo luogo, che i censurati commi 1, 2 e 3 violano l’art. 117, primo e quarto comma, Cost. Sono richiamati, ma non propriamente evocati, anche gli artt. 5, 97, 114, secondo comma, 117, secondo e sesto comma, e 118 Cost.
3.1.1.1. – Quanto al parametro dell’art. 117, quarto comma, Cost., esso
sarebbe violato perché le norme impugnate recano una disciplina che non
è riconducibile alla materia della tutela della concorrenza, ma alla
potestà legislativa residuale delle Regioni. Con tali disposizioni,
infatti, il legislatore statale riconosce che entrambe le forme di
gestione ed affidamento dei servizi pubblici (soggetto scelto con gara,
organizzazione in house) sono conformi all’ordinamento europeo e in
particolare alla disciplina sulla concorrenza, ma giunge sino ad
individuare come forma preferenziale “ordinaria” l’affidamento del
servizio ad imprese terze, mentre relega la possibilità dell’affidamento
in house ai soli casi ivi espressi in via d’eccezione, superando con ciò
la stessa disciplina comunitaria in materia di concorrenza. E non
potrebbe essere richiamato, a sostegno della legittimità di tali norme,
il principio secondo cui la «legislazione nazionale in materia di tutela
dell’ambiente ha potuto individuare misure più rigorose di quelle
previste dal diritto comunitario», perché «ciò è stato possibile nei
soli limiti di un rispetto del principio di proporzionalità con altre
disposizioni del Trattato […] tra le quali assume particolare importanza
la disciplina a tutela della concorrenza».
Quanto alla sussistenza di altri eventuali titoli di competenza
legislativa statale, la Regione rileva, innanzi tutto, che la disciplina
del censurato art. 23-bis «è in tutto o in parte sostitutiva dell’art.
113, d.lgs. n. 267 del 2000» e ha perciò per oggetto unicamente le forme
di gestione dei servizi pubblici a rilevanza economica, e non le
prestazioni da assicurare agli utenti, con la conseguenza che non può
essere richiamata la materia dei livelli essenziali delle prestazioni
concernenti i diritti civili e sociali; rileva, inoltre, che la
disciplina censurata non è riconducibile alla potestà esclusiva statale
in materia di funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città
metropolitane (art. 117, secondo comma, lettera p, Cost.), «giacché la
gestione dei predetti servizi non può certo considerarsi esplicazione di
una funzione propria ed indefettibile dell’ente locale».
In conclusione – sempre secondo la ricorrente – l’opzione tra le diverse
modalità di gestione del servizio pubblico «è una tipica scelta
d’organizzazione, in particolare di buon andamento del servizio pubblico
(art. 97, primo comma, Cost.), che proprio in quanto organizzazione
locale e non nazionale dei servizi oggetto della disciplina dell’art.
23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, non può riconoscersi alla
legislazione statale, ma spetta alla legislazione regionale ai sensi
dell’art. 117, quarto comma, Cost. seppure nel rispetto di una eventuale
specifica disciplina degli enti territoriali minori (art. 117, sesto
comma, Cost.)». Alle Regioni spetta, inoltre «la legittimazione ad
impugnare le leggi statali in via diretta non solo a tutela della
propria legislazione ma anche con il riferimento alla prospettata
lesione da parte della legge nazionale della potestà normativa degli
enti territoriali, con affermazione della regione come ente di tutela
avanti alla Corte costituzionale del “sistema regionale delle autonomie
territoriali” (art. 114, secondo comma, Cost.)».
3.1.1.2. – Quanto al parametro dell’art. 117, primo comma, Cost., la ricorrente rileva che esso sarebbe violato perché il diritto comunitario non consente che il legislatore nazionale spinga la tutela della concorrenza fino comprimere il «principio di libertà degli individui o di autonomia – del pari costituzionale – degli enti territoriali (artt. 5, 117, 118, Cost.) di mantenere la capacità di operare ogni qualvolta fanno la scelta che ritengono più opportuna: cioè se fruire dei vantaggi economici offerti dal mercato dei produttori oppure se procedere a modellare una propria struttura capace di diversamente configurare l’offerta delle prestazioni di servizio pubblico». In tal senso si è espresso – prosegue la ricorrente – l’ordinamento comunitario, laddove «ha ritenuto in contrasto con la disciplina europea sulla concorrenza la legge nazionale sui lavori pubblici (allora legge 11 febbraio 1994, n. 109, art. 21) che aveva limitato la scelta tra i due criteri europei d’aggiudicazione degli appalti – offerta economicamente più vantaggiosa e prezzo più basso − imponendo il vincolo legislativo alle amministrazioni aggiudicatrici di ricorrere unicamente al criterio del prezzo più basso». L’attuazione del diritto comunitario non consentirebbe al legislatore interno di esprimere un autonomo indirizzo politico, perché essa può comportare solo «l’adozione di norme esecutive (secundum legem)», con l’impossibilità di spingersi sino a norme «integrative (praeter legem), tali cioè da ampliare, senza derogarli, i contenuti normativi espressi attraverso la legislazione» da attuare. Nel caso di specie, «nessuna delle disposizioni comunitarie vigenti infatti impone − come invece pretende l’art. 23-bis, decreto-legge n. 112 del 2008, cit. ai suoi commi secondo e terzo − agli Stati membri l’attribuzione ad imprese terze come forma ordinaria o preferenziale di affidamento dei servizi pubblici locali, relegando ai soli casi d’eccezione il ricorso alla diversa ed alternativa forma dell’in house providing. Al contrario si può affermare che la legislazione comunitaria lasci gli Stati membri liberi di decidere se fornire i servizi pubblici con un’organizzazione propria […] o affidarne la fornitura ad imprese terze».
3.1.2. – La ricorrente lamenta, in secondo luogo, che i censurati commi 2, 3 e 4 violano gli artt. 3, 97, 114, 117, primo, secondo, terzo, quarto e sesto comma, e 118, primo e secondo comma, Cost.
3.1.2.1. – Quanto ai parametri degli artt. 3 e 97 Cost., la ricorrente
rileva che essi sarebbero violati perché la disciplina dell’affidamento
del servizio pubblico locale nella forma organizzativa dell’in house providing, contenuta nelle disposizioni censurate, risulta lesiva della
«competenza delle regioni e degli enti locali ove le s’intenda come
disciplina ulteriore rispetto a quella generale sul procedimento
amministrativo che da tempo prevede il dovere di motivazione degli atti
amministrativi (art. 3, legge 7 agosto 1990, n. 241), secondo molti
posto in attuazione del principio costituzionale di motivazione delle
scelte della amministrazioni pubbliche quanto meno nella cura di
pubblici interessi». Tale ulteriore disciplina, da intendersi come
«deroga alla disciplina generale sul procedimento e la motivazione degli
atti amministrativi», si porrebbe in violazione del principio di
ragionevolezza «(arg. ex art. 3, secondo comma Cost.), poiché non è
ravvisabile nel caso in esame alcun interesse pubblico prevalente capace
di fondare sia l’esenzione dal generale dovere di motivazione per
l’affidamento ad imprese terze (art. 23-bis, secondo comma), sia
viceversa la limitazione dei casi sui quali può essere portata la
motivazione a fondamento di altre soluzioni organizzative». La
denunciata invasione nella sfera di competenza regionale e degli enti
territoriali minori è addirittura enfatizzata – prosegue la Regione –
dalla precisazione che le disposizioni impugnate «prevalgono» su tutte
le «discipline di settore con esse incompatibili» e, in particolare, su
quelle della Regione Piemonte relative al servizio idrico integrato
(legge regionale 13 dicembre 1997, n. 13) e al sistema integrato di
raccolta e smaltimento dei rifiuti solidi urbani (legge regionale 24
ottobre 2002, n. 24), che non limitano la scelta tra le forme di
gestione dei servizi compatibili con il diritto comunitario.
La ricorrente non esclude, peraltro, che dell’art. 23-bis, commi 1 e 4,
si possa dare «un’interpretazione adeguatrice capace di sorreggere una
sentenza interpretativa di rigetto della questione di costituzionalità
proposta ove s’intenda che tali disposizioni non deroghino alla
disciplina generale sul procedimento amministrativo, dovendo
l’amministrazione motivare qualunque scelta della forma di gestione del
servizio pubblico locale, attraverso una comparazione tra tutte quelle
compatibili con l’ordinamento comunitario ed offrendo infine la
giustificazione in concreto della forma prescelta, secondo
un’interpretazione che espunge dalle norme qualsiasi preferenza o
prevalenza in astratto di una forma di gestione sull’altra».
Anche seguendo tale percorso interpretativo, permarrebbe comunque – ad
avviso della Regione – l’illegittimità costituzionale parziale dell’art.
23-bis, commi 3 e 4, del citato decreto-legge n. 112 del 2008, «per
avere il legislatore statale invaso la sfera di competenza normativa
della Regione Piemonte e degli enti territoriali piemontesi nella
definizione dello svolgimento delle funzioni loro attribuite (art. 117,
commi quarto e sesto, Cost.) poiché una parte della norma prevede una
disciplina particolare del procedimento di affidamento della gestione a
soggetti diversi dagli operatori di mercato, tra cui l’in house providing».
A tali considerazioni, la difesa regionale aggiunge che i commi
censurati contengono «norme di dettaglio così puntuali che non sarebbero
neppure compatibili con una competenza esclusiva dello Stato […] e in
violazione del principio di ragionevolezza (ex art. 3, secondo comma,
Cost.) poiché della legge impugnata non si comprendono le ragioni di una
disciplina differenziata per l’ambito locale dei pubblici servizi
rispetto a quella generalmente prevista per l’Autorità garante della
concorrenza e del mercato ed in genere per le autorità di regolazione».
3.1.2.2. – Quanto ai parametri «dell’art. 117, commi primo, secondo, terzo, quarto, Cost. con riferimento agli articoli 114, 117, sesto comma, e 118, commi primo e secondo, Cost.», la ricorrente rileva che essi sarebbero violati perché i commi censurati ledono «l’autonomia costituzionale propria dell’intero sistema degli enti locali», limitando la «capacità d’organizzazione e di autonoma definizione normativa dello svolgimento delle funzioni di affidamento dei servizi pubblici locali». Secondo la Regione, in particolare, la scelta delle forme di gestione ed affidamento del servizio pubblico deve informarsi a valutazioni di efficienza, efficacia ed economicità «che ciascuna organizzazione pubblica non può che esprimere con riferimento ai proposti standard di qualità che intende offrire agli utenti, involgendo perciò questioni di pura autorganizzazione degli enti territoriali». In particolare, la legislazione statale può legittimamente imporre una determinata forma di gestione di un servizio pubblico solo procedendo in via preliminare ad avocare allo Stato la competenza sull’organizzazione della gestione dei servizi sinora considerati locali (es. idrico integrato, raccolta dei rifiuti solidi urbani) sul presupposto che l’esercizio unitario di tali servizi sia divenuto ottimale solo a livello d’ambito statale (art. 118, primo comma, Cost.)». Ne consegue che la disciplina in esame è da ritenersi costituzionalmente illegittima «per difetto di tale qualificazione nazionale dei servizi che restano locali per sua espressa qualificazione».
3.1.2.3. – Quanto al parametro «dell’art. 117, secondo comma, Cost. con
riferimento all’art. 3 Cost.», la ricorrente sostiene che la disciplina
contenuta nelle disposizioni censurate, anche ove fosse ritenuta di
tutela della concorrenza, difetterebbe di proporzionalità e adeguatezza.
In particolare, la difesa regionale afferma che la Corte costituzionale
ha riconosciuto che solo le disposizioni di legge statale a «carattere
generale che disciplinano le modalità di gestione e l’affidamento dei
servizi pubblici locali di rilevanza economica» trovano il proprio
«titolo di legittimazione» nell’art. 117, secondo comma, lettera e),
Cost. («tutela della concorrenza») e «solo le predette disposizioni non
possono essere derogate da norme regionali». A tale proposito, il
criterio di proporzionalità ed adeguatezza sarebbe «essenziale per
definire l’ambito di operatività della competenza legislativa statale
attinente alla ‘‘tutela della concorrenza” e conseguentemente la
legittimità dei relativi interventi statali» poiché tale materia
«trasversale» «si intreccia inestricabilmente con una pluralità di altri
interessi – alcuni dei quali rientranti nella sfera di competenza
concorrente o residuale delle regioni – connessi allo sviluppo
economico-produttivo del Paese». Tali considerazioni varrebbero, a
maggior ragione, per le disposizioni in esame, perché esse stabiliscono
«una disciplina immediatamente autoapplicativa ove senz’altro pongono un
criterio o principio di preferenza nell’attribuzione ad imprese terze
dei servizi pubblici locali».
3.1.3. – La ricorrente censura, in terzo luogo, il comma 8 dell’art. 23-bis, il quale prevede – come visto – che, in generale «le concessioni relative al servizio idrico integrato rilasciate con procedure diverse dall’evidenza pubblica cessano comunque entro e non oltre la data del 31 dicembre 2010».
3.1.3.1. – Ad avviso della ricorrente, la disposizione viola gli artt. 41, 114 e 117, secondo comma, Cost., «con riferimento all’art. 3 Cost.», ponendosi in contrasto con «il principio di ragionevolezza e di concorrenza comunitaria che la stessa proclama di voler affermare ed addirittura di voler superare, poiché la stessa si configura come ennesima […] norma di sanatoria degli affidamenti al mercato dei produttori seppur disposti ancora una volta in difetto di evidenza pubblica, con proroga di cui le imprese terze si possono giovare ex lege sino alla data indicata dal 31 dicembre 2010». Si tratterebbe cioè di una norma che contraddice i primi commi dello stesso art. 23-bis, i quali realizzano «un indirizzo politico ispirato alla “ultra concorrenzialità”», perché favorisce gli affidamenti disposti in violazione della disciplina italiana ed europea sulla concorrenza.
3.1.3.2. – Per la difesa regionale, la stessa disposizione viola altresì gli artt. 5, 114, 117, sesto comma, e 118, Cost., i quali garantiscono l’autonomia costituzionale della Regione Piemonte e degli enti locali (art. 5, 114, 117, sesto comma, 118, Cost.), perché – stabilendo che cessano al 31 dicembre 2010 gli affidamenti rilasciati con procedure diverse dall’evidenza pubblica, salvo quelli conformi ai vincoli ulteriori di istruttoria e motivazione previsti dalla nuova disciplina – determina la cessazione «di tutti gli affidamenti attribuiti secondo la disciplina previgente (d.lgs. n. 267 del 2000, cit., art. 113, comma 5, lettera c), ponendo in forse l’attuazione dei piani gestionali e di investimento, nonché i relativi piani tariffari, travolgendo rapporti giuridici perfezionati ed in via di esecuzione che le parti vogliono vedere procedere secondo la loro scadenza naturale, al pari delle concessioni rilasciate ad imprese terze secondo le procedure ad evidenza pubblica».
3.1.4. – La ricorrente lamenta, in quarto luogo, che il censurato comma
10 dell’art. 23-bis, il quale autorizza il Governo all’adozione di
regolamenti di delegificazione, viola l’art. 117, secondo, quarto e
sesto comma, Cost., nonché «il principio di ragionevolezza e leale
collaborazione» (artt. 3 e 120 Cost.), perché lo Stato, non avendo
potestà legislativa in materia, non ha neanche potestà regolamentare.
Aggiunge la difesa regionale che la clausola di autorizzazione contenuta
in detto comma «prefigura una disciplina regolamentare di particolare
dettaglio» che viola i principi di adeguatezza e proporzionalità, perché
«non pare possibile ritenere adeguato e proporzionale un intervento
statale (per legge e regolamento) che rechi l’intera disciplina sugli
affidamenti dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, ad
esclusione di ogni spazio di regolazione per le regioni».
Inoltre – prosegue la ricorrente – la previsione secondo cui l’indicato
regolamento sarà approvato dal Governo «sentita la Conferenza unificata
di cui all’art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281»,
anziché previa intesa con tale Conferenza, viola il principio
costituzionale di leale collaborazione (art. 120 Cost.), perché «non
pare comunque sufficiente un parere della Conferenza unificata sul
regolamento di delegificazione destinato a completare l’intera
disciplina sugli affidamenti dei servizi pubblici locali ove sarebbe
stata invece necessaria una previa intesa con la Conferenza». Sarebbe,
infatti, indubbio, nel caso in esame, «il forte intreccio con le
competenze regionali», che costituisce ragione utile a limitare la
discrezionalità del legislatore statale sulle forme di coinvolgimento
delle Regioni.
In particolare, il comma censurato rinvia al regolamento governativo la
disciplina transitoria dei servizi pubblici locali diversi da quello
idrico, «con una irragionevole differenza di trattamento che non appare
giustificata in particolare per il servizio idrico integrato per il
quale la legge statale indica senz’altro in via generale ed astratta la
data di scadenza fissa del 31 dicembre 2010, mentre per gli altri
servizi pubblici consente al regolamento la previsione di adeguati
“tempi differenziati” in ragione di eterogeneità dei servizi presi in
considerazione».
3.2. – Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato,
chiedendo che le questioni proposte siano dichiarate inammissibili o,
comunque, infondate.
La difesa dello Stato svolge argomentazioni analoghe a quelle svolte nei
giudizi r. ric. n. 69 e n. 72 del 2008 (supra: punti 1.2. e 2.2.) e
rileva, inoltre, che:
a) la doglianza relativa alla disciplina delle decadenze e proroghe delle gestioni in essere è infondata, perché la scelta del legislatore statale è sufficientemente chiara e razionale: un termine più breve per le gestioni nelle quali sono coinvolti direttamente soggetti e interessi pubblici; un termine più lungo per «quegli affidamenti che presuppongono investimenti privati in corso di ammortamento»;
b) il censurato comma 10 dell’art. 23-bis prevede, nella materia della tutela della concorrenza, una potestà regolamentare statale che ha la finalità di procedere all’armonizzazione della disciplina di alcuni settori di pubblici servizi nei quali sussiste una disciplina contrastante con i princìpi stabiliti da detto articolo.
3.3. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, la Regione Piemonte ha sostanzialmente ribadito quanto già sostenuto nel ricorso, aggiungendo che, poiché la definizione della questione di costituzionalità dipende dall’interpretazione del diritto dell’Unione europea, appare possibile «ritenere che la Corte costituzionale – ove non accolga i motivi di ricorso […] – debba proporre la seguente questione pregiudiziale avanti la Corte di giustizia […]: “se sia conforme al diritto europeo – al principio di concorrenza ed al principio d’autonomia degli enti territoriali (art. 5 Trattato) – la norma dello Stato italiano che impone l’attribuzione a terzi come forma ordinaria e preferenziale d’affidamento dei servizi pubblici locali, e la norma che relega la rilevanza giuridica dell’in house providing ai soli casi d’eccezione tassativamente individuati dal legislatore statale stesso con una conseguente limitazione dei casi ammessi dalla giurisprudenza comunitaria”».
3.4. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, il Presidente del Consiglio dei ministri ha chiesto che le questioni proposte siano dichiarate manifestamente infondate nel merito. Precisa, in particolare, la difesa dello Stato che la disciplina censurata, la quale è riconducibile alla materia della tutela della concorrenza, è legittima, perché la giurisprudenza comunitaria e quella nazionale hanno sempre affermato che l’istituto dell’in house providing costituisce un’eccezione al principio di concorrenza e all’ordinaria osservanza delle procedure di evidenza pubblica: rappresenta, cioè, «una soluzione residuale alla quale ricorrere solo in caso di impossibilità di trovare una soluzione alternativa efficiente».
4. – Con ricorso notificato il 30 dicembre 2008 e depositato il 2
gennaio 2009 (r. ric. n. 2 del 2009), il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato,
ha impugnato i commi 1, 4, 5, 6 e 14 dell’art. 4 della legge della
Regione Liguria 28 ottobre 2008, n. 39 (Istituzione delle Autorità
d’Ambito per l’esercizio delle funzioni degli enti locali in materia di
risorse idriche e gestione rifiuti ai sensi del decreto legislativo 3
aprile 2006, n. 152 – Norme in materia ambientale).
Detti commi prevedono, rispettivamente, che:
a) «Nei novanta giorni successivi alla costituzione dell’AATO, la Giunta regionale approva lo schema tipo di contratto di servizio e di convenzione di cui agli articoli 151 e 203 del d.lgs. 152/2006, in applicazione alla direttiva 93/36/CEE del Consiglio delle Comunità Europee del 14 giugno 1993 (Coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture)» (comma 1);
b) «L’AATO assicura la gestione del servizio idrico in forma integrata, provvedendo all’affidamento dello stesso ad un soggetto gestore unitario, ove non ancora individuato, in conformità alle disposizioni comunitarie ed alla normativa nazionale vigente in materia di affidamento dei servizi pubblici locali ed, in particolare, nel rispetto dei criteri di cui all’articolo 113, comma 7, del d.lgs. 267/2000 e delle modalità di cui agli articoli 150 e 172 del d.lgs.152/2006» (comma 4);
c) «Resta ferma la previsione di cui all’articolo 113, comma 15-bis, del d.lgs. 267/2000; a tal fine l’AATO determina la data di cessazione delle concessioni esistenti, avuto riguardo alla durata media delle concessioni aggiudicate nello stesso settore a seguito di procedure ad evidenza pubblica, salva la possibilità di determinare caso per caso la cessazione in una data successiva, qualora la medesima risulti proporzionata ai tempi di recupero di particolari investimenti effettuati dal gestore, fermi restando l’aggiornamento e la rinegoziazione delle convenzioni in essere» (comma 5);
d) «L’AATO individua forme e modalità dirette all’integrazione del servizio di gestione dei rifiuti e del servizio idrico, avuto riguardo agli affidamenti esistenti che non risultano cessati nei termini di cui all’articolo 113, comma 15-bis, del d.lgs. 267/2000, al fine di pervenire al superamento della frammentazione del servizio nel territorio dell’ambito» (comma 6);
e) «L’AATO definisce i contratti di servizio, gli obiettivi qualitativi dei servizi erogati, il monitoraggio delle prestazioni, gli aspetti tariffari, la partecipazione dei cittadini e delle associazioni dei consumatori di cui alla legge regionale 2 luglio 2002, n. 26 (Norme per la tutela dei consumatori e degli utenti)» (comma 14).
4.1. – La difesa dello Stato premette che il censurato art. 4 contiene disposizioni che contrastano con quanto previsto dalla legge statale in materia di tutela dell’ambiente e tutela della concorrenza e formula tre questioni.
4.1.1. – È impugnato, in primo luogo, il comma 1 dell’art. 4, in
riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., sul rilievo
che esso affida alla Giunta regionale la competenza ad approvare lo
schema-tipo di contratto di servizio e di convenzione, richiamando
l’art. 151 del d.lgs. n. 152 del 2006.
Sostiene il ricorrente che il suddetto art. 151 deve ritenersi
tacitamente abrogato dal d.lgs. correttivo 16 gennaio 2008, n. 4, che ha
sostituito l’art. 161 del d.lgs. n. 152/2006, disponendo che sia il
Comitato per la vigilanza sull’uso delle risorse idriche (in seguito
«Comitato») a redigere il contenuto di una o più convenzioni-tipo da
adottare con decreto del Ministero dell’ambiente. Lo stesso, così
novellato, art. 161 – prosegue la difesa dello Stato – attribuisce,
inoltre, al predetto Comitato la competenza anche in tema di contratti
di servizio, obiettivi qualitativi dei servizi erogati, monitoraggio
delle prestazioni e aspetti tariffari.
Ne deriva, per lo Stato, che «L’art. 4, comma 14, della legge regionale
n. 39/2008 impugnata appare, pertanto, in contrasto con la normativa
statale, nella parte in cui affida invece tali competenze all’AATO».
In conclusione, i commi censurati violerebbero il parametro
costituzionale evocato, per il tramite dell’art. 161, comma 4, lettera
c), del decreto legislativo n. 152 del 2006, il quale dispone, tra
l’altro, che sia il Comitato per la vigilanza sull’uso delle risorse
idriche e non la Giunta regionale a redigere il contenuto di una o piú
convenzioni-tipo da adottare con decreto del Ministro per l’ambiente e
per la tutela del territorio e del mare.
4.1.2. – È impugnato, in secondo luogo – in riferimento all’art. 117,
secondo comma, lettera e), Cost., per il tramite dell’art. 23-bis, commi
2, 3 e 11, del d.l. n. 112 del 2008 – il comma 4 dell’art. 4 della legge
reg. n. 39 del 2008, il quale stabilisce – come visto – che l’AATO
provvede all’affidamento del servizio idrico integrato, «in particolare,
nel rispetto dei criteri di cui all’articolo 113, comma 7, del d.lgs.
267/2000 e delle modalità di cui agli articoli 150 e 172 del
d.lgs.152/2006».
Evidenzia la difesa dello Stato che il richiamato art. 150 del d.lgs. n.
152 del 2006, al comma 1, consente la scelta della forma di gestione
degli AATO tra quelle elencate nell’art. 113, comma 5, del d.lgs. 18
agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti
locali), ma l’art. 23-bis, comma 11, del d.l. n. 112 del 2008, prevede
che le parti dell’art. 113 citato che siano incompatibili con le
prescrizioni in esso contenute siano da considerare abrogate. Ad avviso
della stessa difesa, quindi, la norma regionale risulta in contrasto con
l’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, perché quest’ultimo prevede come
regola per l’affidamento dei servizi pubblici locali le procedure
competitive ad evidenza pubblica, ferma restando la possibilità di
ricorrere all’affidamento diretto solo in presenza di circoscritte e
motivate circostanze, contemplate al comma 3 del medesimo articolo. La
norma regionale, invece, prevede l’affidamento del servizio a un
soggetto da individuare genericamente in conformità alle disposizioni
comunitarie e alla normativa nazionale vigente in materia e, quindi,
indifferentemente in una delle tre forme previste dal menzionato art.
113, comma 5, del d.lgs. n. 267 del 2000, anche senza che ricorrano le
suddette peculiari circostanze.
4.1.3. – Il Presidente del Consiglio dei ministri censura, in terzo
luogo – in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.,
per il tramite dell’art. 23-bis, commi 8 e 9, del d.l. n. 112 del 2008 –
i commi 5 e 6 dell’art. 4 della legge reg. n. 39 del 2008, i quali
disciplinano la cessazione delle concessioni esistenti e il relativo
regime transitorio degli affidamenti del servizio idrico integrato
effettuati senza gara, rinviando alle disposizioni di cui all’art. 113,
comma 15-bis, del d.lgs. n. 267 del 2000.
La difesa dello Stato sostiene che le norme impugnate contrastano con
gli evocati parametri, perché la materia è attualmente regolata in
maniera difforme dall’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, che ha
abrogato – come visto – l’art. 113 citato nelle parti incompatibili con
le sue disposizioni, e che fissa, ai commi 8 e 9, comunque, al 31
dicembre 2010 la data per la cessazione delle concessioni esistenti
rilasciate con procedure diverse dall’evidenza pubblica.
4.2. – Si è costituita in giudizio la Regione Liguria, chiedendo che la Corte costituzionale dichiari «l’inammissibilità e/o l’infondatezza del ricorso».
4.2.1. – Quanto alle censure riguardanti i commi 1 e 14 dell’art. 4
della legge reg. n. 39 del 2008, la resistente osserva che dette
disposizioni non sono riconducibili a competenze legislative statali,
perché attengono alla materia dei pubblici servizi locali, di competenza
legislativa regionale.
In particolare, in relazione all’impugnazione del comma 1 dell’art. 4
della legge reg. n. 39 del 2008, la resistente sostiene che la
previsione per cui la «Giunta regionale approva lo schema tipo di
contratto di servizio e di convenzione di cui agli articoli 151 e 203
del d.lgs. 152/2006» non contrasta con la legislazione statale. Infatti,
il richiamato art. 151 del d.lgs. n. 152 del 2006 dispone che l’Autorità
d’ambito predispone le convenzioni che regolano i rapporti con i gestori
del servizio e, a tal fine, le Regioni adottano convenzioni tipo con
relativi disciplinari. Ad avviso della Regione, tale ultima disposizione
è tuttora in vigore e non è stata tacitamente abrogata dalla nuova
formulazione del successivo art. 161 introdotta dal decreto legislativo
correttivo 16 gennaio 2008, n. 4, il quale assegna al Comitato per la
vigilanza sull’uso delle risorse idriche la competenza a redigere una o
più convenzioni tipo, da adottare con decreto ministeriale. In ogni
caso, i compiti del Comitato per la vigilanza sull’uso delle risorse
idriche devono essere interpretati – anche alla luce dei lavori
preparatori – conformemente agli artt. 5 e 117 Cost., nel senso che essi
si aggiungono e non si sostituiscono alle competenze disciplinate dalla
legge regionale.
Quanto poi all’impugnazione del comma 14 dell’art. 4 della legge reg. n.
39 del 2008, la resistente premette che essa è inammissibile, perché
generica, non specificando quali siano i profili che determinano il
contrasto con la norma statale. Nel merito, sostiene che non vi è
incompatibilità fra i poteri che il comma 14 assegna all’Autorità
d’ambito e quelli assegnati dall’art. 161 del d.lgs. n. 152 del 2006 al
Comitato per la vigilanza sull’uso delle risorse idriche.
4.2.2. – In relazione alla censura riguardante il comma 4 dell’art. 4
della legge reg. n. 39 del 2008, la Regione sostiene che essa è
inammissibile e infondata, anche perché non riguarda la parte in cui il
comma impugnato richiama l’art. 113, comma 7, del d.lgs. n. 267 del
2000, con riferimento ai criteri di gara, né quella in cui richiama
l’art. 172 del d.lgs. n. 152 del 2006, che disciplina le gestioni
esistenti.
La Regione contesta quanto affermato dal ricorrente, secondo cui la
norma censurata richiama una disposizione, l’art. 150 del citato d.lgs.
n. 152 del 2006, che al comma 1 consente la scelta della forma di
gestione del servizio tra quelle elencate nell’art. 113, comma 5, del
d.lgs. n. 267 del 2000, disposizione da considerare abrogata per
incompatibilità con l’art. 23-bis, comma 11, del d. l. n. 112 del 2008.
Per la difesa regionale, infatti, tale abrogazione non si sarebbe
verificata e, in ogni caso, la norma censurata sarebbe conforme all’art.
150 del d.lgs. n. 152 del 2006, a sua volta ancora vigente, perché fatto
salvo sia dal divieto di abrogazione implicita previsto in via generale
dall’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 152 del 2006, sia dalla stessa
formulazione dell’art. 23-bis citato, che, al comma 10, lettera d),
prevede la necessità di una armonizzazione con le discipline di settore,
da farsi tramite regolamento.
Se ne concluderebbe che la disposizione censurata non
viola, in ogni
caso, la disciplina settoriale applicabile al servizio idrico, ponendosi
al più in contrasto con l’art. 23-bis, norma il cui scrutinio di
costituzionalità appare pregiudiziale.
4.2.3. – Quanto alla terza delle questioni proposte – con cui sono censurati i commi 5 e 6 dell’art. 4 della legge reg. n. 39 del 2008, sul rilievo che essi disciplinano la cessazione delle concessioni esistenti e il relativo regime transitorio rinviando alle disposizioni di cui all’art. 113, comma 15-bis, del d.lgs. n. 267 del 2000, da ritenersi abrogato dal citato art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, il quale ha regolato la materia in maniera difforme – la resistente sostiene che il richiamato art. 113, comma 15-bis, del d.lgs. n. 267 del 2000 non può ritenersi abrogato, perché: a) le sue disposizioni non sono tutte incompatibili con quelle del successivo art. 23-bis, con le quali possono essere armonizzate, ad esempio quanto alla data della cessazione delle concessioni; b) l’articolo è coperto dal divieto generale di abrogazione implicita contenuto nell’art. 1, comma 4, del d.lgs. n. 267 del 2000; c) lo stesso art. 23-bis non opera un’abrogazione per nuova integrale disciplina della materia, perché dispone espressamente che l’abrogazione sia limitata alle parti incompatibili. Ne consegue – per la Regione – che non sussiste alcun contrasto tra i commi censurati e la disciplina statale vigente; disciplina che comunque, almeno per quanto riguarda il comma 8 del menzionato art. 23-bis, è da ritenere incostituzionale. Quanto, in particolare, all’impugnato comma 6 dell’art. 4 della legge reg. n. 39 del 2008, la questione è da ritenersi inammissibile, perché – contrariamente a quanto assunto dallo Stato – la disposizione non ha per oggetto né la cessazione delle concessioni, né il regime transitorio, ma solamente l’integrazione dei servizi esistenti che non sono oggetto di cessazione.
4.2.4. – La ricorrente conclude rilevando di avere già proposto, con il ricorso n. 72 del 2008, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 e chiede pertanto, per il caso in cui la Corte ritenesse pregiudiziali tali questioni, la riunione dei procedimenti.
4.3. – Con successiva memoria, la Regione Liguria ha ribadito quanto già argomentato nell’atto di costituzione, rilevando, inoltre, che le modifiche legislative intervenute nel frattempo fondano ulteriori ragioni di inammissibilità o infondatezza delle questioni proposte.
4.3.1. – Quanto alle censure riguardanti i commi 1 e 14 dell’art. 4
della legge reg. n. 39 del 2008, la resistente osserva che l’art. 9-bis,
comma 6, del decreto-legge 28 aprile 2009, n. 39 (Interventi urgenti in
favore delle popolazioni colpite dagli eventi sismici nella regione
Abruzzo nel mese di aprile 2009 e ulteriori interventi urgenti di
protezione civile), convertito, con modificazioni, dalla legge 24 giugno
2009, n. 77, ha soppresso il Comitato per la vigilanza sull’uso delle
risorse idriche, sostituendolo con la Commissione nazionale per la
vigilanza sull’uso delle risorse idriche.
Per la Regione, tale modifica legislativa ha reso improcedibile il
ricorso o, comunque, non ne ha fatto venire meno la già rilevata
infondatezza, anche perché la Commissione di nuova istituzione non ha le
stesse competenze del soppresso Comitato. Essa, infatti – secondo l’art.
9-bis, comma 6, del decreto-legge n. 39 del 2009 – subentra «nelle
competenze già attribuite all’Autorità di vigilanza sulle risorse
idriche e sui rifiuti ai sensi degli articoli 99, 101, 146, 148, 149,
152, 154, 172 e 174 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e
successivamente attribuite al Comitato per la vigilanza sull’uso delle
risorse idriche», con evidente omissione da parte del legislatore di
ogni riferimento all’art. 151 del d.lgs. n. 152 del 2006.
4.3.2. – Quanto alla seconda e alla terza delle questioni sollevate, in
relazione alle quali lo Stato ha evocato come parametro interposto
l’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, la Regione «ritiene che
l’impugnazione si dimostri oggi inattuale ed il ricorso sia carente di
interesse e dunque improcedibile», a seguito delle modifiche sostanziali
subite dallo stesso art. 23-bis.
Precisa comunque la Regione che, prima di tali modifiche del parametro
interposto, i censurati commi 4 e 5 dell’art. 4 della legge reg. n. 39
del 2008 non hanno avuto in concreto alcuna applicazione, perché
regolano le competenze delle Autorità d’ambito, che all’entrata in
vigore del d.l. n. 135 del 2009 non erano state ancora istituite.
4.4. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, da intendersi come sostitutiva dell’ultima memoria depositata, la Regione Liguria ha sostanzialmente ribadito quanto già sostenuto in tale ultimo atto.
4.5. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, il Presidente
del Consiglio dei ministri ha rilevato – allo scopo di puntualizzare la
permanenza dell’interesse al ricorso nonostante le modifiche normative
intervenute nella materia – che il legislatore del 2009 ha sostituito il
vecchio Comitato per la vigilanza sull’uso delle risorse idriche con la
nuova Commissione nazionale per la vigilanza sulle risorse idriche,
prevedendone una composizione maggiormente orientata a consentire la
partecipazione dei rappresentanti delle autonomie locali. Inoltre, dal
nuovo quadro normativo verrebbe rafforzato il fondamento delle censure
di costituzionalità sollevate avverso la legge Regionale, perché essa
richiama una norma statale abrogata e non più operativa: l’art. 151 del
d.lgs. n. 152 del 2006.
Quanto alla censura relativa ai commi 1 e 14 dell’art. 4 della legge
reg. n. 39 del 2008, la difesa dello Stato rileva che detti commi
attribuiscono alla Giunta regionale il potere di predisporre lo schema
tipo di contratti di servizio e di convenzioni regolanti i rapporti tra
le Autorità d’ambito e i gestori del servizio idrico integrato, secondo
quanto previsto dall’art. 151 del d.lgs. n. 152 del 2006, disposizione
implicitamente abrogata dall’art. 161 dello stesso d.lgs., come
sostituito dal d.lgs. n. 4 del 2008. La Regione contesta la suesposta
ricostruzione, asserendo che l’art. 151 del d.lgs. n. 152 del 2006 non
sarebbe stato abrogato dalla modifica del successivo art. 161, sul
rilievo che l’art. 3 del d.lgs. n. 152 del 2006 richiede una
“dichiarazione espressa” per l’abrogazione di una norma del codice
dell’ambiente ed essa mancherebbe nel caso di abrogazione tacita per
incompatibilità di norma temporalmente successiva rispetto a quella
precedente che resta caducata ex nunc. L’Avvocatura generale dello Stato
sostiene che tale assunto non è condivisibile, perché, «secondo la
dogmatica del diritto “espressa” non significa “esplicita”: il primo
termine impone una previsione legale; il secondo esprime la necessità
che la disposizione abrogatrice menzioni expressis verbis la norma di
cui sancisce l’abrogazione. L’abrogazione espressa può, dunque, essere
esplicita ovvero implicita (per incompatibilità) e nella seconda delle
due ipotesi da ultimo citate ricade il caso di cui si discorre che,
pertanto, non confligge con l’art. 3 invocato da Controparte».
Quanto, poi, al contratto di servizio e alla convenzione cui fanno
riferimento le disposizioni censurate, la difesa dello Stato rileva che
essi sono sostanzialmente la medesima cosa, essendo entrambi atti
negoziali conclusi dalle Autorità d’ambito con i gestori del servizio
pubblico onde regolare i loro rapporti. Confermerebbe «tale conclusione
una analisi del dato normativo che pare usare alternativamente l’una
piuttosto che l’altra nomenclatura».
Quanto alla censura relativa all’art. 4, comma 4, della legge reg. n. 39
del 2008, la difesa dello Stato sostiene che detta disposizione,
trattando dell’affidamento del servizio idrico, richiama l’art. 150 del
d.lgs. n. 152 del 2006 secondo cui l’Autorità d’ambito delibera la forma
di gestione scegliendo tra quelle di cui all’art. 113, comma 5, del
d.lgs. n. 267 del 2000, norma, quest’ultima, abrogata dal citato art.
23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 nelle parti incompatibili con
le disposizioni dello stesso art. 23-bis. La Regione valorizza il dato
letterale dell’art. 4, comma 4, nella parte in cui richiama la
«normativa nazionale vigente», sostenendo che la previsione lascia
intendere di rinviare alle norme vigenti e, dunque, non anche alle parti
dell’art. 113 abrogate dal citato art. 23-bis.
Per la difesa dello Stato, tali argomenti risultano superabili, se si
tiene conto del fatto che l’art. 150 del d.lgs. n. 152 del 2006, in ogni
suo comma (ad eccezione dell’ultimo), rinvia a commi del citato art.
113, T.U. enti locali, con la conseguenza che «pare quantomeno opinabile
la scelta di tecnica legislativa operata dal legislatore regionale di
rinviare (con l’art. 4, comma 4, censurato) ad una norma (l’art. 150
codice dell’ambiente) la quale a sua volta rinvia ad altra norma (l’art.
113 T.U. enti locali), quest’ultima abrogata per incompatibilità da
un’altra norma ancora (l’art. 23-bis, d.l. 112). Da ciò pare di potersi
inferire piuttosto che il legislatore regionale ha trascurato
l’intervenuta abrogazione parziale dell’art. 113».
Quanto alle censure aventi ad oggetto l’art. 4, commi 5 e 6, della legge
reg. n. 39 del 2008, il ricorrente contesta l’affermazione della
controparte secondo cui il comma 15-bis dell’art. 113 e i commi 8 e 9
dell’art. 23-bis non sarebbero incompatibili e, dunque, il primo non
risulterebbe abrogato dal secondo. Rileva sul punto la difesa dello
Stato che «l’art. 23-bis fissa la cessazione delle concessioni
attribuite senza gara alla data del 31/12/2010 escludendo, però, dalla
perdita di efficacia gli affidamenti diretti effettuati nelle ipotesi in
cui il terzo comma dello stesso art. 23-bis ancora li consente (al
ricorrere cioè di “peculiari caratteristiche economiche, sociali,
ambientali, geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento”
che non consentono l’espletamento della pubblica gara); mentre il comma
15-bis dell’art. 113 T.U. enti locali contempla […] quali eccezioni alla
cessazione delle concessioni i casi in cui l’affidamento è effettuato
con una delle modalità di cui al comma 5 dello stesso articolo».
5. – Con ricorso notificato il 9 gennaio 2010 e depositato il 18 gennaio successivo (r. ric. n. 6 del 2010), la Regione Puglia ha impugnato, in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., i commi 2, 3, 4 e 8 dell’art. 23-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 – aggiunto dalla legge di conversione 6 agosto 2008, n. 133, ed entrato in vigore, in forza dell’art. 1, comma 4, di detta legge, in data 22 agosto 2008 –, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 2009, n. 166, disposizione entrata in vigore (in forza dell’art. 21 del medesimo decreto-legge) in data 26 settembre 2009 e modificata, in forza dell’art. 1, comma 2, della legge di conversione, a far data dal giorno 25 novembre 2009.
5.1. – La Regione premette che l’art. 15 del d.l. n. 135 del 2009 reca
«Adeguamento alla disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza
economica», modificando in modo significativo l’art. 23-bis del
decreto-legge n. 112 del 2008, con la previsione di un ampliamento dei
settori esclusi dall’applicabilità della normativa.
In particolare, il nuovo testo del citato
art. 23-bis del d.l. n. 112
del 2008, come modificato dall’art. 15 del d.l. n. 135 del 2009, prevede
che:
«1. Le disposizioni del presente articolo disciplinano
l’affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza
economica, in applicazione della disciplina comunitaria e al fine di
favorire la più ampia diffusione dei principi di concorrenza, di libertà
di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di tutti gli
operatori economici interessati alla gestione di servizi di interesse
generale in ambito locale, nonché di garantire il diritto di tutti gli
utenti alla universalità ed accessibilità dei servizi pubblici locali ed
al livello essenziale delle prestazioni, ai sensi dell’articolo 117,
secondo comma, lettere e) e m), della Costituzione, assicurando un
adeguato livello di tutela degli utenti, secondo i principi di
sussidiarietà, proporzionalità e leale cooperazione. Le disposizioni
contenute nel presente articolo si applicano a tutti i servizi pubblici
locali e prevalgono sulle relative discipline di settore con esse
incompatibili. Sono fatte salve le disposizioni del decreto legislativo
23 maggio 2000, n. 164, e dell’articolo 46-bis del decreto-legge 1º
ottobre 2007, n. 159, convertito, con modificazioni, dalla legge 29
novembre 2007, n. 222, in materia di distribuzione di gas naturale, le
disposizioni del decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79, e della legge
23 agosto 2004, n. 239, in materia di distribuzione di energia
elettrica, le disposizioni della legge 2 aprile 1968, n. 475,
relativamente alla gestione delle farmacie comunali, nonché quelle del
decreto legislativo 19 novembre 1997, n. 422, relativamente alla
disciplina del trasporto ferroviario regionale. Gli ambiti territoriali
minimi di cui al comma 2 del citato articolo 46-bis sono determinati,
entro il 31 dicembre 2012, dal Ministro dello sviluppo economico, di
concerto con il Ministro per i rapporti con le regioni, sentite la
Conferenza unificata di cui all’ articolo 8 del decreto legislativo 28
agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, e l’Autorità per
l’energia elettrica e il gas, tenendo anche conto delle interconnessioni
degli impianti di distribuzione e con riferimento alle specificità
territoriali e al numero dei clienti finali. In ogni caso l’ambito non
può essere inferiore al territorio comunale.
2. Il conferimento della gestione dei servizi pubblici locali avviene,
in via ordinaria:
a) a favore di imprenditori o di società in qualunque forma costituite individuati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, nel rispetto dei principi del Trattato che istituisce la Comunità europea e dei principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento e proporzionalità;
b) a società a partecipazione mista pubblica e privata, a condizione che la selezione del socio avvenga mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, nel rispetto dei principi di cui alla lettera a), le quali abbiano ad oggetto, al tempo stesso, la qualità di socio e l’attribuzione di specifici compiti operativi connessi alla gestione del servizio e che al socio sia attribuita una partecipazione non inferiore al 40 per cento.
3. In deroga alle modalità di affidamento ordinario di cui al comma 2,
per situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche
economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto
territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso
al mercato, l’affidamento può avvenire a favore di società a capitale
interamente pubblico, partecipata dall’ente locale, che abbia i
requisiti richiesti dall’ordinamento comunitario per la gestione
cosiddetta “in house” e, comunque, nel rispetto dei principi della
disciplina comunitaria in materia di controllo analogo sulla società e
di prevalenza dell’attività svolta dalla stessa con l’ente o gli enti
pubblici che la controllano.
4. Nei casi di cui al comma 3, l’ente affidante deve dare adeguata
pubblicità alla scelta, motivandola in base ad un’analisi del mercato e
contestualmente trasmettere una relazione contenente gli esiti della
predetta verifica all’Autorità garante della concorrenza e del mercato
per l’espressione di un parere preventivo, da rendere entro sessanta
giorni dalla ricezione della predetta relazione. Decorso il termine, il
parere, se non reso, si intende espresso in senso favorevole.
4-bis. I regolamenti di cui al comma 10 definiscono le soglie oltre le
quali gli affidamenti di servizi pubblici locali assumono rilevanza ai
fini dell’espressione del parere di cui al comma 4.
5. Ferma restando la proprietà pubblica delle reti, la loro gestione può
essere affidata a soggetti privati.
6. È consentito l’affidamento simultaneo con gara di una pluralità di
servizi pubblici locali nei casi in cui possa essere dimostrato che tale
scelta sia economicamente vantaggiosa. In questo caso la durata
dell’affidamento, unica per tutti i servizi, non può essere superiore
alla media calcolata sulla base della durata degli affidamenti indicata
dalle discipline di settore.
7. Le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle rispettive competenze
e d’intesa con la Conferenza unificata di cui all’ articolo 8 del
decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni,
possono definire, nel rispetto delle normative settoriali, i bacini di
gara per i diversi servizi, in maniera da consentire lo sfruttamento
delle economie di scala e di scopo e favorire una maggiore efficienza ed
efficacia nell’espletamento dei servizi, nonché l’integrazione di
servizi a domanda debole nel quadro di servizi più redditizi, garantendo
il raggiungimento della dimensione minima efficiente a livello di
impianto per più soggetti gestori e la copertura degli obblighi di
servizio universale.
8. Il regime transitorio degli affidamenti non conformi a quanto
stabilito ai commi 2 e 3 è il seguente:
a) le gestioni in essere alla data del 22 agosto 2008 affidate conformemente ai principi comunitari in materia di cosiddetta “in house” cessano, improrogabilmente e senza necessità di deliberazione da parte dell’ente affidante, alla data del 31 dicembre 2011. Esse cessano alla scadenza prevista dal contratto di servizio a condizione che entro il 31 dicembre 2011 le amministrazioni cedano almeno il 40 per cento del capitale attraverso le modalità di cui alla lettera b) del comma 2;
b) le gestioni affidate direttamente a società a partecipazione mista pubblica e privata, qualora la selezione del socio sia avvenuta mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, nel rispetto dei principi di cui alla lettera a) del comma 2, le quali non abbiano avuto ad oggetto, al tempo stesso, la qualità di socio e l’attribuzione dei compiti operativi connessi alla gestione del servizio, cessano, improrogabilmente e senza necessità di apposita deliberazione dell’ente affidante, alla data del 31 dicembre 2011;
c) le gestioni affidate direttamente a società a partecipazione mista pubblica e privata, qualora la selezione del socio sia avvenuta mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, nel rispetto dei principi di cui alla lettera a) del comma 2, le quali abbiano avuto ad oggetto, al tempo stesso, la qualità di socio e l’attribuzione dei compiti operativi connessi alla gestione del servizio, cessano alla scadenza prevista nel contratto di servizio;
d) gli affidamenti diretti assentiti alla data del 1° ottobre 2003 a società a partecipazione pubblica già quotate in borsa a tale data e a quelle da esse controllate ai sensi dell’ articolo 2359 del codice civile, cessano alla scadenza prevista nel contratto di servizio, a condizione che la partecipazione pubblica si riduca anche progressivamente, attraverso procedure ad evidenza pubblica ovvero forme di collocamento privato presso investitori qualificati e operatori industriali, ad una quota non superiore al 40 per cento entro il 30 giugno 2013 e non superiore al 30 per cento entro il 31 dicembre 2015; ove siffatte condizioni non si verifichino, gli affidamenti cessano improrogabilmente e senza necessità di apposita deliberazione dell’ente affidante, rispettivamente, alla data del 30 giugno 2013 o del 31 dicembre 2015;
e) le gestioni affidate che non rientrano nei casi di cui alle lettere da a) a d) cessano comunque entro e non oltre la data del 31 dicembre 2010, senza necessità di apposita deliberazione dell’ente affidante.
9. Le società, le loro controllate, controllanti e controllate da una
medesima controllante, anche non appartenenti a Stati membri dell’Unione
europea, che, in Italia o all’estero, gestiscono di fatto o per
disposizioni di legge, di atto amministrativo o per contratto servizi
pubblici locali in virtú di affidamento diretto, di una procedura non ad
evidenza pubblica ovvero ai sensi del comma 2, lettera b), nonché i
soggetti cui è affidata la gestione delle reti, degli impianti e delle
altre dotazioni patrimoniali degli enti locali, qualora separata
dall’attività di erogazione dei servizi, non possono acquisire la
gestione di servizi ulteriori ovvero in ambiti territoriali diversi, né
svolgere servizi o attività per altri enti pubblici o privati, né
direttamente, né tramite loro controllanti o altre società che siano da
essi controllate o partecipate, né partecipando a gare. Il divieto di
cui al primo periodo opera per tutta la durata della gestione e non si
applica alle società quotate in mercati regolamentati e al socio
selezionato ai sensi della lettera b) del comma 2. I soggetti affidatari
diretti di servizi pubblici locali possono comunque concorrere su tutto
il territorio nazionale alla prima gara successiva alla cessazione del
servizio, svolta mediante procedura competitiva ad evidenza pubblica,
avente ad oggetto i servizi da essi forniti.
10. Il Governo, su proposta del Ministro per i rapporti con le regioni
ed entro il 31 dicembre 2009, sentita la Conferenza unificata di cui
all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e
successive modificazioni, nonché le competenti Commissioni parlamentari,
adotta uno o piú regolamenti, ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della
legge 23 agosto 1988, n. 400, al fine di:
a) prevedere l’assoggettamento dei soggetti affidatari cosiddetti in house di servizi pubblici locali al patto di stabilità interno, tenendo conto delle scadenze fissate al comma 8, e l’osservanza da parte delle società in house e delle società a partecipazione mista pubblica e privata di procedure ad evidenza pubblica per l’acquisto di beni e servizi e l’assunzione di personale;
b) prevedere, in attuazione dei principi di proporzionalità e di adeguatezza di cui all’ articolo 118 della Costituzione, che i comuni con un limitato numero di residenti possano svolgere le funzioni relative alla gestione dei servizi pubblici locali in forma associata;
c) prevedere una netta distinzione tra le funzioni di regolazione e le funzioni di gestione dei servizi pubblici locali, anche attraverso la revisione della disciplina sulle incompatibilità;
d) armonizzare la nuova disciplina e quella di settore applicabile ai diversi servizi pubblici locali, individuando le norme applicabili in via generale per l’affidamento di tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica in materia di rifiuti, trasporti, energia elettrica e gas, nonché in materia di acqua;
e) (abrogato)
f) prevedere l’applicazione del principio di reciprocità ai fini dell’ammissione alle gare di imprese estere;
g) limitare, secondo criteri di proporzionalità, sussidiarietà orizzontale e razionalità economica, i casi di gestione in regime d’esclusiva dei servizi pubblici locali, liberalizzando le altre attività economiche di prestazione di servizi di interesse generale in ambito locale compatibili con le garanzie di universalità ed accessibilità del servizio pubblico locale;
h) prevedere nella disciplina degli affidamenti idonee forme di ammortamento degli investimenti e una durata degli affidamenti strettamente proporzionale e mai superiore ai tempi di recupero degli investimenti;
i) disciplinare, in ogni caso di subentro, la cessione dei beni, di proprietà del precedente gestore, necessari per la prosecuzione del servizio;
l) prevedere adeguati strumenti di tutela non giurisdizionale anche con riguardo agli utenti dei servizi;
m) individuare espressamente le norme abrogate ai sensi del presente articolo.
11. L’articolo 113 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli
enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, e
successive modificazioni, è abrogato nelle parti incompatibili con le
disposizioni di cui al presente articolo.
12. Restano salve le procedure di affidamento già avviate alla data di
entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto».
La ricorrente afferma che il legislatore statale riconosce che sia l’affidamento del servizio pubblico ad imprese terze, sia l’affidamento in house sono conformi all’ordinamento europeo e in particolare alla disciplina della concorrenza, ma con la norma di cui si tratta giunge sino ad individuare come forma preferenziale ordinaria l’affidamento del servizio ad imprese terze, mentre relega la possibilità dell’affidamento in house ai soli casi ivi espressi in via d’eccezione, superando la stessa disciplina comunitaria in materia di concorrenza.
5.1.1. – Ad avviso della Regione, i commi 2, 3 e 4 del menzionato art.
23-bis violano l’evocato art. 117, terzo comma, Cost., «in quanto
limitano la potestà legislativa regionale di disciplinare il normale
svolgimento del servizio pubblico da parte dell’ente e di gestire in
proprio i servizi pubblici». Dette disposizioni – prosegue la Regione –
sottopongono la scelta del regime di gestione del servizio a vincoli sia
sostanziali che procedurali, impedendo, in tal modo, una previa
valutazione comparativa da parte dell’amministrazione fra tutte le
possibili opzioni di scelta della forma di gestione, «cioè se fruire dei
vantaggi economici offerti dal mercato dei produttori oppure se
procedere a modellare una propria struttura capace di diversamente
configurare l’offerta delle prestazioni di servizio pubblico».
Si tratterebbe, peraltro, di innovazioni non imposte dal diritto
comunitario, sia sotto il profilo dell’esternalizzazione dei servizi
pubblici locali con rilevanza economica, sia sotto quello della
riattribuzione con la messa in gara delle attuali concessioni prima
della scadenza originariamente prevista.
Ad avviso della Regione Puglia, tale limitazione della capacità delle
amministrazioni regionali e locali di gestire in proprio i servizi
pubblici risulta costituzionalmente illegittima e lesiva della potestà
legislativa regionale in materia, poiché nega illegittimamente
l’autonomia costituzionale di tali enti (art. 114 Cost.), riconosciuta
anche dall’Unione europea, nel suo nucleo imprescindibile della capacità
di darsi un’organizzazione idonea a soddisfare i bisogni sociali nel suo
territorio, cioè della popolazione residente che ne è l’elemento
costitutivo. L’invasione della sfera di competenza regionale e degli
enti territoriali minori sarebbe, poi, enfatizzata dalla precisazione
che le indicate disposizioni – i commi 2, 3, 4 dell’art. 23-bis,
modificato dall’art. 15 cit. – «prevalgono su tutte le discipline di
settore con esse incompatibili», ivi comprese le discipline di settore
regionali.
In conclusione, le disposizioni denunciate, non si limiterebbero a
stabilire principi fondamentali della materia, ma detterebbero «una
disciplina articolata e specifica, invasiva delle competenze regionali
anche in materia di regolazione del servizio idrico integrato». Tali
competenze legislative sarebbero ascrivibili – sempre secondo la Regione
– all’evocato parametro. Infatti, a fronte di quanto affermato dalla
Corte costituzionale nella sentenza n. 246 del 2009, secondo cui l’art.
117, terzo comma, Cost., «il quale contiene l’elenco delle materie di
competenza legislativa concorrente, non contempla la materia» del
servizio idrico integrato, la ricorrente ritiene che tale «osservazione
di carattere generale non toglie […] che implicitamente essa vi rientri
almeno nella misura in cui quel servizio sia funzionalizzato e
utilizzato a fini di alimentazione e di tutela della salute: materie
espressamente indicate come soggette alla legislazione concorrente
dall’art. 117, comma 3, Cost.».
Sotto questo profilo – prosegue la difesa regionale – il servizio idrico
integrato è da considerare «servizio pubblico locale privo di rilevanza
economica, la cui disciplina non è riconducibile al titolo di
legittimazione trasversale “tutela della concorrenza”». E ciò perché,
«con riferimento alla funzione di tutela della salute e di alimentazione
propria dell’acqua, non esiste un mercato concorrenziale ed il ruolo
riservato dal titolo V della Costituzione al legislatore regionale si
riespande in tutte le sue potenzialità». In altri termini, il servizio
deve essere realizzato secondo forme e modalità di gestione «che
garantiscano un governo pubblico partecipato e un finanziamento
attraverso meccanismi perequativi e di equità sociale: senza finalità
lucrativa e nel rispetto dei diritti delle generazioni future e degli
equilibri ecologici».
5.1.2. – È del pari censurato, con riferimento allo stesso parametro
costituzionale dell’art. 117, terzo comma, il comma 8 dell’art. 23-bis,
il quale stabilisce – come visto – che cessano al 31 dicembre 2010 gli
affidamenti rilasciati con procedure diverse dall’evidenza pubblica,
salvo quelli conformi ai vincoli ulteriori di istruttoria e motivazione
previsti dalla nuova disciplina.
La Regione lamenta che tale disposizione «parrebbe determinare per
l’effetto la cessazione di tutti gli affidamenti attribuiti secondo la
disciplina previgente (d.lgs. n. 267 del 2000, art. 113, comma 5,
lettera c), ponendo nell’incertezza l’attuazione dei piani gestionali e
di investimento, nonché i relativi piani tariffari, travolgendo rapporti
giuridici perfezionati ed in via di esecuzione che le parti vogliono
vedere procedere secondo la loro scadenza naturale».
5.2. – Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato,
chiedendo che le questioni proposte siano dichiarate inammissibili o,
comunque, infondate.
La difesa dello Stato rileva che:
a) «la Regione non può lamentare genericamente l’illegittimità costituzionale di leggi statali, ovvero la contrarietà delle stesse all’ordinamento comunitario senza indicare specificamente la lesione di una competenza ad essa attribuita»;
b) le disposizioni censurate rientrano nella materia della tutela della concorrenza, perché perseguono, in modo adeguato e proporzionato, il fine di assicurare una disciplina nazionale uniforme e, nella parte in cui regolano le partecipazioni pubbliche a società miste, sono riconducibili anche alla materia dell’ordinamento civile, in forza degli artt. 2458-2460 del codice civile;
c) «in riferimento alle questioni ex adverso sollevate sulla mancata e/o inesatta applicazione dei principi comunitari in materia di servizi pubblici locali, si ritiene che la doglianza sia mal posta in termini di incostituzionalità», perché «qualora codesta Corte dovesse ravvisare l’esigenza di assicurare una uniforme interpretazione del diritto comunitario, la questione, ai sensi dell’art. 234 del Trattato CE, dovrebbe essere preventivamente oggetto di un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE».
5.3. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, il Presidente del Consiglio dei ministri ha ribadito quanto affermato nell’atto di costituzione, in particolare sostenendo che:
a) il ricorso è inammissibile, perché la Regione non ha impugnato la previgente formulazione dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, ma solo quella successivamente introdotta dall’art. 15 del decreto-legge n. 135 del 2009, la quale è meramente confermativa del principio di eccezionalità della gestione in house già posto precedentemente;
b) la disciplina censurata, la quale è riconducibile alla materia della tutela della concorrenza, è legittima, perché la giurisprudenza comunitaria e quella nazionale hanno sempre affermato che l’istituto dell’in house providing costituisce un’eccezione al principio di concorrenza e all’ordinaria osservanza delle procedure di evidenza pubblica: rappresenta, cioè, «una soluzione residuale alla quale ricorrere solo in caso di impossibilità di trovare una soluzione alternativa efficiente».
6. – Con ricorso notificato il 22 gennaio 2010 e depositato il 27 gennaio successivo (r. ric. n. 10 del 2010), la Regione Toscana ha impugnato – in riferimento all’art. 117, primo, secondo e quarto comma, Cost. – i commi 2, 3, 4 e 8 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 – aggiunto dalla legge di conversione n. 133 del 2008 − nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 166 del 2009.
6.1. – La Regione premette che le modifiche apportate all’art. 23- bis del d.l. n. 112 del 2008 «dettano nuove regole in ordine alle modalità di conferimento dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, realizzando un sistema in cui emerge con forza la centralità e la prevalenza dell’affidamento del servizio attraverso le procedure di evidenza pubblica ed il disfavore del legislatore statale per le modalità di gestione in house, con il dichiarato scopo di procedere ad una liberalizzazione del settore dei servizi pubblici». Premette altresì che la materia dei servizi pubblici locali rientra nell’ambito della potestà legislativa esclusiva delle Regioni, ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost. Premette, infine, che la Corte costituzionale ha rilevato che l’esercizio da parte dello Stato della potestà legislativa in materia di tutela della concorrenza, con riferimento alla disciplina dei servizi pubblici, coinvolge profili aventi un’incidenza su una pluralità di interessi e di oggetti, che non ricadono solo nell’esclusiva competenza statale, ma involgono anche molteplici ambiti di competenza delle Regioni, con la conseguenza che l’intervento dello Stato «deve limitarsi alla disciplina di quegli aspetti strettamente connessi alla tutela ed alla promozione della concorrenza e deve uniformarsi ai principi di adeguatezza e di proporzionalità dell’intervento normativo rispetto al fine pro-concorrenziale perseguito, con ciò escludendo la legittimità di una normativa troppo dettagliata e puntuale o irragionevole».
6.1.1. – Sono censurati, in primo luogo, i commi 2, 3 e 4 del novellato
art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, i quali stabiliscono che di regola
la gestione dei servizi pubblici locali debba essere affidata ad una
società privata o mista tramite gara e ammettono la modalità di
affidamento del servizio in house solo in via eccezionale.
La ricorrente osserva che tali disposizioni esprimono con evidenza il
disfavore manifestato dal legislatore statale per la modalità di
gestione del servizio pubblico attraverso una società a totale
partecipazione pubblica, ancorché sussistano i requisiti indicati
dall’ordinamento comunitario, ossia l’esercizio da parte dell’ente
pubblico di un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi
e la prevalenza dell’attività della società in house a favore dell’ente
controllante.
Tale regime – prosegue la Regione – «non risponde ad esigenze connesse
alla regolazione del mercato e di tutela della concorrenza e stabilisce
una disciplina particolareggiata e puntuale, incidendo in maniera
rilevante sulle prerogative regionali costituzionalmente garantite».
In particolare, poiché l’ente
in house non può ritenersi terzo rispetto
all’amministrazione controllante ma deve considerarsi come uno dei
servizi propri dell’amministrazione stessa, tutta l’organizzazione in
house è sottratta alla disciplina della concorrenza nella scelta del
gestore, in quanto questi è parte dell’organizzazione della
controllante, per la quale svolge attività in via prevalente: non può
pertanto essere considerata un’impresa di terzi, né incide sul mercato.
Conseguentemente, non potrebbe invocarsi il principio di concorrenza –
che invece deve necessariamente conformare l’operato delle
amministrazioni una volta che le stesse abbiano deciso di rivolgersi al
mercato delle imprese – nella ipotesi della scelta dell’in house, che
involge piuttosto profili di auto-organizzazione dell’ente pubblico.
Per la difesa regionale, tale ricostruzione trova conferma nella
giurisprudenza costituzionale, secondo cui l’intervento legislativo
statale a tutela della concorrenza con riferimento ai servizi pubblici
locali di rilevanza economica viene in considerazione solo per quei
profili di disciplina strettamente collegati e funzionali all’esigenza
di definire condizioni concorrenziali uniformi nei vari settori
economici. Invece, quando le Amministrazioni, nell’esercizio delle
valutazioni discrezionali di competenza, decidono di gestire il servizio
attraverso una propria longa manus (la società in house) non ricorrono
le esigenze di tutela della concorrenza e quindi, per tale profilo, non
esiste un titolo legittimante la competenza statale. In altri termini,
la scelta in ordine alle modalità di gestione del servizio pubblico
locale è da considerare una tipica scelta di organizzazione, «che in
quanto organizzazione locale e non nazionale dei servizi non rientra
nella competenza statale, ma in quella regionale ai sensi dell’art. 117,
quarto comma, Cost.».
6.1.1.1. – Ne deriva, per la ricorrente, l’illegittimità costituzionale dei commi censurati, in riferimento all’art. 117, secondo e quarto comma, Cost., perché detti commi esprimono una prevalenza della gestione esternalizzata dei servizi pubblici locali, in quanto intervengono nella materia dell’organizzazione della gestione di detti servizi, con una normativa di dettaglio, che non lascia margini all’autonomia del legislatore regionale, pur perseguendo finalità che esulano da profili strettamente connessi alla tutela della concorrenza.
6.1.1.2. – Sempre per la ricorrente, i commi impugnati si pongono in
contrasto anche con il diritto comunitario, in violazione dell’art. 117,
primo, secondo e quarto comma, Cost.
Infatti, nessuna disposizione comunitaria vigente limita il ricorso
all’in house a casi eccezionali, in presenza di rigorose condizioni
previste dalla legge e previo assolvimento di puntuali regole
procedimentali, così come invece previsto dalle disposizioni censurate.
Al contrario – sostiene la ricorrente – l’ordinamento comunitario
ammette espressamente la possibilità di fornire i servizi pubblici con
un’organizzazione propria, in alternativa all’affidamento ad imprese
terze, con la conseguenza che le disposizioni censurate non trovano
fondamento né nella riserva costituzionale alla legislazione statale
esclusiva della materia tutela della concorrenza (art. 117, secondo
comma, lettera e, Cost.), né nella disciplina comunitaria.
A tali conclusioni non potrebbe opporsi che le disposizioni impugnate
rientrano nella materia dei livelli essenziali delle prestazioni
concernenti i diritti civili e sociali (art. 117, secondo comma, lett.
m, Cost.), in quanto hanno ad oggetto unicamente le forme di gestione
dei servizi pubblici a rilevanza economica e non le prestazioni che
dette gestioni debbono assicurare agli utenti. Né del pari potrebbe
opporsi che esse rientrano nella materia delle funzioni fondamentali di
comuni, province e città metropolitane, ai sensi dell’art. 117, secondo
comma, lettera p), Cost., in quanto «la gestione dei predetti servizi
non può certo considerarsi esplicazione di una funzione propria ed
indefettibile dell’ente locale».
6.1.2. – È censurato, in secondo luogo – sempre in riferimento all’art.
117, primo, secondo e quarto comma Cost. – il comma 8 del novellato art.
23-bis del d.l. n. 112 del 2008, il quale introduce un nuovo regime
transitorio, valido per tutti i servizi, compreso quello idrico, con
riferimento alle gestioni in essere.
La Regione sostiene che anche detta disposizione non si limita a
disciplinare, con norma di carattere generale, la materia della gestione
dei servizi pubblici sotto lo specifico profilo della tutela della
concorrenza e, in ogni caso, non rispetta i principi di adeguatezza e di
proporzionalità dell’intervento normativo da parte dello Stato in
ragione delle finalità pro-concorrenziali. Non appare, infatti,
ragionevole l’aver stabilito una puntuale articolazione temporale della
disciplina transitoria, valida indifferentemente per tutti le tipologie
di servizi pubblici e riferita genericamente a tutte le diverse
situazioni presenti sul territorio nazionale. Inoltre, anche attraverso
la disciplina del periodo transitorio, viene ribadito il disfavore del
legislatore statale per le gestioni in house, le quali, pur affidate
conformemente ai principi dell’ordinamento comunitario, sono destinate a
cessare improrogabilmente alla data del 31 dicembre 2011.
In conclusione, ad avviso della Regione, il comma censurato si pone in
contrasto con gli evocati parametri, perché:
a) il legislatore statale, con la disciplina in esame, non ha limitato il proprio intervento agli aspetti più strettamente connessi alla tutela della concorrenza ed alla regolazione del mercato, ma è intervenuto, con una norma di dettaglio, sottraendo alle Regioni la libera determinazione se ricorrere o meno al mercato ai fini della gestione del servizio pubblico; determinazione che rientra nell’ambito del buon andamento dell’organizzazione dei servizi pubblici, che spetta alle Regioni ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost.;
b) la disposizione, nella parte in cui impone al 31 dicembre 2011 la cessazione di tutte le gestioni in house, viola l’art. 117 primo comma, Cost.; per il tramite del diritto comunitario, che invece consente la prosecuzione di tali gestioni;
c) neppure con riferimento alla disciplina del periodo transitorio possono venire in rilievo le competenze legislative statali in materia di livelli essenziali delle prestazioni o di funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane, per le stesse ragioni già esposte in relazione alla questione avente ad oggetto i commi 2, 3 e 4 del menzionato art. 23-bis.
6.2. – Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni proposte siano dichiarate inammissibili o, comunque, infondate, sulla base di argomentazioni analoghe a quelle svolte in relazione al ricorso n. 6 del 2010 (supra: punto 5.2.).
6.3. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, il Presidente del Consiglio dei ministri ha ribadito quanto affermato nell’atto di costituzione, in particolare sostenendo che:
a) il ricorso è inammissibile, perché la Regione non ha impugnato la previgente formulazione dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, ma solo quella successivamente introdotta dall’art. 15 del decreto-legge n. 135 del 2009, la quale è meramente confermativa del principio di eccezionalità della gestione in house già posto precedentemente;
b) la disciplina censurata, la quale è riconducibile alla materia della tutela della concorrenza, è legittima, perché la giurisprudenza comunitaria e nazionale ha sempre affermato che l’istituto dell’in house providing costituisce un’eccezione al principio di concorrenza e all’ordinaria osservanza delle procedure di evidenza pubblica.
7. – Con ricorso notificato il 22 gennaio 2010 e depositato il 27 gennaio successivo (r. ric. n. 12 del 2010), la Regione Liguria ha impugnato, in riferimento agli artt. 117, primo, secondo e quarto comma, 118, primo e secondo comma, e 119 Cost., i commi 2, 3, 4 e 8 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 – aggiunto dalla legge di conversione n. 133 del 2008 –, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 166 del 2009.
7.1. – La Regione premette che l’art. 4 della legge reg. n. 39 del 2008
– i cui commi 1, 4, 5, 6 e 14 sono oggetto di impugnazione da parte
dello Stato con il ricorso n. 2 del 2009 – ammette senza limitazioni la
gestione in house dei servizi pubblici.
Premette altresì che l’art. 15 del d.l. n. 135 del 2009, che ha
introdotto le disposizioni censurate, pur essendo intitolato
«Adeguamento alla disciplina comunitaria in materia di servizi pubblici
locali di rilevanza economica», non cita mai atti comunitari, perché non
è, in realtà, imposto da esigenze di adeguamento alla normativa
comunitaria, ma è frutto di una scelta «meramente statale volta ad
imporre la procedura competitiva di affidamento del servizio come
procedura ordinaria e l’affidamento in house come procedura
eccezionale». Al contrario, – prosegue la ricorrente – il diritto
comunitario, pur incentrato sulla tutela della concorrenza come metodo
per garantire la pari opportunità di accesso al mercato delle commesse
pubbliche per tutti gli operatori europei, ammette pienamente il diritto
di ogni amministrazione di erogare direttamente i servizi pubblici autoproducendoli corrispondentemente alla propria missione.
Premette, infine, che l’art. 15 del d.l. n. 135 del 2009 è impugnabile
anche nelle parti in cui è confermativo dell’art. 23-bis del d.l. n. 112
del 2008, in base alla consolidata giurisprudenza costituzionale secondo
la quale gli atti legislativi sono sempre impugnabili anche se
apparentemente «confermativi», perché dotati sempre, per propria natura
intrinseca, del carattere della novità.
7.1.1. – Sono censurati, in primo luogo, i commi 2, 3 e 4 del novellato art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, i quali stabiliscono che di regola la gestione dei servizi pubblici locali debba essere affidata ad una società privata o mista tramite gara e ammettono la modalità di affidamento del servizio in house solo in via eccezionale.
7.1.1.1. – La ricorrente osserva che tali disposizioni esprimono il
disfavore del legislatore statale per la modalità di gestione del
servizio pubblico attraverso una società a totale partecipazione
pubblica, ponendo pesanti limiti sostanziali e procedurali. Esse operano
una drastica compressione dell’autonomia legislativa regionale in
materia di servizi pubblici locali ed organizzazione degli enti locali
(art. 117, quarto comma, Cost.), dato che le possibili scelte della
Regione sulla forma di gestione del servizio vengono limitate a due
possibilità, mentre la gestione diretta viene esclusa e quella tramite
società in house limitata a casi eccezionali.
Ad avviso della difesa regionale, le disposizioni censurate non
rientrano nella competenza legislativa statale in materia di tutela
della concorrenza, ma si limitano a negare «il diritto dell’ente
territoriale responsabile di erogare in proprio il servizio pubblico a
favore della propria comunità»; diritto espressamente riconosciuto dalla
giurisprudenza della Corte di giustizia UE, la quale afferma che
un’autorità pubblica, che sia un’amministrazione aggiudicatrice, ha la
possibilità di adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa
incombenti mediante propri strumenti, amministrativi, tecnici e di altro
tipo, senza essere obbligata a far ricorso ad entità esterne non
appartenenti ai propri servizi.
Ad avviso della Regione Liguria, le limitazioni poste dalle disposizioni
censurate alla capacità delle amministrazioni regionali e locali di
gestire in proprio i servizi pubblici risultano costituzionalmente
illegittime e lesive della potestà legislativa regionale nella materia.
E ciò, perché «un problema di tutela della concorrenza può iniziare solo
dopo che è stata presa la decisione di gestire il servizio attraverso il
mercato, anziché in proprio. Al contrario, la decisione di mantenere il
servizio nell’ambito della propria organizzazione diretta, o della
propria organizzazione in house, non restringe e non altera in alcun
modo la concorrenza».
In relazione ad altri eventuali titoli di competenza statale, la
ricorrente osserva, innanzitutto, che «la disciplina in esame non appare
riferibile alla competenza legislativa statale in tema di
“determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i
diritti civili e sociali” perché riguarda precipuamente servizi di
rilevanza economica e comunque non attiene alla determinazione di
livelli essenziali». Rileva, poi, che, in base alla giurisprudenza
costituzionale, l’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. non può
essere invocato in relazione alle modalità di affidamento dei servizi
locali. In particolare, il fatto che nella sentenza della Corte
costituzionale n. 307 del 2009, si legga che «le competenze comunali in
ordine al servizio idrico sia per ragioni storico-normative sia per
l’evidente essenzialità di questo alla vita associata delle comunità
stabilite nei territori comunali devono essere considerate quali
funzioni fondamentali degli enti locali» confermerebbe che, data
l’importanza del servizio idrico, lo Stato non può vietare all’ente di
svolgerlo direttamente, costringendolo ad affidarlo a terzi.
Con riferimento al censurato comma 4, la ricorrente aggiunge che la sua
illegittimità costituzionale consegue logicamente a quella dei
precedenti commi 2 e 3. Detto comma, infatti, richiede uno speciale
parere per l’adozione della gestione diretta del servizio mediante la
propria organizzazione o in house; parere che «si può giustificare
soltanto come forma di garanzia della “eccezionalità” della gestione in
house e della fondatezza delle specifiche ragioni della scelta, ma che
[…] non ha più senso né ragionevolezza una volta che si riconosca il
diritto dell’amministrazione di gestire in proprio il Servizio».
In conclusione, le disposizioni dei commi 2, 3 e 4 impugnati sono, per
la ricorrente, illegittime, perché, in violazione dell’art. 117, quarto
comma, Cost., limitano la potestà legislativa regionale di disciplinare
il normale svolgimento del servizio pubblico da parte dell’ente,
sottoponendo tale scelta a vincoli sia sostanziali (le «peculiari
caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del
contesto territoriale di riferimento») che procedurali (l’onere di
trasmettere una relazione contenente gli esiti della predetta verifica
all’Autorità garante della concorrenza e del mercato e alle autorità di
regolazione del settore).
7.1.1.2. – La ricorrente lamenta anche che le stesse disposizioni
violano l’art. 118, primo e secondo comma, Cost., perché – vietando lo
svolgimento diretto del servizio idrico – vanificano «la norma che
assegna, preferibilmente, le funzioni amministrative ai comuni (il
servizio idrico virtualmente rimane di spettanza dei comuni ma in
concreto viene assegnato ad altri soggetti; inoltre, la norma impugnata
toglie ai comuni una parte essenziale della funzione, cioè la
possibilità di scegliere la forma di gestione più adeguata)». Inoltre,
svuotano il principio di sussidiarietà, perché si pongono in contrasto
con il principio secondo cui «i comuni “sono titolari di funzioni
amministrative proprie” (il servizio idrico, essendo una funzione
fondamentale, rientra tra le funzioni “proprie” di cui all’art. 118,
comma 2)».
La ricorrente sostiene di essere legittimata a far valere la lesione
delle competenze amministrative degli enti locali anche
indipendentemente dalla prospettazione della violazione della competenza
legislativa regionale, perché le competenze comunali sono strettamente
connesse con la competenza legislativa regionale in materia di servizi
pubblici e di organizzazione degli enti locali.
7.1.1.3. – La difesa regionale lamenta, poi, che i censurati commi 2, 3
e 4 dell’art. 23-bis violano l’art. 117, primo comma, Cost., in quanto
contrastano con la Carta europea dell’autonomia locale di cui alla legge
30 dicembre 1989, n. 439 (Ratifica ed esecuzione della convenzione
europea relativa alla Carta europea dell’autonomia locale, firmata a
Strasburgo il 15 ottobre 1985).
Sarebbero, in particolare, violate le seguenti disposizioni della Carta:
a) l’art. 3, comma 1, secondo cui «per autonomia locale, s’intende il diritto e la capacità effettiva, per le collettività locali, di regolamentare ed amministrare nell’ambito della legge, sotto la loro responsabilità, e a favore delle popolazioni, una parte importante di affari pubblici»;
b) l’art. 4, comma 2, secondo cui «le collettività locali hanno, nell’ambito della legge, ogni più ampia facoltà di prendere iniziative proprie per qualsiasi questione che non esuli dalla loro competenza o sia assegnata ad un’altra autorità»;
c) l’art. 4, comma 4, secondo cui «le competenze affidate alle collettività locali devono di regola essere complete ed integrali».
Ad avviso della ricorrente, una volta che si riconosca che il servizio
idrico è parte delle funzioni fondamentali dei Comuni, «sembra evidente
che solo ad essi spetta la decisione sul migliore modo di organizzarlo.
La loro autonomia potrà essere limitata sul versante del dimensionamento
del servizio per assicurare una distribuzione efficiente, e dunque sulla
eventuale necessità di una gestione associativa della risorsa idrica, ma
non si vede come possa risultare legittimo privarli o comunque
configurare come eccezionale e soggetta a specifici aggravi
procedimentali la scelta di assumere essi stessi la responsabilità della
gestione diretta del servizio».
Né a tale assunto potrebbe opporsi – per la stessa ricorrente – che le
norme impugnate non incidono sulla spettanza delle funzioni ma solo
sulle forme di gestione. Infatti, «quando la disciplina delle forme di
gestione arriva ad impedire la gestione diretta del servizio idrico, non
si può negare un’incidenza sulla spettanza concreta della funzione».
La ricorrente sostiene di essere legittimata a far valere la violazione
della Carta europea dell’autonomia locale, «perché la lesione delle
competenze comunali è strettamente connessa alla violazione della
competenza legislativa regionale in materia di servizi pubblici e di
organizzazione degli enti locali».
7.1.1.4. – In subordine, per il caso in cui «fosse ritenuta legittima
l’imposizione di un regime “ordinario” di affidamento del servizio
all’esterno e la limitazione a casi eccezionali di forme di gestione non
concorrenziali», la Regione censura – in riferimento all’art. 117,
secondo comma, lettera e), e quarto comma, Cost. – il comma 2, lettera
b), del nuovo art. 23-bis, «nella parte in cui regola in dettaglio
l’affidamento del servizio alla società mista, imponendo una
partecipazione minima del 40% del socio privato e l’attribuzione al
socio di specifici compiti operativi connessi alla gestione del
servizio».
Lamenta la ricorrente che tale disposizione viola il criterio di
proporzionalità che deve guidare la tutela della concorrenza, invadendo
il campo riservato alla potestà legislativa regionale in materia di
servizi pubblici. E ciò, perché detta disposizione pone ulteriori
vincoli alla potestà legislativa regionale, senza che essi risultino
funzionali ad una maggiore promozione della concorrenza, della quale
potrebbero persino risultare limitativi. Infatti – prosegue la difesa
regionale – «sono gli stessi privati che potrebbero non avere interesse
ad acquistare, un pacchetto di azioni significativo (almeno il 40%) e
presumibilmente di notevole impegno economico (e che tuttavia non
garantisce affatto il controllo sulla società), per avere in cambio […]
solo singoli e specifici compiti operativi e non l’intera gestione (a
volte, unica condizione per poter rientrare degli investimenti fatti per
“comprare” la qualifica di socio). E per altro verso, in senso
contrario, in alcuni casi la situazione gestionale concretamente
esistente potrebbe rendere preferibile in termini di efficienza una
privatizzazione attraverso la selezione di un socio privato mero
finanziatore, al quale non affidare alcun compito operativo».
7.1.1.5. – Sempre in via subordinata, «qualora fosse ritenuta legittima l’imposizione di un regime “ordinario” di affidamento del servizio all’esterno e la limitazione a casi eccezionali di forme di gestione non concorrenziali», la Regione censura – con implicito riferimento all’art. 117, quarto comma, Cost. – il comma 3 dell’art. 23-bis, nella parte in cui regola le forme di affidamento non competitive, perché esso «invece di rinviare alle forme di gestione diretta previste dalla legislazione regionale o, in mancanza, scelte dagli enti locali, regola direttamente anche tale caso, imponendo la gestione in house ed escludendo la gestione in proprio da parte dell’ente locale o la gestione tramite azienda speciale». Appare infatti evidente – per la ricorrente – che, nel momento in cui non si attiva la procedura competitiva, è escluso che lo Stato possa invocare la propria competenza in materia di tutela della concorrenza per disciplinare le forme di gestione non competitive, che ricadono, invece, nella competenza regionale piena in materia di servizi pubblici e di organizzazione degli enti locali.
7.1.2. – È censurato, in secondo luogo – in riferimento agli artt. 117, primo e quarto comma, Cost. – il comma 8 del novellato art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, il quale regola il «regime transitorio degli affidamenti non conformi a quanto stabilito ai commi 2 e 3, prevedendo, in particolare:
nella lettera a), le modalità di cessazione delle gestioni in house in essere;
nelle lettere b) e c), il regime transitorio delle gestioni affidate direttamente a società miste;
nella lettera d), le modalità di cessazione degli affidamenti diretti a società a partecipazione pubblica.
7.1.2.1. – La Regione lamenta, innanzitutto, che la disposizione
viola
l’art. 117, quarto comma, Cost., per ragioni analoghe a quelle fatte
valere sub 7.1.1.1.
Aggiunge la ricorrente che la privatizzazione prevista dalla norma
censurata non è riconducibile alla materia della tutela della
concorrenza e «non ricade in specifiche competenze né della Comunità
europea, né dello Stato: né, d’altronde, è una vera materia, trattandosi
invece di una modalità di gestione di un bene, servizio o attività.
Inoltre, trattandosi di un trasferimento ai privati di risorse
costituite a spese della collettività, è un processo che va attentamente
valutato in termini di benefici di ritorno alla collettività stessa.
Essa, dunque, si giustifica soltanto là dove l’ingresso del privato sia
una garanzia di maggiore efficienza della gestione del bene
privatizzato». Infatti – sempre secondo la difesa regionale – lo Stato
può legiferare solo: «a) per assicurare la concorrenza là dove l’ente
competente decida di aprire il servizio ai privati; b) per assicurare i
livelli essenziali delle prestazioni; c) ponendo norme di principio sul
coordinamento finanziario, là dove si tratti di limitare il costo dei
servizi rispetto al bilancio pubblico».
A fronte di ciò, le norme sul superamento della gestione pubblica dei
servizi sarebbero, in chiave meramente ideologica, «orientate a favorire
un ingiustificabile processo di “svendita” (trattandosi di vendita
obbligatoria e quindi fuori dalle condizioni di mercato) del patrimonio
pubblico capitalizzato nel valore delle società pubbliche che hanno
avuto in affidamento i servizi, senza alcuna valutazione delle
conseguenze che questo processo avrebbe sulla qualità dei servizi».
7.1.2.2. – La ricorrente lamenta, infine, che il censurato comma 8 dell’art. 23-bis viola, per le ragioni già esposte in relazione ai precedenti commi 2, 3 e 4:
a) l’art. 117, primo comma, Cost., «per contrasto con la Carta europea dell’autonomia locale»;
b) l’art. 117, secondo comma, Cost., «per erronea interpretazione dei confini dei poteri statali ivi previsti»;
c) l’art. 117, quarto comma, Cost., «per violazione della potestà legislativa regionale piena in materia di servizi locali e organizzazione degli enti locali»;
d) l’art. 118, primo e secondo comma, Cost., «per violazione del principio di sussidiarietà e della titolarità comunale di funzioni proprie»;
e) l’art. 119 Cost., sotto il profilo dell’autonomia finanziaria degli enti locali, perché «impone ad essi di cedere rilevanti quote delle società da essi controllate»;
f) in subordine, per il caso in cui «fosse ritenuta legittima l’imposizione di un regime “ordinario” di affidamento del servizio all’esterno e la limitazione a casi eccezionali di forme di gestione non concorrenziali», l’art. 117, secondo comma, lettera e), e quarto comma, Cost., perché regola nel dettaglio le quantità, le modalità e i tempi delle cessioni, per le ragioni già esposte sub 7.1.1.4.
7.2. – Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni proposte siano dichiarate inammissibili o, comunque, infondate, sulla base di argomentazioni analoghe a quelle svolte in relazione ai ricorsi n. 6 e n. 10 del 2010 (supra: punti 5.2. e 6.2.).
7.3. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, la Regione Liguria ha sostanzialmente ribadito quanto già sostenuto nel ricorso, aggiungendo che, contrariamente a quanto eccepito dalla difesa dello Stato:
a) il ricorso non è generico, perché la ricorrente ha chiaramente individuato le competenze legislative che assume violate;
b) il fatto che l’intervento legislativo censurato abbia carattere macroeconomico non rileva nel caso di specie, perché rileverebbe solo se si trattasse di una legge di sostegno economico a determinati settori produttivi;
c) il richiamo degli articoli 2458-2460 cod. civ. non è pertinente, perché tali norme si riferiscono a profili specifici del diritto societario che nulla hanno a che vedere con le disposizioni censurate.
7.4. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, il Presidente del Consiglio dei ministri ha ribadito quanto affermato nell’atto di costituzione, svolgendo, inoltre, considerazioni analoghe a quelle svolte in relazione al ricorso n. 10 del 2010 (supra: punto 6.3.).
8. – Con ricorso notificato il 21 gennaio 2010 e depositato il 28 gennaio successivo (r. ric. n. 13 del 2010), la Regione Emilia-Romagna ha impugnato – in riferimento agli artt. 114, 117, primo, secondo, quarto e sesto comma, 118 e 119 Cost. – i commi 3, 4-bis, 8, 9 e 10 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 – aggiunto dalla legge di conversione n. 133 del 2008 –, nel testo modificato dall’art. 15 del decreto-legge n. 135 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 166 del 2009.
8.1. – La ricorrente premette che la privatizzazione prevista dalle
disposizioni censurate non è riconducibile alla materia della tutela
della concorrenza e «non ricade in specifiche competenze né della
Comunità europea, né dello Stato». Si tratta invece di una modalità di
gestione di un bene, servizio o attività, attraverso un trasferimento ai
privati di risorse costituite a spese della collettività, da valutarsi
in termini di benefici di ritorno alla collettività stessa. Essa,
dunque, si giustifica soltanto là dove l’ingresso del privato sia una
garanzia di maggiore efficienza della gestione del bene privatizzato.
Infatti – sempre secondo la difesa regionale – lo Stato può legiferare
solo: «a) per assicurare la concorrenza là dove l’ente competente decida
di aprire il servizio ai privati; b) per assicurare i livelli essenziali
delle prestazioni; c) ponendo norme di principio sul coordinamento
finanziario, là dove si tratti di limitare il costo dei servizi rispetto
al bilancio pubblico». A fronte di ciò, le norme sul superamento della
gestione pubblica dei servizi sarebbero meramente ideologiche, in quanto
«orientate a favorire un ingiustificabile processo di “svendita”
(trattandosi di vendita obbligatoria e quindi fuori dalle condizioni di
mercato) del patrimonio pubblico capitalizzato nel valore delle società
pubbliche che hanno avuto in affidamento i servizi, senza alcuna
valutazione delle conseguenze che questo processo avrebbe sulla qualità
dei servizi».
Ad avviso della ricorrente, è evidente il suo interesse ad impugnare
tali disposizioni: «a) su un piano generale onde opporre ad una visione
ideologica, priva di qualsiasi riscontro oggettivo, una diversa
interpretazione degli interessi della propria comunità; b) sul piano più
direttamente giuridico, al fine di poter esplicare la propria competenza
legislativa in materia di servizi pubblici, che è lo strumento con cui
la Costituzione garantisce la sua autonomia politica».
La ricorrente procede poi ad analizzare i precedenti giurisprudenziali
costituzionali in tema di servizi pubblici locali, traendone i seguenti
principi:
a) l’intervento legislativo statale in una materia come quella dei servizi pubblici locali, non espressamente prevista nell’art. 117 Cost., si giustifica solo alla luce della competenza esclusiva che lo Stato ha in materia di «tutela della concorrenza», la quale, stante la sua trasversalità, può abbracciare qualsiasi attività economica (sentenza n. 272 del 2004);
b) tuttavia, l’ambito di operatività della competenza in materia di «tutela della concorrenza» è definito anche attraverso il rispetto del principio di proporzionalità e adeguatezza, nel senso che l’intervento legislativo statale non può essere talmente dettagliato da escludere qualsiasi possibilità di regolazione da parte della Regione (sentenza n. 272 del 2004);
c) sono costituzionalmente illegittime sia le disposizioni statali dirette a disciplinare i servizi pubblici locali privi di rilevanza economica, sia le disposizioni dirette a disciplinare aspetti dei servizi pubblici locali di rilievo economico, ma con esasperato taglio applicativo e di dettaglio (sentenza n. 272 del 2004);
d) la disciplina statale sulle modalità di affidamento dei servizi pubblici a rilevanza economica è costituzionalmente legittima, in quanto riconducibile alla materia della tutela della concorrenza (sentenza n. 307 del 2009);
e) le competenze comunali in ordine al servizio idrico, sia per ragioni storico-normative, sia per l’evidente essenzialità di questo per la vita associata delle comunità stabilite nei territori comunali, devono essere considerate quali funzioni fondamentali degli enti locali, la cui disciplina è stata affidata alla competenza esclusiva dello Stato dal novellato art. 117 Cost.; ciò non toglie, ovviamente, che la competenza in materia di servizi pubblici locali resti una competenza regionale, la quale risulta in un certo senso limitata dalla competenza statale suddetta, ma può continuare ad essere esercitata negli altri settori, nonché in quello dei servizi fondamentali, purché non sia in contrasto con quanto stabilito dalle leggi statali (sentenza n. 307 del 2009).
8.1.1. – È censurato, in primo luogo – in riferimento agli artt. 114,
117, primo, secondo e quarto comma, e 118 Cost. – il comma 3 del
novellato art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, il quale ammette la
modalità di affidamento del servizio direttamente a società in house
solo in via eccezionale.
La ricorrente prospetta questioni analoghe a quelle prospettate dalla
Regione Liguria nel ricorso n. 13 del 2010 in relazione alla stessa
disposizione (supra: punti 7.1.1.1. e 7.1.1.2).
Con particolare riferimento al parametro dell’art. 114 Cost., la
ricorrente precisa che la norma impugnata viola l’autonomia
organizzativa degli enti locali, quanto al miglior soddisfacimento dei
servizi di propria titolarità.
8.1.2. – È censurato, in secondo luogo – in riferimento all’art. 117,
sesto comma, Cost. – il comma 4-bis del novellato art. 23-bis del d.l.
n. 112 del 2008, il quale affida al regolamento governativo di cui al
successivo comma 10 il compito di individuare una soglia oltre la quale
l’affidamento di un servizio pubblico locale in forma derogatoria (ossia
a società in house), per assenza in concreto di un mercato di
riferimento, deve essere assoggettato alla funzione consultiva e di
verifica svolta dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato.
La Regione ritiene che le determinazioni relative a tale soglia non
possano che essere assunte in sede regionale, entro limiti fissati
direttamente dalla legge statale, trattandosi di determinare un livello
di efficienza del servizio, che solo a livello regionale può essere
concretamente e correttamente apprezzato. Lamenta, perciò, che è
illegittimo spostare sulla fonte regolamentare parte di tale disciplina,
in violazione dell’evocato art. 117, sesto comma, Cost., che consente al
Governo di intervenire con fonti secondarie solo in materie di esclusiva
competenza statale. Tale non sarebbe la fissazione della soglia in
questione, perché «non risponde ad alcuna logica affermare che la
rilevanza o meno dell’affidamento dipenda da un valore economico».
Osserva la stessa Regione che la soglia in questione «è stata fissata,
stando allo schema di regolamento approvato dal Consiglio dei Ministri
in data 17 dicembre 2009, nel valore economico del servizio oggetto
dell’affidamento superiore a 200.000,00 €, (mentre è comunque richiesto
il parere a prescindere dal valore economico del servizio qualora la
popolazione interessata sia superiore a 50.000 abitanti)». Si tratta –
prosegue la difesa regionale – di un limite che è espressione di un
apprezzamento ex ante del tutto forfettario che non è collegato ad alcun
livello di efficienza del servizio, «né appare uno strumento in grado di
fissare la appropriatezza, la qualità, il controllo e il rispetto dei
parametri della concorrenza e, quindi, il grado di concorrenzialità».
Sempre secondo la ricorrente, la conseguenza negativa di tale disciplina
consiste nel fatto che «gli enti locali, accertata in concreto l’assenza
di un mercato di riferimento, se riusciranno a contenere l’affidamento
al di sotto della soglia regolamentare, potranno tranquillamente evitare
la gara e gestire in house il servizio, senza che nessuna autorità
tecnica possa valutare la sussistenza dei requisiti legittimanti la
deroga».
8.1.3. – Sono censurati, in terzo luogo – «per violazione degli artt. 114, 118, 117, commi 1, 2 e 4, e 119 Cost., nonché del principio di tutela dell’affidamento connesso alla responsabilità regionale» – i commi 8 e 9 del novellato art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, i quali disciplinano il regime transitorio per gli affidamenti in atto dei servizi pubblici locali di rilievo economico.
8.1.3.1. – In particolare, la ricorrente sostiene che il censurato comma
8 è solo apparentemente una norma a favore della concorrenza, perché «in
realtà essa introduce disposizioni più rigide della normativa
comunitaria di cui si afferma l’attuazione», incidendo pregiudizialmente
nell’ambito degli investimenti, rispetto al quale la Regione ha sempre
avuto un ruolo fondamentale.
Al di là della violazione del principio di uguaglianza e di libertà di
iniziativa economica – che riguarda più propriamente gli operatori
economici che hanno fatto affidamento su una certa durata della gestione
del servizio affidato – ciò che rileva in questa sede per la Regione
ricorrente è la circostanza che tale disposizione incide sull’assetto
del sistema regionale degli affidamenti, ledendo il ruolo della Regione,
anche di tipo legislativo, nel definire la durata degli affidamenti
medesimi.
Vi sarebbe, quindi, una lesione della disciplina legislativa
legittimamente stabilita dalla Regione in base ai suoi livelli di
competenza (violazione dell’art. 117, quarto comma, Cost.) e della
responsabilità della Regione nei confronti del variegato panorama delle
società pubbliche o semi pubbliche affidatarie dei servizi pubblici, che
a tale assetto si sono correttamente attenute.
8.1.3.2. – Per la ricorrente, la disposizione viola inoltre l’art.117, primo comma, Cost., perché «nel diritto comunitario il modello organizzativo dell’autoproduzione dei servizi attraverso affidamenti in house è stato ritenuto in linea con i principi del Trattato, tra cui, come noto, vi è quello della tutela e promozione della concorrenza». La Regione svolge sul punto argomentazioni analoghe a quelle svolte nel ricorso n. 12 del 2010 e sopra riportate ai punti: 7.1.1.4., 7.1.1.5. e 7.1.2.1.
8.1.3.3. – La Regione lamenta, poi, che il comma 8 impugnato contrasta con «il principio di pluralismo paritario istituzionale, in violazione degli artt. 114 e 118 Cost». e ciò, perché la nuova disciplina sarebbe così rigida da annullare qualsiasi autonomia esercitabile in materia.
Sarebbe perciò violato il principio fondamentale di sussidiarietà, «che
richiede […] una valutazione in concreto della situazione locale (che
può enormemente variare da un ambito ottimale all’altro), anche per
verificare le specifiche condizioni di mercato in cui si svolge il
servizio e in cui si “privatizza” il patrimonio pubblico».
8.1.3.4. – Si lamenta, ancora, che il censurato comma 8 contrasta con
l’art. 119, sesto comma, Cost., secondo cui «i Comuni, le Province le
Regioni hanno un proprio patrimonio, attribuito secondo i principi
generali determinati dalla legge dello Stato».
Per la ricorrente, le ragioni del dedotto contrasto stanno nel fatto che
le disposizioni censurate impongono «alle Amministrazioni pubbliche di
liberarsi di una quota del proprio patrimonio societario a prescindere
dalla convenienza economica dell’operazione, e quindi dalla
considerazione in concreto del tempo, delle modalità, della quantità,
valutazioni indispensabili ad evitare che si produca una svendita coatta
di capitali pubblici». Per come è strutturata la norma – prosegue la
difesa regionale – «non c’è alcuna possibilità di realizzare un ritorno
economico che equilibri il depauperamento, obbligato per legge, del
patrimonio della collettività, e si determina un indebolimento
finanziario della governance pubblica senza adeguata giustificazione e
idonee contromisure, con evidente violazione della norma costituzionale
sull’autonomia finanziaria di Regioni e Comuni che, per tali finalità
costituzionalmente riconosciute, ha espressamente ad essi attribuito un
proprio patrimonio, il quale non può essere inciso per finalità
contrastanti con la sua stessa conservazione ed ottimale gestione».
8.1.3.5. – Quanto al comma 9 dell’art. 23-bis – il quale stabilisce che le società che, in Italia o all’estero, gestiscono servizi pubblici locali in virtú di affidamento diretto, di una procedura non ad evidenza pubblica ovvero ai sensi del comma 2, lettera b), nonché i soggetti cui è affidata la gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali degli enti locali, qualora separata dall’attività di erogazione dei servizi, non possono acquisire la gestione di servizi ulteriori – la Regione sostiene che esso contrasta:
a) con l’art. 117, primo comma, Cost., perché il diritto comunitario prevede che le società in house sia tenuta a svolgere a favore degli enti di riferimento solo l’attività prevalente, ben potendo destinare l’attività residua anche al mercato, mentre «la norma in questione trasforma il concetto di “prevalenza” dell’attività in “attività esclusiva”»;
b) con l’art. 117, quarto comma, Cost., perché reca interventi irragionevoli e non proporzionali agli scopi di tutela della concorrenza prefissati.
In particolare, quanto a quest’ultima questione, la ricorrente lamenta che è irragionevole estendere le conseguenze limitative degli affidamenti diretti anche alle società miste costituite ai sensi del comma 2, lettera b), dell’art. 23-bis, considerato che, per volontà dello stesso legislatore, tale modello di gestione è stato equiparato a quello dell’esternalizzazione, nella comune categoria delle formule ordinarie di organizzazione dei servizi pubblici locali di rilievo economico. Non vi sarebbe, poi, ragionevole motivo «nella scelta legislativa di escludere da tale regime limitativo, invece, le società quotate e di prevedere una specie di moratoria con riferimento alla partecipazione alle cc.dd. prime gare». Un ulteriore elemento di irragionevolezza starebbe nel fatto che la disposizione non riguarda solo il gestore del servizio, «ma anche i soggetti societari ad esso collegati e da esso controllati, i quali conservano in ogni caso una loro autonomia soggettiva e ben potrebbero operare in altri mercati». Conclude la ricorrente che «obiettivamente la portata della disposizione appare un po’ eccessiva e non proporzionata alla tutela della concorrenza: primo, perché, un vincolo di azione ad una società non è di per se stesso elemento atto a garantire la concorrenza; secondo, perché vale solo per le imprese pubbliche o semi-pubbliche, ma non per quelle private, ben potendosi verificare in concreto affidamenti di servizi a privati non preceduti da gara (come dimostra l’esperienza, giustificabili per ragioni di emergenza, ad esempio, nel campo dei servizi ambientali)».
8.1.4. – La Regione censura, in quarto luogo, il comma 10 dell’art 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, per violazione dell’art. 117, secondo e quarto comma, Cost., sotto il profilo della mancanza in capo allo Stato di un titolo di competenza in materia, per motivi analoghi a quelli già espressi dalla stessa Regione nel ricorso n. 69 del 2008 avverso la previgente formulazione della disposizione.
8.2. – Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni proposte siano dichiarate inammissibili e, comunque, infondate, sulla base di argomentazioni analoghe a quelle svolte in relazione ai ricorsi n. 6, n. 10 e n. 12 del 2010 (supra: punti 5.2., 6.2., 7.2.).
8.3. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, la Regione Emilia-Romagna ha sostanzialmente ribadito quanto già sostenuto nel ricorso, insistendo nelle conclusioni già rassegnate.
8.4. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, il Presidente del Consiglio dei ministri ha ribadito quanto affermato nell’atto di costituzione, svolgendo, inoltre, considerazione analoghe a quelle svolte in relazione ai ricorsi n. 10 e n. 12 del 2010 (supra: punti 6.3. e 7.4.).
9. – Con ricorso notificato il 21 gennaio 2010 e depositato il 28 gennaio successivo (r. ric. n. 14 del 2010), la Regione Umbria ha impugnato, in riferimento agli artt. 117, primo, secondo, e quarto comma, 118, primo e secondo comma, e 119 Cost., i commi 2, 3, 4 e 8 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 – aggiunto dalla legge di conversione n. 133 del 2008 –, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 166 del 2009.
9.1. – La Regione − premesso che l’ art. 8 della legge reg. 5 dicembre 1997, n. 43 (Norme in attuazione della legge 5 gennaio 1994, n. 36, recante disposizioni in materia di risorse idriche) consente, contrariamente alla normativa censurata, la gestione in house dei servizi pubblici − pone questioni analoghe a quelle poste dalla Regione Liguria con il ricorso n. 12 del 2010 (supra: punto 7. e seguenti).
9.2. – Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni proposte siano dichiarate inammissibili e, comunque, infondate, sulla base di argomentazioni analoghe a quelle svolte in relazione ai ricorsi n. 6, n. 10, n. 12 e n. 13 del 2010 (supra: punti 5.2., 6.2., 7.2. e 8.2.).
9.3. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, la Regione Umbria ha sostanzialmente ribadito quanto già sostenuto nel ricorso, aggiungendo considerazioni analoghe a quelle svolte dalla Regione Liguria nella memoria depositata in prossimità dell’udienza nel giudizio r. ric. n. 12 del 2010 (supra: punto 7.3.).
9.4. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, il Presidente del Consiglio dei ministri ha ribadito quanto affermato nell’atto di costituzione, svolgendo, inoltre, considerazioni analoghe a quelle svolte in relazione ai ricorsi n. 10, n. 12 e n. 13 del 2010 (supra: punti 6.3., 7.4. e 8.4.).
10. – Con ricorso notificato il 22 gennaio 2010 e depositato il 29 gennaio successivo (r. ric. n. 15 del 2010), la Regione Marche ha impugnato, in riferimento agli artt. 117, primo, quarto e sesto comma, e 119, sesto comma, Cost., i commi 2, 3, 4 e 8 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 166 del 2009, nonché il comma 1-ter dell’art. 15 dello stesso d.l. n. 135 del 2009, nella parte in cui tali disposizioni si applicano al servizio idrico integrato.
10.1. – La Regione osserva preliminarmente che il servizio idrico
integrato è disciplinato sia da disposizioni già presenti nel previgente
testo dell’art. 23-bis, sia da disposizioni introdotte in tale articolo
dall’art. 15 del d.l. n. 135 del 2009.
Quanto alle prime, fa riferimento:
a) all’art. 23-bis, comma 10, lettera d), ai sensi del quale il Governo era incaricato di adottare uno o più regolamenti di delegificazione al fine di «armonizzare la nuova disciplina e quella di settore applicabile ai diversi servizi pubblici locali, individuando le norme applicabili in via generale per l’affidamento di tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica in materia di rifiuti, trasporti, energia elettrica e gas, nonché in materia di acqua»;
b) all’art. 23-bis, comma 10, lett. e) − disposizione, quest’ultima, non più vigente − in forza del quale, sempre mediante regolamento governativo, si doveva procedere a «disciplinare, per i settori diversi da quello idrico, fermo restando il limite massimo stabilito dall’ordinamento di ciascun settore per la cessazione degli affidamenti effettuati con procedure diverse dall’evidenza pubblica o da quella di cui al comma 3, la fase transitoria, ai fini del progressivo allineamento delle gestioni in essere alle disposizioni di cui al presente articolo, prevedendo tempi differenziati e che gli affidamenti diretti in essere debbano cessare alla scadenza, con esclusione di ogni proroga o rinnovo».
Quanto alle seconde, la ricorrente richiama, in particolare, il censurato comma 1-ter dell’art. 15 del d.l. n. 135 del 2009, il quale prevede che «Tutte le forme di affidamento della gestione del servizio idrico integrato di cui all’articolo 23-bis del citato decreto-legge n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 133 del 2008, devono avvenire nel rispetto dei princìpi di autonomia gestionale del soggetto gestore e di piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche, il cui governo spetta esclusivamente alle istituzioni pubbliche, in particolare in ordine alla qualità e prezzo del servizio, in conformità a quanto previsto dal decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, garantendo il diritto alla universalità ed accessibilità del servizio».
10.1.1. – Sono censurati, in primo luogo, i commi 2, 3 e 4 dell’art.
23-bis del d.l. n. 112 del 2008 e l’art. 15, comma 1-ter, del d.l. n.
135 del 2009, per violazione dell’art. 117, sesto comma, Cost., il quale
attribuisce agli enti locali territoriali la potestà regolamentare «in
ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle
funzioni loro attribuite».
La ricorrente – rilevato che, secondo la disciplina impugnata, i servizi
pubblici locali che abbiano rilevanza economica possono essere affidati
in house solo in ipotesi eccezionali – lamenta che il comma 1-ter
dell’art. 15 del d.l. n. 135 del 2009 stabilisce obbligatoriamente che
per la gestione del servizio idrico integrato sia scelta una delle forme
di affidamento di cui al nuovo art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008.
Secondo la ricorrente, la legge statale non può imporre, in via generale
e astratta, ed in modo del tutto inderogabile, la configurazione del
servizio idrico integrato quale «servizio pubblico locale avente
rilevanza economica», con il conseguente obbligo per gli enti titolari
della funzione di conformare scopi, obiettivi e missioni del servizio in
questione al perseguimento della rimuneratività del capitale investito o
comunque della redditività per il soggetto gestore, escludendo la
possibilità di qualificare il servizio come «servizio pubblico locale
non avente rilevanza economica».
La stessa ricorrente si sofferma, poi, sul problema della qualificazione
di un servizio pubblico locale come «avente rilevanza economica», ovvero
come «non avente rilevanza economica».
A tale proposito – sempre per la Regione – va premesso che, come hanno
evidenziato con ampiezza di argomentazioni sia la dottrina che la
giurisprudenza amministrativa, la nozione di «servizio a rilevanza
economica» non può essere intesa quale nozione volta a tracciare una
volta per tutte una linea discretiva tra diversi tipi di attività, alla
luce di una supposta «natura ontologica» della medesima. E ciò, perché
la distinzione è soltanto una «conseguenza del modello gestionale scelto
dall’amministrazione per la sua organizzazione». La nozione di «attività
economica» dovrebbe essere ricostruita alla luce dell’art. 2082 cod.
civ., ai sensi del quale «è imprenditore chi esercita professionalmente
un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello
scambio di beni o servizi», con la conseguenza che il carattere
dell’economicità è riferibile solo a quelle attività in grado di essere
condotte in modo da produrre degli utili e in ultima analisi
l’autosufficienza nel mercato, mentre la rilevanza economica andrebbe
esclusa per quei servizi per i quali l’amministrazione intende
assicurare la copertura dei costi ricorrendo alla fiscalità generale
ovvero applicando prezzi politici. Tale sarebbe anche l’orientamento
della giurisprudenza amministrativa − secondo cui debbono considerarsi
privi di rilevanza economica i servizi caratterizzati «dall’assenza di
uno scopo precipuamente lucrativo, dalla mancanza di assunzione del
rischio economico connesso alla specifica attività, nonché dalla
presenza di eventuali finanziamenti pubblici» − e della giurisprudenza
costituzionale, secondo cui i servizi pubblici locali sono dotati, o, al
contrario, privi di rilevanza economica, «in relazione al soggetto
erogatore, ai caratteri ed alle modalità della prestazione, ai
destinatari» (sentenza n. 272 del 2004).
In conclusione, per la difesa regionale, la qualificazione di un
servizio pubblico come servizio dotato o non dotato di rilevanza
economica non deriva dai caratteri «naturali», intrinseci al singolo
servizio; si tratta, invece, di una mera conseguenza della valutazione
schiettamente politica che l’organo o ente titolare del servizio ha
effettuato sulle modalità con le quali esso debba essere organizzato e
gestito.
Alla rilevanza economica del servizio – prosegue la Regione – consegue,
nell’ambito dell’ordinamento costituzionale italiano, la soggezione alle
regole poste dallo Stato in funzione della «tutela della concorrenza»,
ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., sempreché esse
siano state legittimamente dettate, nel rispetto dei principi di
adeguatezza e proporzionalità in relazione ai fini pro concorrenziali
concretamente perseguiti.
In tale quadro, il censurato comma 1-ter dell’art. 15 del d.l. n. 135
del 2009 rende obbligatoria – come visto – la qualificazione del
servizio idrico integrato come servizio «avente rilevanza economica» e,
conseguentemente, il suo affidamento mediante le forme previste dal
vigente testo dell’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008 e, cosí facendo,
viola l’evocato art. 117, sesto comma, Cost., in base al quale tale
qualificazione dovrebbe spettare alla potestà regolamentare degli enti
locali e non al legislatore statale. Il regime giuridico di tale potestà
sarebbe stato chiarito dalla sentenza della Corte costituzionale n. 246
del 2006, secondo cui, «se il legislatore regionale nell’ambito delle
proprie materie legislative dispone discrezionalmente delle attribuzioni
di funzioni amministrative agli enti locali, ulteriori rispetto alle
loro funzioni fondamentali, anche in considerazione dei principi di
sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza di cui al primo comma
dell’art. 118 della Costituzione», tuttavia «non può contestualmente
pretendere di affidare ad un organo della Regione − neppure in via
suppletiva − la potestà regolamentare propria dei Comuni o delle
Province in riferimento a quanto attribuito loro dalla legge regionale
medesima». Secondo la ricorrente, tale orientamento deve essere inteso
nel senso che il legislatore può, nell’esercizio della propria
discrezionalità legislativa, determinarsi circa l’attribuzione o meno
agli enti locali di una determinata funzione amministrativa; ma, una
volta che si sia determinato nel senso dell’affidamento ad uno di questi
enti della funzione in considerazione, sorge a beneficio della potestà
regolamentare dell’ente locale un ambito intangibile e incomprimibile –
concernente la disciplina degli aspetti organizzativi e delle modalità
di svolgimento della funzione – opponibile anche alla stessa fonte
legislativa. Nel caso di specie, la normativa vigente affida la cura del
servizio idrico integrato a quella particolare «struttura dotata di
personalità giuridica costituita in ciascun ambito territoriale ottimale
delimitato dalla competente regione» che è l’Autorità d’ambito, «alla
quale gli enti locali partecipano obbligatoriamente ed alla quale è
trasferito l’esercizio delle competenze ad essi spettanti in materia di
gestione delle risorse idriche, ivi compresa la programmazione delle
infrastrutture idriche» (art. 148, comma 1, del d.lgs. n. 152 del 2006).
Ne consegue, per la difesa regionale, che «quell’area incomprimibile di
formazione regolamentare concernente il servizio idrico integrato non
possa che essere ricondotta alla titolarità congiunta degli enti locali
che obbligatoriamente fanno parte dell’Autorità d’ambito e come la
suddetta area incomprimibile di potestà normativa ricomprenda
precisamente la decisione circa la conformazione del servizio quale
dotato ovvero non dotato di rilevanza economica».
Tale essendo il quadro complessivo delle competenze, la materia dei
servizi pubblici locali rientrerebbe nell’ambito della potestà
legislativa residuale affidata alle Regioni dall’art. 117, quarto comma,
Cost., con due limiti: il primo, rappresentato dalla potestà legislativa
statale nell’ambito della materia di competenza esclusiva della tutela
della concorrenza; il secondo, rappresentato dall’impossibilità di
violare la riserva che questa disposizione pone a beneficio della
potestà regolamentare degli enti locali, cui è congiuntamente affidato
il servizio per il tramite dell’Autorità d’ambito, in riferimento al suo
svolgimento e alla sua organizzazione.
Ad avviso della ricorrente, si deve, inoltre, escludere la possibilità
che le disposizioni legislative impugnate siano riconducibili alla
competenza statale concernente le «funzioni fondamentali» di Comuni,
Province e Città metropolitane, ai sensi dell’art. 117, secondo comma,
lettera p), Cost. E ciò, per le seguenti ragioni:
a) le funzioni fondamentali non sono quelle amministrativo-gestionali in senso proprio, consistenti nella concreta cura di interessi, ma solo quelle in cui si esprimono la potestà statutaria, la potestà regolamentare e la potestà amministrativa a carattere ordinamentale, concernente le funzioni essenziali che attengono alla vita stessa e al governo dell’ente;
b) secondo il principio di differenziazione, di cui all’art. 118 Cost., la valutazione di adeguatezza rispetto allo svolgimento della funzione che sorregge il principio di sussidiarietà deve tener conto delle differenze concrete che sussistono tra enti della medesima categoria, con la conseguenza che, nella allocazione delle funzioni amministrative, «la legge regionale o statale, competente per materia, dovrebbe compiere una valutazione di adeguatezza-inadeguatezza differente per enti con caratteristiche differenti pur se del medesimo tipo, ad esempio, ritenendo adeguati allo svolgimento della funzione i Comuni con più di x abitanti, ed inadeguati i Comuni con x o meno di x abitanti»;
c) il principio di differenziazione altro non è che una particolare declinazione del principio di uguaglianza;
d) lo Stato è comunque dotato della competenza ad individuare i «livelli essenziali delle prestazioni», e inoltre avrebbe a disposizione, in ogni caso, lo strumento del potere sostitutivo straordinario ex art. 120, secondo comma, Cost., per garantire l’effettività di questi ultimi;
e) la sentenza della Corte costituzionale n. 307 del 2009 – nella quale si legge che «le competenze comunali in ordine al servizio idrico […] devono essere considerate quali funzioni fondamentali degli enti locali» – precisa che l’evocazione del parametro di cui all’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., deve essere ritenuta «inconferente» rispetto a norme concernenti «le modalità di affidamento dei servizi pubblici locali a rilevanza economica», le quali trovano il loro fondamento, invece, nell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., e ciò in quanto «la regolamentazione di tali modalità non riguarda un dato strutturale del servizio né profili funzionali degli enti locali ad esso interessati (come, invece, la precedente questione relativa alla separabilità tra gestione della rete ed erogazione del servizio idrico), bensì concerne l’assetto competitivo da dare al mercato di riferimento».
La ricorrente prosegue osservando che gli aspetti del servizio idrico integrato rilevanti ai fini del riparto di competenze normative sono almeno tre:
a) quello – di competenza dello Stato ex art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. – connesso all’«assetto competitivo da dare al mercato di riferimento», ove il servizio idrico sia strutturato in modo tale da avere rilevanza economica;
b) quello – nel sistema accolto dalla sentenza n. 307 del 2009, di competenza dello Stato, in forza dell’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. – inerente ai «profili funzionali degli enti locali ad esso interessati», tra i quali la «separabilità tra gestione della rete ed erogazione del servizio idrico»;
c) quello – assegnato dall’art. 117, sesto comma, Cost., alla potestà regolamentare locale – concernente la strutturazione del servizio come avente o non avente rilevanza economica.
La ricorrente propone, poi, un’interpretazione adeguatrice delle
disposizioni censurate, nel senso che, ove il comma 1-ter dell’art. 15
del d.l. n. 135 del 2009 si riferisce a «tutte le forme di affidamento
della gestione del servizio idrico integrato di cui all’articolo 23-bis
del citato decreto-legge n. 112 del 2008», norma che a sua volta si
riferisce ai servizi dotati di rilevanza economica, esso non impone
affatto che il servizio idrico integrato debba per definizione
intendersi dotato di rilevanza economica. Il comma 1-ter potrebbe cioè
interpretarsi nel senso che il servizio idrico integrato è sottoposto
alla disciplina dell’art. 23-bis solo nei casi in cui «gli enti
competenti abbiano scelto di organizzarlo in modo da conferirvi
rilevanza economica».
A sostegno della percorribilità di una simile opzione interpretativa, la
Regione deduce un argomento fondato sull’evoluzione storica della
disciplina, rilevando che, prima dell’entrata in vigore dell’art.
23-bis, la materia dell’affidamento della gestione del servizio idrico
integrato era regolata dall’art. 150 del d.lgs. n. 152 del 2006 mediante
rinvii recettizi all’art. 113 del d.lgs. n. 267 del 2000. Da tali rinvii
si poteva desumere che il legislatore imponesse alle Autorità d’ambito
territorialmente competenti la conformazione del servizio idrico
integrato necessariamente come «servizio pubblico a rilevanza
economica», perché il citato art. 113 regolava l’affidamento di tale
categoria di servizi. Proprio l’abrogazione del suddetto art. 113 ad
opera dell’art. 23-bis citato avrebbe – a detta della ricorrente – fatto
venire meno tale necessaria conformazione del servizio idrico.
La ricorrente conclude l’illustrazione del primo motivo di ricorso
rilevando, sul piano processuale, che:
a) nel giudizio in via principale, sono ammissibili «questioni interpretative del tipo di quella qui proposta»;
b) sono ammissibili censure «avverso una legge statale, che invochino quale parametro norme costituzionali poste a presidio di competenze degli enti locali», per la strettissima connessione tra competenze regionali e locali, che sussiste nel caso di specie, perché «il riconoscimento agli enti locali della competenza, ex art. 117, sesto comma, Cost., a decidere circa la conformazione del servizio idrico integrato come servizio avente o non avente rilevanza economica determina rispettivamente il contrarsi o il riespandersi dell’ambito di applicazione delle norme regionali adottate in materia di servizi pubblici locali».
10.1.2. – Per il caso in cui la Corte costituzionale non volesse
accogliere la ricostruzione del servizio idrico integrato come
riconducibile alla potestà regolamentare degli enti locali ex art. 117,
sesto comma, Cost., la Regione sostiene che le norme censurate, «con
particolare riferimento alla disciplina dei profili di configurazione
strutturale del servizio idrico integrato», violano l’art. 117, quarto
comma, Cost., il quale attribuisce alle Regioni la potestà legislativa
residuale nella materia dei servizi pubblici locali.
La ricorrente richiama la giurisprudenza costituzionale che riconduce la
disciplina dei servizi pubblici locali alla competenza legislativa
esclusiva regionale e sottolinea che – come già osservato – «la
qualificazione di un servizio come avente o non avente rilevanza
economica dipende dalle caratteristiche che si intendano conferire al
modo in cui esso è organizzato e gestito», con la conseguenza di
escludere titoli di competenza dello Stato in materia. In particolare,
dalla citata sentenza della Corte costituzionale n. 307 del 2009, si
desumerebbe che il «dato strutturale del servizio» ricade nella
competenza legislativa regionale.
10.1.3. – La ricorrente censura, in terzo luogo, le stesse disposizioni,
per violazione dell’art. 117, quarto comma, Cost., il quale attribuisce
alle Regioni la potestà legislativa residuale nella materia dei servizi
pubblici locali.
Sostiene la Regione che la disciplina statale non potrebbe trovare il
suo titolo di legittimazione nell’art. 117, secondo comma, lettera e),
Cost., perché la potestà legislativa statale in materia di tutela della
concorrenza «è riferibile solo alle disposizioni di carattere generale
che disciplinano le modalità di gestione e l’affidamento dei servizi
pubblici locali di “rilevanza economica”» e «solo le predette
disposizioni non possono essere derogate da norme regionali»; con la
conseguenza che non sono censurabili, in riferimento ai servizi pubblici
aventi rilevanza economica, solo ed esclusivamente tutte quelle norme
statali «che garantiscono, in forme adeguate e proporzionate, la più
ampia libertà di concorrenza nell’ambito di rapporti – come quelli
relativi al regime delle gare o delle modalità di gestione e
conferimento dei servizi – i quali per la loro diretta incidenza sul
mercato appaiono più meritevoli di essere preservati da pratiche
anticoncorrenziali».
Secondo la difesa regionale, per valutare se la normativa statale
rispetti il principio di proporzionalità, è necessario accertare se
esista la possibilità di una regolazione diversa e meno invasiva per
l’autonomia regionale, la quale raggiunga i medesimi scopi di tutela
della concorrenza perseguiti con la disciplina oggetto del giudizio.
Nel caso di specie – prosegue la ricorrente – è agevole rendersi conto
che il parametro della proporzionalità della disciplina non è
rispettato, perché lo standard di tutela garantito dalla normativa
censurata sarebbe ugualmente assicurato da una disciplina meno invasiva
delle competenze regionali, che non contenga una specifica indicazione
delle condizioni che giustificano l’affidamento in house. In
particolare, la Regione osserva che la giurisprudenza comunitaria ha
ritenuto non contrastante con il diritto comunitario, e con l’esigenza
di tutelare la concorrenza, la disciplina nazionale italiana previgente
rispetto a quella oggi in discussione, la quale non individuava
specificamente le ipotesi in cui si doveva eccezionalmente ritenere
ammissibile il ricorso all’affidamento in house. Ne consegue, secondo la
Regione, che le norme impugnate violano il principio di proporzionalità
quale delineato dalla giurisprudenza costituzionale. Tale conclusione
sarebbe avvalorata anche da un concorrente argomento, desumibile dal
censurato comma 8 dell’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, il quale
prevede la cessazione «automatica» delle «gestioni in essere alla data
del 22 agosto 2008 affidate conformemente ai principi comunitari in
materia di cosiddetta “in house”». Tale previsione – a detta della
difesa regionale – mostrerebbe con chiarezza che il legislatore statale
ha inteso escludere la legittimità della scelta dell’in house providing
in situazioni compatibili con la tutela della concorrenza, in quanto
conformi al diritto comunitario.
Sempre secondo la ricorrente, i parametri di «generalità» e
«proporzionalità» sopra illustrati sono anche direttamente violati dal
censurato comma 8 dell’art. 23-bis del d.lgs. n. 112 del 2008, per
l’estremo dettaglio «nella indicazione dei tempi e delle modalità di
cessazione delle presenti gestioni pure conformi alla disciplina in
house posta dal diritto comunitario» e perché, per raggiungere il fine
di garantire effettività e tempestività all’entrata a regime della nuova
normativa introdotta non era affatto necessario comprimere i poteri
decisionali delle Regioni e degli enti locali. Ad avviso della
ricorrente, «sarebbe risultata più che sufficiente, infatti, una
normativa che prevedesse uno spettro di date entro il quale le singole
Regioni potessero compiere le proprie scelte, ovvero un meccanismo di
adeguamento progressivo ai nuovi standard».
Tali considerazioni – ribadisce la Regione – varrebbero anche se la
«Corte ritenesse di aderire all’interpretazione costituzionalmente
orientata delle disposizioni impugnate (nel senso che l’art. 15, comma
1-ter, lascerebbe del tutto impregiudicata la questione della
conformazione del servizio idrico integrato quale servizio avente o non
avente rilevanza economica)». Infatti, nel caso in cui si ritenesse di
accogliere la suddetta interpretazione restrittiva della normativa
impugnata, «le norme oggetto della presente questione di legittimità
costituzionale disciplinerebbero comunque nel dettaglio, e ben oltre i
limiti che pone l’art. 117, secondo comma, lett. e), Cost.,
l’affidamento del servizio idrico integrato che fosse stato conformato −
dalla potestà regolamentare locale, ovvero dalla legislazione regionale
− in modo tale da far assumere al medesimo rilevanza economica».
10.1.4. – La ricorrente censura, in terzo luogo, il comma 1-ter
dell’art. 15 del d.l. n. 135 del 2009, per violazione dell’art. 119,
sesto comma, Cost., il quale prevede che «i Comuni, le Province, le
Città metropolitane e le Regioni hanno un proprio patrimonio, attribuito
secondo i principi generali determinati dalla legge dello Stato».
Quanto all’evocato parametro, la Regione osserva: «a) che la proprietà
pubblica regionale e locale ha uno specifico fondamento costituzionale
e, pertanto, partecipa a pieno titolo alla definizione delle sfere di
autonomia costituzionalmente garantita dei rispettivi enti, risultando
“imposto” al legislatore statale l’obbligo di prevedere l’attribuzione a
tali enti di un proprio patrimonio; b) che una volta avvenuta
l’attribuzione del patrimonio alla proprietà delle Regioni e degli enti
locali territoriali, secondo i principi generali fissati dalla legge
dello Stato, tale proprietà pubblica deve considerarsi naturalmente
assoggettata al regime giuridico del demanio e del patrimonio
indisponibile o disponibile sulla base delle ordinarie norme del codice
civile (in specie, degli artt. 823, 824, 826, 828 e 829); c) che al
legislatore statale la Costituzione riconosce titoli di legittimazione
per la sola disciplina dei “principi generali” per l’attribuzione di
tali beni e per il relativo regime giuridico, riconducibile alla materia
“ordinamento civile”, nel quale è senza dubbio ricompresa la regolazione
dei limiti e delle modalità di alienazione dei suddetti beni nelle forme
negoziali, ma non certo il potere di disciplinare la sottrazione dei
medesimi al patrimonio delle autonomie territoriali».
In tale quadro si inscrive il regime proprietario delle risorse e delle
infrastrutture idriche, disciplinato dagli artt. 143, 144 del d.lgs. n.
152 del 2006. Secondo tali disposizioni, le risorse idriche debbono
considerarsi di proprietà dello Stato e facenti parte del demanio
statale necessario di cui al primo comma dell’art. 822 cod. civ., mentre
le infrastrutture idriche possono essere di proprietà pubblica di tutti
gli enti territoriali e, qualora lo siano in concreto, appartengono al
demanio eventuale dello Stato, delle Regioni o degli enti locali, ai
sensi degli artt. 822, secondo comma, e 824, primo comma, cod. civ.,
risultando perciò assoggettati al regime giuridico stabilito dall’art.
823 anche per quanto concerne la loro tutela. La Regione osserva che a
tali norme debbono poi essere aggiunte anche quelle contenute nell’art.
153, comma 1, e nell’art. 151, comma 2, lettera m), dello stesso d.lgs.
n. 152 del 2006, le quali stabiliscono, rispettivamente, che «le
infrastrutture idriche di proprietà degli enti locali ai sensi
dell’articolo 143 sono affidate in concessione d’uso gratuita, per tutta
la durata della gestione, al gestore del servizio idrico integrato, il
quale ne assume i relativi oneri nei termini previsti dalla convenzione
e dal relativo disciplinare» (art. 153, comma 1) e che «l’obbligo di
restituzione, alla scadenza dell’affidamento, delle opere, degli
impianti e delle canalizzazioni del servizio idrico integrato in
condizioni di efficienza ed in buono stato di conservazione» (art. 151,
comma 2, lettera m).
Lamenta la ricorrente che la norma censurata si limita a prevedere il
«rispetto» del «principio» «di piena ed esclusiva proprietà pubblica
delle risorse idriche», senza assicurare in alcun modo la salvaguardia,
né sotto il profilo formale, né sotto il profilo sostanziale, della
proprietà pubblica delle «infrastrutture idriche», le quali ben possono
essere di proprietà delle Regioni e degli enti locali ed essere, per ciò
stesso, assoggettate al regime del demanio regionale o locale. Formula,
perciò, «due distinte ed autonome questioni di legittimità
costituzionale».
10.1.4.1. − Da un primo punto di vista – sostiene la Regione – «è del tutto evidente che la normativa impugnata, imponendo agli enti locali di conformare necessariamente il servizio idrico integrato come servizio a rilevanza economica e, su questa base, rendendone obbligatorio l’affidamento della relativa gestione (infrastrutture comprese) a soggetti privati, ponendo altresì una clausola di salvaguardia a tutela della «piena ed esclusiva proprietà pubblica» a favore delle sole risorse idriche appartenenti al demanio statale, determina il sostanziale “svuotamento” della proprietà pubblica dei beni appartenenti al demanio idrico regionale e locale; beni che risulteranno, per espresso disposto del richiamato art. 153, comma 1, del d.lgs. n. 152 del 2006, necessariamente e ope legis “affidati in concessione d’uso gratuita” al gestore privato del servizio idrico integrato». Tale lettura del dato normativo troverebbe conferma nella menzionata clausola di salvaguardia della proprietà pubblica delle risorse idriche che il legislatore statale ha avvertito la necessità di introdurre e che, ovviamente, risulterebbe del tutto inutile qualora la disciplina impugnata non implicasse la sostanziale espropriazione a favore dei privati dei beni appartenenti al demanio idrico.
10.1.4.2. – La Regione sostiene, poi, che, anche a voler accedere a quell’interpretazione costituzionalmente orientata secondo la quale la disciplina in esame non imporrebbe affatto di conformare il servizio idrico integrato come servizio a rilevanza economica (con i relativi vincoli in ordine alle modalità di gestione e al necessario affidamento a soggetti privati), la violazione della evocata norma costituzionale – posta a garanzia del patrimonio delle Regioni e degli enti locali territoriali – risulterebbe evidente per la mancata previsione di una specifica clausola di salvaguardia a favore della proprietà pubblica delle infrastrutture idriche di cui le Regioni e gli enti locali siano in concreto titolari; clausola che, per essere effettiva e corrispondere alla norma costituzionale, non potrebbe limitarsi a fare salvo il solo profilo della titolarità formale del bene, dovendo bensì consistere nella previsione della necessità del consenso esplicito, da parte dell’ente titolare della proprietà delle infrastrutture interessate dal servizio idrico integrato, rispetto alla scelta concernente l’eventuale conformazione del servizio come servizio a rilevanza economica e il conseguente suo affidamento a soggetti privati.
10.1.5. – Sono censurati, in quarto luogo – in riferimento all’art. 117,
primo comma, Cost. – i commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis del d.l. n. 112
del 2008 e l’art. 15, comma 1-ter, del d.l. n. 135 del 2009, nella parte
in cui si riferiscono al servizio idrico integrato, perché determinano
«la violazione di quelle peculiari norme poste dal diritto comunitario
in relazione ai servizi di interesse generale».
La ricorrente evoca, quali parametri interposti, gli artt. 14 e 106 del
Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (già artt. 16 e 86 del
Trattato CE). Secondo la prima di queste due disposizioni, «fatti salvi
l’articolo 4 del trattato sull’Unione europea e gli articoli 93, 106 e
107 del presente trattato, in considerazione dell’importanza dei servizi
di interesse economico generale nell’ambito dei valori comuni
dell’Unione, nonché del loro ruolo nella promozione della coesione
sociale e territoriale, l’Unione e gli Stati membri, secondo le
rispettive competenze e nell’ambito del campo di applicazione dei
trattati, provvedono affinché tali servizi funzionino in base a principi
e condizioni, in particolare economiche e finanziarie, che consentano
loro di assolvere i propri compiti». La seconda disposizione, al
paragrafo 2, prevede che: «Le imprese incaricate della gestione di
servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio
fiscale sono sottoposte alle norme dei trattati, e in particolare alle
regole di concorrenza, nei limiti in cui l’applicazione di tali norme
non osti all’adempimento, in linea di diritto e di fatto, della
specifica missione loro affidata. Lo sviluppo degli scambi non deve
essere compromesso in misura contraria agli interessi dell’Unione».
Ad avviso della Regione, da tali norme comunitarie risulterebbe che,
«per perseguire gli obiettivi di coesione e solidarietà sociali, fatti
propri anche dall’Unione europea, il diritto di questo ordinamento
esclude che ai servizi di interesse generale debbano senz’altro
applicarsi le norme del mercato interno». E, anzi, nella materia
considerata avrebbero predominanza gli obiettivi di coesione sociale
sottostanti ai servizi di interesse generale: quali che siano le cause
che impediscono al sistema concorrenziale di mercato di raggiungere in
modo soddisfacente e generalizzato questi obiettivi, siano esse di
diritto o di fatto, non devono essere applicate le norme del mercato
interno a questi servizi. L’eccezionalità del trattamento giuridico dei
servizi di interesse generale è confermata – per la ricorrente – dalla
Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo al Consiglio, al
Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni – Libro
bianco sui servizi di interesse generale – COM (2004) 374. In questo
documento, infatti, si evidenzia che «i servizi di interesse economico
generale non sono soggetti alla applicazione delle norme del Trattato
nella misura in cui ciò risulti necessario per consentire di adempiere
il loro compito di interesse generale», il quale dunque «prevale […]
sull’applicazione delle norme del Trattato».
Tra i servizi di interesse generale – prosegue la Regione – è
annoverabile anche il servizio idrico integrato, sia in base alla
Risoluzione del Parlamento europeo del 15 marzo 2006, che dichiara
l’acqua «bene comune dell’umanità», sia in base al già citato Libro
bianco della Commissione sui servizi di interesse generale, nel quale,
al paragrafo 3.4., si menziona esplicitamente il servizio idrico tra i
servizi di interesse generale.
Le ragioni del dedotto contrasto delle norme censurate con l’evocato
parametro risiederebbero, dunque, nel fatto che esse, «conformando il
servizio idrico come servizio necessariamente a rilevanza economica,
abbiano imposto la applicazione delle regole del mercato interno in via
generale per tutto il territorio nazionale, prescindendo del tutto dalle
diverse condizioni e circostanze che nelle diverse realtà possono
ravvisarsi». Ciò che risulta precluso dal diritto comunitario, in
definitiva, non è la scelta di un determinato modello per la
conformazione dei servizi di interesse generale, ma l’adozione di
decisioni generalizzate che non siano in grado di tenere conto delle
peculiarità in cui i servizi devono essere svolti. Tale conclusione
emergerebbe espressamente dal richiamato Libro bianco della Commissione
europea sui servizi di interesse generale, ove, al par. 4.3, si afferma
che «le autorità pubbliche competenti degli Stati membri sono
sostanzialmente libere di decidere se fornire in prima persona un
servizio di interesse generale o se affidare tale compito ad un altro
ente (pubblico o privato)», e dalla citata Risoluzione del Parlamento
europeo del 15 marzo 2006, secondo cui la gestione delle risorse idriche
deve basarsi «su un’impostazione partecipativa e integrata che coinvolga
gli utenti e i responsabili decisionali nella definizione delle
politiche in materia di acqua a livello locale e in modo democratico».
La ricorrente osserva poi che la tendenza che matura nel contesto delle
istituzioni comunitarie è esattamente opposta rispetto all’indirizzo del
legislatore italiano e richiama, a tale scopo, la Risoluzione dell’1l
marzo 2004 del Parlamento europeo, la quale afferma che «essendo l’acqua
un bene comune dell’umanità, la gestione delle risorse idriche non deve
essere assoggettata alle norme del mercato interno».
La questione di legittimità costituzionale – conclude la difesa
regionale – risulterebbe svuotata del suo significato ove questa Corte
si risolvesse ad interpretare le disposizioni impugnate nel senso di
ritenerle applicabili soltanto nel caso in cui sia stata compiuta
l’opzione (affidata alla libera determinazione degli enti titolari
dell’erogazione del servizio idrico integrato) a favore della
conformazione del servizio come servizio a rilevanza economica, senza
pregiudicare dunque tale scelta.
10.2. – Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni proposte siano dichiarate inammissibili o, comunque, infondate, sulla base di argomentazioni analoghe a quelle svolte in relazione ai ricorsi n. 6, n. 10, n. 12, n. 13 e n. 14 del 2010 (supra: punti 5.2., 6.2., 7.2., 8.2. e 9.2.).
10.3. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, la Regione
Marche ha sostanzialmente ribadito quanto già dedotto nel ricorso e ha
replicato ai rilievi della controparte.
La ricorrente premette che la difesa statale prende in considerazione,
tra le censure proposte, soltanto quelle concernenti la violazione della
competenza legislativa regionale di cui al quarto comma dell’art. 117
Cost., in materia di servizi pubblici locali, nonché la violazione
dell’art. 117, primo comma, Cost., delle quali si limita a sostenere
l’inammissibilità, rilevando che la Regione lamenterebbe «genericamente
l’illegittimità costituzionale di leggi statali», nonché «la contrarietà
delle stesse all’ordinamento comunitario», senza «indicare
specificatamente la lesione di una competenza ad essa attribuita». A
tali rilievi, la Regione replica di avere articolato dettagliati motivi
di ricorso in relazione a tutte le censure proposte.
Con riferimento alle singole questioni prospettate, la difesa regionale
precisa che:
a) «solo ed esclusivamente nei casi in cui l’attività di prestazione del servizio sia conformata dai poteri pubblici competenti in modo tale da creare la possibilità di un utile – intendendo questa espressione nel modo più ampio possibile – si è dinanzi ad un mercato concorrenziale», con la conseguenza che, «senza la possibilità di una qualche remuneratività o utilità per chi si accolla lo svolgimento del servizio non è possibile neanche immaginare in astratto l’esistenza di un mercato concorrenziale»;
b) in relazione al servizio idrico, l’autorità competente può facilmente individuare le motivazioni che giustifichino, nelle diverse situazioni di fatto, la conformazione del servizio come servizio senza rilevanza economica, da un lato, perché si tratta di garantire un diritto fondamentale dell’uomo quale il diritto all’acqua e dunque di garantire a tutti la disponibilità di un bene che non deve necessariamente essere assoggettato al regime di mercato, dall’altro, perché va valutata, con riferimento alle specifiche situazioni territoriali e locali, l’eventuale assenza di imprese disponibili a offrire i servizi o comunque la necessità di garantire il servizio a prezzi non in grado di remunerare un’attività svolta in forma imprenditoriale;
c) deve essere escluso che la conformazione del servizio idrico integrato quale servizio avente o non avente rilevanza economica sia riconducibile alla competenza esclusiva della legge statale in virtù dell’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., perché l’art. 14 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, al comma 27, dispone che siano «considerate funzioni fondamentali dei comuni le funzioni di cui all’articolo 21, comma 3, della legge 5 maggio 2009, n. 42», il quale a sua volta, alla lettera e), esclude da tali funzioni il servizio idrico integrato;
d) nel diritto tedesco spetta alle municipalità la scelta – tra numerosi modelli organizzativi possibili – del modo in cui il servizio idrico deve essere gestito;
e) anche negli altri principali ordinamenti europei «la responsabilità del servizio idrico – in particolar modo in relazione alla attività di distribuzione – è affidata alle istituzioni esponenziali delle comunità locali (Francia, Portogallo, Spagna, Svezia, Finlandia, Paesi Bassi, Belgio, Danimarca)», le quali non sono tenute a conformare il servizio idrico come un servizio a rilevanza economica.
10.4. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, il Presidente del Consiglio dei ministri ha ribadito quanto affermato nell’atto di costituzione, svolgendo, inoltre, considerazione analoghe a quelle svolte in relazione ai ricorsi nn. 10, 12, 13 e 14 del 2010 (supra: punti 6.3., 7.4., 8.4. e 9.4.).
11. – Con ricorso notificato il 29 gennaio 2010 e depositato lo stesso giorno (r. ric. n. 16 del 2010), la Regione Piemonte ha impugnato – in riferimento agli artt. 5, 114, 117, primo, secondo, terzo, quarto e sesto comma, e 118, Cost., anche con riferimento agli artt. 3 e 97, Cost. – i commi 2, 3, 4 e 8 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 – nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 166 del 2009 – nonché il comma 1-ter del citato art. 15.
11.1. – La ricorrente, premessa una sintetica ricostruzione del quadro normativo, formula diverse questioni.
11.1.1. – Sono censurati, in primo luogo – in riferimento agli artt. 3, 5, 97, 114, 117, primo, secondo, quarto e sesto comma, e 118 Cost. – i commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, nonché il comma 1-ter dell’art. 15 del decreto-legge n. 135 del 2009.
11.1.1.1. – Quanto alla dedotta violazione dell’art. 117, primo comma,
Cost., la Regione premette che non appare possibile «confondere il
principio di concorrenza posto dal Trattato dell’Unione europea, che
disciplina i comportamenti delle amministrazioni pubbliche una volta che
abbiano deciso di rivolgersi al mercato delle imprese, con l’idea di
prevalenza o preferenza per il mercato nell’organizzazione dei servizi
pubblici indicata dalla disciplina statale in esame, nella quale l’in
house providing è configurata come un residuo negletto o un cattivo
surrogato».
Il parametro evocato sarebbe, perciò, violato, perché il diritto
comunitario non consente che il legislatore nazionale spinga la tutela
della concorrenza fino comprimere il «principio di libertà degli
individui o di autonomia – del pari costituzionale – degli enti
territoriali (artt. 5, 117, 118, Cost.) di mantenere la capacità di
operare ogni qualvolta la scelta che ritengono più opportuna: cioè se
fruire dei vantaggi economici offerti dal mercato dei produttori oppure
se procedere a modellare una propria struttura capace di diversamente
configurare l’offerta delle prestazioni di servizio pubblico». In tal
senso si è espresso – prosegue la ricorrente – l’ordinamento
comunitario, laddove «ha ritenuto in contrasto con la disciplina europea
sulla concorrenza la legge nazionale sui lavori pubblici (allora legge
11 febbraio 1994, n. 109, art. 21) che aveva limitato la scelta tra i
due criteri europei d’aggiudicazione degli appalti». L’attuazione del
diritto comunitario non consentirebbe al legislatore interno di
esprimere un autonomo indirizzo politico, perché essa può comportare
solo «l’adozione di norme esecutive (secundum legem)», con
l’impossibilità di spingersi sino a norme «integrative (praeter legem),
tali cioè da ampliare, senza derogarli, i contenuti normativi espressi
attraverso la legislazione». Nel caso di specie, «nessuna delle
disposizioni comunitarie vigenti infatti impone – come invece pretende
l’art. 23-bis, decreto-legge n. 112 del 2008, cit. ai suoi commi secondo
e terzo – agli Stati membri l’attribuzione ad imprese terze come forma
ordinaria o preferenziale di affidamento dei servizi pubblici locali».
11.1.1.2. – Quanto al parametro dell’art. 117, quarto comma, Cost., esso
sarebbe violato, perché le norme impugnate recano una disciplina che non
è riconducibile alla materia della tutela della concorrenza, ma alla
potestà legislativa residuale delle Regioni. Con tali disposizioni,
infatti, il legislatore statale «riconosce che entrambe le forme di
gestione ed affidamento dei servizi pubblici (soggetto scelto con gara,
organizzazione in house providing) sono conformi all’ordinamento europeo
ed in particolare alla disciplina sulla concorrenza, ma con la norma
nazionale giunge sino ad individuare come forma preferenziale
“ordinaria” l’affidamento del servizio ad imprese terze, mentre relega
la possibilità dell’affidamento in house ai soli casi ivi espressi in
via d’eccezione».
Quanto ad altri eventuali titoli di competenza legislativa statale, la
Regione rileva, innanzi tutto, che la disciplina del censurato art.
23-bis, cit. «è in tutto o in parte sostitutiva dell’art. 113, d.lgs. n.
267 del 2000» e ha perciò per oggetto unicamente le forme di gestione
dei servizi pubblici a rilevanza economica, e non le prestazioni da
assicurare agli utenti, con la conseguenza che non può essere richiamata
la materia dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i
diritti civili e sociali; rileva, inoltre, che la disciplina censurata
non è riconducibile alla potestà esclusiva statale in materia di
funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane (art.
117, secondo comma, lettera p, Cost.), «giacché la gestione dei predetti
servizi non può certo considerarsi esplicazione di una funzione propria
ed indefettibile dell’ente locale».
In conclusione – sempre secondo la ricorrente – l’opzione tra le diverse
modalità di gestione del servizio pubblico «è una tipica scelta
d’organizzazione, in particolare di buon andamento del servizio pubblico
(art. 97, primo comma, Cost.), che proprio in quanto organizzazione
locale e non nazionale dei servizi oggetto della disciplina dell’art.
23-bis, decreto-legge n. 112 del 2008, cit., non può riconoscersi alla
legislazione statale, ma spetta alla legislazione regionale ai sensi
dell’art. 117, quarto comma, Cost. seppure nel rispetto di una eventuale
specifica disciplina degli enti territoriali minori (art. 117, sesto
comma, Cost.)». Alle Regioni spetta, inoltre «la legittimazione ad
impugnare le leggi statali in via diretta non solo a tutela della
propria legislazione ma anche con il riferimento alla prospettata
lesione da parte della legge nazionale della potestà normativa degli
enti territoriali, con affermazione della regione come ente di tutela
avanti alla Corte costituzionale del “sistema regionale delle autonomie
territoriali” (art. 114, secondo comma, Cost.)».
11.1.2. – Sono censurati, in secondo luogo – in riferimento agli artt. 3, 97, 117, primo, secondo, terzo e quarto comma, e 118 Cost. – i commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008.
11.1.2.1. – Quanto ai parametri degli artt. 3 e 97 Cost., la ricorrente
rileva che essi sarebbero violati perché la disciplina dell’affidamento
del servizio pubblico locale contenuta nelle disposizioni censurate
risulta lesiva della «competenza delle regioni e degli enti locali ove
le s’intenda come disciplina ulteriore rispetto a quella generale sul
procedimento amministrativo che da tempo prevede il dovere di
motivazione degli atti amministrativi (art. 3, legge 7 agosto 1990, n.
241), secondo molti posto in attuazione del principio costituzionale di
motivazione delle scelte della amministrazioni pubbliche quanto meno
nella cura di pubblici interessi». Tale ulteriore disciplina, da
intendersi come «deroga alla disciplina generale sul procedimento e la
motivazione degli atti amministrativi» si porrebbe in violazione del
principio di ragionevolezza, poiché non è ravvisabile nel caso in esame
alcun interesse pubblico prevalente capace di fondare sia l’esenzione
dal generale dovere di motivazione per l’affidamento ad imprese terze,
sia la limitazione dei casi sui quali può essere portata la motivazione
a fondamento di altre soluzioni organizzative. La denunciata invasione
nella sfera di competenza regionale e degli enti territoriali minori è
addirittura enfatizzata – prosegue la Regione – dalla precisazione che
le disposizioni impugnate «prevalgono» su tutte le «discipline di
settore con esse incompatibili» e, in particolare, su quelle della
Regione Piemonte relative al servizio idrico integrato (legge regionale
13 dicembre 1997, n. 13) e al sistema integrato di raccolta e
smaltimento dei rifiuti solidi urbani (legge regionale 24 ottobre 2002,
n. 24), che non limitano la scelta tra le forme di gestione dei servizi
compatibili con il diritto comunitario.
La ricorrente non esclude, peraltro, che dell’art. 23-bis, commi 1 e 4,
si possa dare «un’interpretazione adeguatrice capace di sorreggere una
sentenza interpretativa di rigetto della questione di costituzionalità
proposta ove s’intenda che tali disposizioni non deroghino alla
disciplina generale sul procedimento amministrativo, dovendo
l’amministrazione motivare qualunque scelta della forma di gestione del
servizio pubblico locale […] secondo un’interpretazione che espunge
dalle norme qualsiasi preferenza o prevalenza in astratto di una forma
di gestione sull’altra».
Anche seguendo tale percorso interpretativo, permarrebbe comunque – ad
avviso della Regione – l’illegittimità costituzionale parziale dell’art.
23-bis, commi 3 e 4, decreto-legge n. 112 del 2008, «per avere il
legislatore statale invaso la sfera di competenza normativa della
Regione Piemonte e degli enti territoriali piemontesi nella definizione
dello svolgimento delle funzioni loro attribuite (art. 117, commi quarto
e sesto, Cost.) poiché una parte della norma prevede una disciplina
particolare del procedimento di affidamento della gestione a soggetti
diversi dagli operatori di mercato, tra cui l’in house providing».
A tali considerazioni la difesa regionale aggiunge che i commi censurati
contengono «norme di dettaglio così puntuali che non sarebbero neppure
compatibili con una competenza esclusiva dello Stato […] e in violazione
del principio di ragionevolezza (ex art. 3, secondo comma, Cost.) poiché
della legge impugnata non si comprendono le ragioni di una disciplina
differenziata per l’ambito locale dei pubblici servizi».
11.1.2.2. – Quanto ai parametri «dell’art. 117, commi primo, secondo, terzo, quarto, Cost. con riferimento agli articoli 114, 117, sesto comma, e 118, commi primo e secondo, Cost.», la ricorrente rileva che essi sarebbero violati perché le disposizioni impugnate ledono «l’autonomia costituzionale propria dell’intero sistema degli enti locali», limitando la «capacità d’organizzazione e di autonoma definizione normativa dello svolgimento delle funzioni di affidamento dei servizi pubblici locali». Secondo la Regione, in particolare, la scelta delle forme di gestione ed affidamento del servizio pubblico deve informarsi a valutazioni di efficienza, efficacia ed economicità «che ciascuna organizzazione pubblica non può che esprimere con riferimento ai proposti standard di qualità che intende offrire agli utenti, involgendo perciò questioni di pura autorganizzazione degli enti territoriali». In particolare, la legislazione statale può legittimamente imporre una determinata forma di gestione di un servizio pubblico solo procedendo in via preliminare ad avocare allo Stato la competenza sull’organizzazione della gestione dei servizi sinora considerati locali.
11.1.2.3. – Quanto al parametro «dell’art. 117, secondo comma, Cost. con
riferimento all’art. 3, Cost.», la ricorrente sostiene che la disciplina
contenuta nei censurati commi 2, 3 e 4, anche ove fosse ritenuta di
tutela della concorrenza, difetterebbe di proporzionalità e adeguatezza.
In particolare, la difesa regionale afferma che solo le disposizioni di
legge statale a «carattere generale che disciplinano le modalità di
gestione e l’affidamento dei servizi pubblici locali di rilevanza
economica» trovano il proprio «titolo di legittimazione» nell’art. 117,
secondo comma, lettera e), Cost. («tutela della concorrenza») e «solo le
predette disposizioni non possono essere derogate da norme regionali».
Tali considerazioni varrebbero, a maggior ragione, per le disposizioni
in esame, perché esse stabiliscono «una disciplina immediatamente
autoapplicativa ove senz’altro pongono un criterio o principio di
preferenza nell’attribuzione ad imprese terze dei servizi pubblici
locali».
11.1.3. – La ricorrente censura, in terzo luogo, il comma 8 dell’art. 23-bis, il quale intacca, senza indennizzo alcuno, il patrimonio che gli enti locali hanno legittimamente realizzato o acquisito mediante l’affidamento in house della gestione di servizi pubblici locali, in conformità sia all’ordinamento comunitario sia a quello interno.
11.1.3.1. – Lamenta la stessa ricorrente che la disposizione impugnata viola gli artt. 5, 114, 117, sesto comma, e 118, Cost., «in ragione di una generalizzata cessazione anticipata al 31 dicembre 2011 disposta ex lege per tutti gli affidamenti in house providing, anche di quelli effettuati dagli enti territoriali in conformità all’ordinamento comunitario e italiano, con grave svalutazione dei valori di mercato dei corrispettivi di cessione delle partecipazioni a causa della simultanea attuazione su tutto il territorio nazionale dell’alienazione del 40% di un numero rilevante di società in mano agli enti locali, che − unitamente agli affidamenti illegittimi − per il solo servizio idrico integrato ammontano a circa n. 60 complessi aziendali, di cui alcuni con valorizzazioni patrimoniali di notevole consistenza (Torino, Milano, Bologna, le Regioni Puglia e Sardegna, ecc.)». L’irragionevolezza della norma sarebbe anche nel fatto di trattare in modo uguale fattispecie significativamente diverse e di non aver scaglionato nel tempo il ricorso al mercato. Oltre a ciò, la disposizione irragionevolmente realizza una sanatoria ex lege di affidamenti illegittimi, «lesivi della concorrenza che la stessa legge qui impugnata proclama di voler riaffermare, anche di quelli più eclatanti in difetto di ogni evidenza pubblica, ivi compresi quelli già oggetto di una sentenza di annullamento non ancora passata in giudicato, persino ove sia stata incidentalmente contornata da una pronuncia in tal senso della Corte di Giustizia delle Comunità Europee». Si tratterebbe cioè di una norma che si pone in contraddizione con i primi commi dello stesso art. 23-bis, i quali realizzano un indirizzo politico ispirato alla “ultra concorrenzialità”.
11.1.3.2. – Per la Regione, la stessa disposizione viola altresì gli artt. 5, 114, 117, secondo e sesto comma, 118, Cost., «anche con riferimento all’art. 3, Cost.», i quali garantiscono l’autonomia costituzionale della Regione Piemonte e degli enti locali, perché – stabilendo la cessazione degli affidamenti rilasciati con procedure diverse dall’evidenza pubblica salvo quelli conformi ai vincoli ulteriori di istruttoria e motivazione previsti dalla nuova disciplina – «cancella d’un tratto la legittimità […] di tutte le gestioni di servizio pubblico in capo a società mista ove la gara per la scelta del socio privato – pure avvenuta con procedura conforme all’ordinamento europeo ed italiano – abbia avuto ad oggetto unicamente la partecipazione finanziaria, con acquisto di quote di capitale, eventualmente accompagnate da patti parasociali allegati ai bandi gara per l’individuazione di taluni amministratori in accordo con il socio pubblico, non importa ora se minoritario o prevalente». Ciò determina una lesione della competenza degli enti territoriali «sull’organizzazione degli stessi anche con riferimento ad enti strumentali […] o a partecipazioni di minoranza».
11.2. – Con separata istanza, la Regione Piemonte ha richiesto la riunione del procedimento con quello introdotto con il ricorso n. 77 del 2008.
11.3. – Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni proposte siano dichiarate inammissibili e, comunque, infondate, sulla base di argomentazioni analoghe a quelle svolte in relazione ai ricorsi n. 6, n. 10, n. 12, n. 13, n. 14 e n. 15 del 2010 (supra: punti 5.2., 6.2., 7.2., 8.2., 9.2. e 10.2.).
11.4. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza la Regione Piemonte ha sostanzialmente ribadito quanto già sostenuto nel ricorso, aggiungendo che, poiché la definizione della questione di costituzionalità dipende dall’interpretazione del diritto dell’Unione europea, appare possibile «ritenere che la Corte costituzionale – ove non accolga i motivi di ricorso […] – debba proporre la seguente questione pregiudiziale avanti la Corte di giustizia […]: “se sia conforme al diritto europeo – al principio di concorrenza ed al principio d’autonomia degli enti territoriali (art. 5 Trattato) – la norma dello Stato italiano che impone l’attribuzione a terzi come forma ordinaria e preferenziale d’affidamento dei servizi pubblici locali, e la norma che relega la rilevanza giuridica dell’in house providing ai soli casi d’eccezione tassativamente individuati dal legislatore statale stesso con una conseguente limitazione dei casi ammessi dalla giurisprudenza comunitaria”».
11.5. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, il Presidente del Consiglio dei ministri ha ribadito quanto affermato nell’atto di costituzione, svolgendo, inoltre, considerazione analoghe a quelle svolte in relazione al ricorso n. 77 del 2008 (supra: punto 3.4.).
12. – Con ricorso notificato il 20 marzo 2010 e depositato il 30 marzo successivo (r. ric. n. 51 del 2010), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato, tra l’altro, l’art. 1, comma 1, della legge della Regione Campania 21 gennaio 2010, n. 2 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione Campania - Legge finanziaria anno 2010), il quale prevede che «La regione Campania disciplina il servizio idrico integrato regionale come servizio privo di rilevanza economica. Nel rispetto dei principi di sussidiarietà, ragionevolezza e leale collaborazione e in assenza di intese con lo Stato in merito alle politiche relative alle società di distribuzione dell’acqua potabile, le aziende operative nella regione Campania devono avere la maggioranza assoluta dell’azionariato a partecipazione pubblica. Tutte le forme attualmente in essere di gestione del servizio idrico con società miste o interamente private decadono a far data dalle scadenze dei contratti di servizio in essere. I proventi ricavati dalla utilizzazione del demanio idrico sono destinati al finanziamento degli interventi della risorsa idrica e dell’assetto idraulico ed idrogeologico sulla base delle linee programmatiche di bacino. Tali proventi sono iscritti dal corrente esercizio finanziario all’Unità previsionale di base (UPB) 11.81.80 della entrata e destinati al finanziamento delle spese iscritte alla UPB 1.1.1. “Difesa Suolo” concernenti i lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria del reticolo idrografico regionale».
12.1. – Il ricorrente sostiene che il servizio idrico integrato, al
quale la disposizione in questione fa riferimento, è disciplinato da
norme statali, nell’esercizio della competenza legislativa esclusiva di
cui all’art. 117, secondo comma, Cost., in vari ambiti, quali: funzioni
fondamentali degli enti locali, concorrenza, tutela dell’ambiente,
determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni.
In particolare, l’Avvocatura generale dello Stato sottolinea che, nel
disciplinare tale servizio, l’art. 141, comma 2, del d.lgs. n. 152 del
2006 afferma chiaramente la sua rilevanza economica, laddove dispone che
lo stesso «deve essere gestito secondo principi di efficienza, efficacia
ed economicità». Un ulteriore indice di tale rilevanza potrebbe essere
individuato nell’art. 154, comma 1, dello stesso d.lgs. n. 152 del 2006,
che, nel disciplinare la tariffa del servizio idrico integrato, la
qualifica come «corrispettivo» in tutte le quote che la compongono e
stabilisce che essa è determinata, tenendo conto, tra l’altro,
«dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito». La
rilevanza economica del servizio sarebbe, inoltre, confermata sia
dall’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, che, nel disciplinare
l’affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza
economica, precisa che detta disciplina si applica a tutti i servizi
pubblici locali, sia dall’art. 113 del d.lgs. n. 267 del 2000, che vi
faceva riferimento nel disciplinare proprio la «gestione delle reti ed
erogazione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica».
12.1.1. – La difesa dello Stato lamenta, in primo luogo, che la norma
regionale censurata, disponendo che la Regione disciplina il servizio
predetto «come servizio privo di rilevanza economica», si pone in
contrasto con tali disposizioni di legge e, di conseguenza, con l’art.
117, secondo comma, lettera e), Cost.
In particolare – per il ricorrente – al servizio idrico integrato deve
comunque attribuirsi rilevanza economica, perché esso si sostanzia in
attività suscettibili, in astratto o in potenza, di essere gestite in
forma remunerativa, e perciò di produrre redditività, e per le quali
esiste un mercato concorrenziale. Ne consegue che la disposizione
censurata viola anche l’art. 117, primo comma, Cost., perché si pone in
contrasto con i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario, come
interpretato dalla Corte di giustizia UE.
Inoltre la previsione in esame sarebbe comunque inidonea a sottrarre la
disciplina del servizio idrico integrato alla competenza esclusiva del
legislatore statale, perché essa, «nel prevedere l’affidamento del
servizio ad aziende con azionariato con partecipazione pubblica a
maggioranza assoluta, postula, evidentemente, l’esercizio dell’attività
in questione nella forma della società commerciale e, comunque, anche la
presenza di capitali ed investitori privati, la cui partecipazione
implica necessariamente che, in concreto, l’attività in questione sia
svolta in forma remunerativa».
12.1.2. – In secondo luogo, la difesa dello Stato lamenta che il secondo
periodo del comma denunciato – prevedendo che «in merito alle politiche
relative alle società di distribuzione dell’acqua potabile, le aziende
operative nella regione Campania devono avere la maggioranza assoluta
dell’azionariato a partecipazione pubblica» – contrasta con l’art.
23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, perché disciplina in modo del
tutto difforme le forme giuridiche dei soggetti cui affidare il servizio
ed il termine di decadenza degli affidamenti in essere.
La norma censurata, infatti, porrebbe alle aziende che intendano
«operare» nella Regione un vincolo di assetto proprietario definito,
incidendo, in tal modo, sulle procedure di affidamento, poiché vieta
alle società prive della maggioranza assoluta dell’azionariato pubblico
di ottenere l’affidamento del servizio. L’art. 23-bis, comma 2, del d.l.
n. 112 del 2008 prevede, sul punto, che il conferimento della gestione
dei servizi pubblici locali avviene, in via ordinaria a società miste
nelle quali al socio privato sia attribuita una partecipazione non
inferiore al 40 per cento, postulando, così, anche la possibilità «che
la partecipazione privata si attesti su percentuali superiori, in
coerenza con obiettivi di mercato pro concorrenziali, nonché con
obiettivi di efficienza finalizzati anche alla salvaguardia
dell’ambiente, che i vincoli posti dalla norma regionale pregiudicano
non poco».
12.1.3. – In terzo luogo, il ricorrente lamenta che il terzo periodo del denunciato comma 1 dell’art. 1 – nel disporre che «tutte le forme attualmente in essere di gestione del servizio idrico con società miste o interamente private decadono a far data dalle scadenze dei contratti di servizio in essere» – si pone in contrasto con il comma 8 dell’art. 23-bis, che prevede una più complessa, articolata e restrittiva disciplina del regime transitorio.
12.2. – Si è costituita in giudizio la Regione Campania, chiedendo che
le questioni proposte siano dichiarate infondate.
Ad avviso della resistente, la stessa normativa statale richiamata nel
ricorso non esclude affatto che il legislatore regionale possa
conformare il servizio idrico come privo di rilevanza economica: anzi,
l’art. 150, comma 3, del d.lgs. n. 152 del 2006 e l’art. 23-bis, comma
3, del d.l. n. 112 del 2008 consentono entrambi che, per esigenze
sociali, ambientali o di altro tipo, si possa derogare al regime della
concorrenza per la gestione del servizio. Sulla stessa linea si
collocherebbe il diritto comunitario, il quale tende a considerare
l’acqua come un bene comune e la sua gestione come un’attività che deve
necessariamente tenere conto della particolare rilevanza pubblicistica
di tale bene.
12.3. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, il Presidente del Consiglio dei ministri ha ribadito, nel merito, quanto già affermato nel ricorso e ha eccepito l’inammissibilità della costituzione in giudizio della Regione Campania. Sostiene il ricorrente che detta costituzione è stata deliberata da un organo privo della relativa competenza, essendo stata adottata con decreto dirigenziale dell’avvocato coordinatore, su proposta del dirigente del settore contenzioso amministrativo e tributario e non – come richiesto dall’art. 32, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e dall’art. 15 della legge regionale 28 maggio 2009, n. 6 (Statuto della Regione Campania), e ribadito dall’ordinanza della Corte costituzionale letta all’udienza del 25 maggio 2010 e relativa al giudizio deciso con la sentenza n. 225 del 2010 – dalla Giunta regionale.
12.4. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, la Regione Campania ha sostanzialmente ribadito, nel merito, quanto già sostenuto nell’atto di costituzione.
Considerato in diritto
1. – Le questioni sottoposte all’esame della Corte con i ricorsi indicati in epigrafe sono state promosse dalle Regioni Emilia-Romagna (registro ricorsi n. 69 del 2008 e n. 13 del 2010), Liguria (registro ricorsi n. 72 del 2008 e n. 12 del 2010), Piemonte (registro ricorsi n. 77 del 2008 e 16 del 2010), Puglia (registro ricorsi n. 6 del 2010), Toscana (registro ricorsi n. 10 del 2010), Umbria (registro ricorsi n. 14 del 2010), Marche (registro ricorsi n. 15 del 2010), nonché dal Presidente del Consiglio dei ministri (registro ricorsi n. 2 del 2009 e n. 51 del 2010).
1.1. – Le disposizioni censurate dalle Regioni possono essere suddivise
in tre gruppi: a) un primo gruppo, relativo al testo originario (e non
più vigente) dell’art. 23-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112
(Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la
competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la
perequazione tributaria) – articolo aggiunto dalla legge di conversione
6 agosto 2008, n. 133, ed entrato in vigore, in forza dell’art. 1, comma
4, di detta legge, in data 22 agosto 2008 – comprende i commi 1, 2, 3,
4, 7, 8 e 10 di tale articolo (ricorso n. 69 del 2008, Emilia-Romagna;
ricorso n. 72 del 2008, Liguria; ricorso n. 77 del 2008, Piemonte); b)
un secondo gruppo, relativo al testo vigente dell’art. 23-bis del
decreto-legge n. 112 del 2008 – articolo aggiunto dalla legge di
conversione n. 133 del 2008, e modificato del decreto-legge 25 settembre
2009, n. 135 (Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi
comunitari e per l’esecuzione di sentenze della corte di giustizia delle
Comunità europee), convertito, con modificazioni, dalla legge 20
novembre 2009, n. 166, entrato in vigore il 26 settembre 2009 e, per le
parti modificate, il 25 novembre 2009 – comprende i commi 2, 3, 4,
4-bis, 8, 9 e 10, di tale articolo (ricorso n. 6 del 2010, Puglia;
ricorso n. 10 del 2010, Toscana; ricorso n. 12 del 2010, Liguria;
ricorso n. 13 del 2010, Emilia-Romagna; ricorso n. 14 del 2010, Umbria;
ricorso n. 15 del 2010, Marche; ricorso n. 16 del 2010, Piemonte); c) un
terzo gruppo comprende il solo comma 1-ter dell’art. 15 del citato
decreto-legge n. 135 del 2009, comma entrato in vigore in data 26
settembre 2009, in forza dell’art. 21 del medesimo decreto-legge
(ricorso n. 15 del 2010, Marche).
Tali gruppi di disposizioni introducono novità normative rilevanti nella
disciplina delle modalità di affidamento dei servizi pubblici locali
(SPL) e del diritto transitorio degli affidamenti già in corso.
In particolare, si prevede che:
a) l’affidamento del SPL in via ordinaria, mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, riguarda non solo le società di capitali – come nella previgente normativa – ma, più in generale, gli «imprenditori o […] società in qualunque forma costituite» (comma 2 del testo originario e del testo vigente dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008);
b) l’affidamento diretto – cioè senza gara ad evidenza pubblica – della gestione del SPL a società miste il cui socio privato sia scelto mediante procedure competitive ad evidenza pubblica costituisce un caso di conferimento della gestione «in via ordinaria», alla duplice condizione che la procedura di gara riguardi non solo la qualità di socio, ma anche l’attribuzione di «specifici compiti operativi connessi alla gestione del servizio» e che al socio privato sia attribuita una partecipazione non inferiore al 40% (comma 2 del testo attualmente vigente dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008);
c) l’affidamento diretto «in deroga» ai conferimenti effettuati in via ordinaria richiede una previa «pubblicità adeguata» e una motivazione di detta scelta da parte dell’ente in base ad un’«analisi di mercato», oltre alla trasmissione di una «relazione» dall’ente affidante alle autorità di settore, ove costituite (testo originario dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008), ovvero all’Autorità garante della concorrenza e del mercato – AGCM (testo vigente dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008), per un parere obbligatorio ma non vincolante, che deve essere reso entro 60 giorni dalla ricezione;
d) l’affidamento diretto deve – ai sensi dei commi 3 e 4 del testo originario dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 – «avvenire nel rispetto dei princìpi della disciplina comunitaria», con l’ulteriore presupposto che sussistano «situazioni che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace ed utile ricorso al mercato»;
e) lo stesso affidamento deve, invece, avvenire – ai sensi dei commi 3 e 4 del testo attualmente vigente del medesimo art. 23-bis – con le forme della gestione in house, nel rispetto delle condizioni richieste dal diritto comunitario, previo parere della sola AGCM, con l’ulteriore presupposto della sussistenza di «situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace ed utile ricorso al mercato»;
f) i bacini di gara per i diversi servizi sono definiti, nel rispetto delle normative settoriali, dalle Regioni e dagli enti locali d’intesa con la Conferenza unificata di cui all’art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281 (comma 7 dell’art. 23-bis, sia nella versione originaria che in quella vigente);
g) è abrogato, nelle parti incompatibili con la nuova disciplina, l’art. 113 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico sugli enti locali), in seguito indicato come TUEL, concernente l’affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica (comma 11 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, sia nella versione originaria che in quella vigente);
h) il Governo ha il potere di adottare regolamenti di delegificazione sia nelle materie di cui al comma 10 dell’art. 23-bis (come disposto nella versione originaria ed in quella vigente dell’art. 23-bis), sia per la determinazione delle soglie minime oltre le quali gli affidamenti «assumono rilevanza ai fini dell’espressione del parere» dell’AGCM (come disposto dal comma 4-bis nella versione vigente dell’art. 23-bis);
i) gli affidamenti diretti già in essere al momento dell’entrata in vigore della nuova normativa cessano al 31 dicembre 2010 (versione originaria del comma 8 dell’art. 23-bis) o in date successive, a partire dal 31 dicembre 2011, a seconda delle diverse tipologie degli affidamenti stessi (versione vigente del comma 8 dell’art. 23-bis);
l) «Tutte le forme di affidamento della gestione del servizio idrico integrato di cui all’articolo 23-bis del citato decreto-legge n. 112 del 2008 […] devono avvenire nel rispetto dei princìpi di autonomia gestionale del soggetto gestore e di piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche, il cui governo spetta esclusivamente alle istituzioni pubbliche, in particolare in ordine alla qualità e prezzo del servizio, in conformità a quanto previsto dal decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, garantendo il diritto alla universalità ed accessibilità del servizio» (comma 1-ter, dell’art. 15 del decreto-legge n. 135 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 166 del 2009).
1.2. – Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato, a sua volta, due gruppi di disposizioni di leggi regionali.
1.2.1. – Il primo gruppo di disposizioni censurate (ricorso n. 2 del 2009) è costituito dai commi 1, 4, 5, 6 e 14 dell’art. 4 della legge della Regione Liguria 28 ottobre 2008, n. 39 (Istituzione della Autorità d’Ambito per l’esercizio delle funzioni degli enti locali in materia di risorse idriche e gestione dei rifiuti ai sensi del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 – Norme in materia ambientale). Detti commi stabiliscono:
a) la competenza della Giunta regionale ad approvare lo schema-tipo di contratto di servizio e di convenzione per il servizio idrico integrato (comma 1);
b) la competenza dell’Autorità d’ambito a provvedere all’affidamento del servizio idrico integrato, «nel rispetto dei criteri di cui all’articolo 113, comma 7, del d.lgs. 267/2000 e delle modalità di cui agli articoli 150 e 172 del d.lgs.152/2006» (comma 4);
c) la cessazione delle concessioni esistenti e il relativo regime transitorio degli affidamenti del servizio idrico integrato effettuati senza gara, attraverso il rinvio alle disposizioni di cui all’art. 113, comma 15-bis, TUEL (commi 5 e 6);
d) la competenza delle Autorità d’ambito territoriale ottimale a definire i contratti di servizio, gli obiettivi qualitativi dei servizi erogati, il monitoraggio delle prestazioni, gli aspetti tariffari, la partecipazione dei cittadini e delle associazioni dei consumatori (comma 14).
1.2.2. – Il secondo gruppo di disposizioni censurate dallo Stato (ricorso n. 51 del 2010) è costituito dal comma 1 dell’art. 1 della legge della Regione Campania 21 gennaio 2010, n. 2 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione Campania – Legge finanziaria anno 2010), il quale stabilisce la competenza della medesima Regione a disciplinare il servizio idrico integrato regionale come servizio privo di rilevanza economica ed a stabilire autonomamente sia le forme giuridiche dei soggetti cui affidare il servizio sia il termine di decadenza degli affidamenti in essere.
2. – Le Regioni hanno promosso questioni in riferimento agli artt. 3, 5, 41, 97, 114, 117, primo, secondo, terzo, quarto, sesto comma, 118 e 119, sesto comma, e 120 della Costituzione. Ad integrazione del parametro costituito dal primo comma dell’art. 117 Cost., alcune Regioni, hanno evocato quali norme interposte:
a) la Carta europea dell’autonomia locale (in specie gli artt. 3, comma 1, 4, commi 2 e 4), firmata, nell’ambito del Consiglio d’Europa, a Strasburgo il 15 ottobre 1985, e ratificata dalla legge 30 dicembre 1989, n. 439 (Ratifica ed esecuzione della convenzione europea relativa alla Carta europea dell’autonomia locale, firmata a Strasburgo il 15 ottobre 1985);
b) il «diritto comunitario»;
c) i «princìpi del diritto comunitario di libertà degli individui e di autonomia degli enti territoriali»;
d) gli artt. 14 e 106 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE).
In base alle prospettazioni delle ricorrenti, tali questioni possono
essere distinte nei sette seguenti nuclei tematici, per i primi quattro
dei quali, in considerazione della loro incidenza sull’intero tessuto
normativo censurato, è opportuna una trattazione generale e preliminare.
Le conclusioni cui si perverrà all’esito di tale trattazione
costituiranno la base della decisione delle singole questioni, che
saranno in séguito esaminate analiticamente.
Il primo nucleo tematico attiene alla ricostruzione del rapporto tra la
disciplina dei SPL ricavabile dall’ordinamento dell’Unione europea e
dalla Carta europea dell’autonomia locale e quella dettata con le
disposizioni censurate. Tale ricostruzione è necessaria al fine di
valutare le opposte prospettazioni delle parti, secondo le quali le
particolari – e più restrittive rispetto alla legislazione italiana
anteriore – condizioni fissate dal censurato comma 3 dell’art. 23-bis
del decreto-legge n. 112 del 2008 (sia nella versione originaria che in
quella vigente) per l’affidamento in house dei servizi pubblici locali,
costituirebbero una obbligatoria applicazione (secondo la difesa dello
Stato) oppure una violazione (secondo le ricorrenti) del diritto
dell’Unione.
Il secondo nucleo tematico attiene all’individuazione della sfera di
competenza in cui, secondo la Costituzione, si colloca la normativa
denunciata: se – come afferma lo Stato – nell’ambito costituzionale
della tutela della concorrenza, o di altra competenza esclusiva statale,
oppure – come afferma la maggioranza delle ricorrenti – nell’ambito
della materia dei servizi pubblici locali, di competenza regionale
residuale; o ancora, come afferma la Regione Marche, nell’ambito della
potestà regolamentare degli enti locali di cui all’art. 117, sesto
comma, Cost.; o infine, come afferma la Regione Puglia, nell’ambito
della competenza regionale concorrente in materia di tutela della salute
e alimentazione.
Il terzo nucleo tematico – nel caso in cui si ritenesse sussistere la
competenza esclusiva statale per la tutela della concorrenza – attiene
alla valutazione della censura secondo cui la normativa denunciata
violerebbe il principio di ragionevolezza, sotto il profilo della
proporzionalità ed adeguatezza, e, per l’effetto, lederebbe la sfera di
competenza legislativa o regolamentare riservata alle Regioni a statuto
ordinario.
Il quarto nucleo tematico attiene alla individuazione della competenza
regionale o statale nella determinazione della rilevanza economica dei
SPL, cioè del presupposto stesso per l’applicazione della normativa
relativa a tali servizi. Tale problema, nella prospettiva della
ricorrente Regione Marche, si pone anche nel caso in cui si ritenga che
la suddetta normativa sia riconducibile alla materia della tutela della
concorrenza e sia proporzionata ed adeguata.
Il quinto nucleo tematico ha per oggetto la violazione degli artt. 3 e
97 Cost., sotto il profilo dell’obbligo di motivazione degli atti
amministrativi, in relazione a quanto stabilito dal censurato art.
23-bis del d.l n. 112 del 2008, interpretato nel senso che la scelta
dell’ente locale di procedere all’affidamento «in via ordinaria» dei SPL
non è onerata di obblighi motivazionali analoghi a quelli previsti per
l’affidamento «in deroga» (vale a dire, per l’affidamento in house).
Il sesto nucleo tematico riguarda l’asserita irragionevole diversità di
disciplina fra il servizio idrico integrato e gli altri servizi pubblici
locali.
Il settimo nucleo tematico attiene alla lamentata violazione
dell’autonomia finanziaria delle Regioni e degli enti locali.
3. – Il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questioni in
riferimento agli artt. 117, primo e secondo comma, lettere e) ed s),
Cost. e alle seguenti norme interposte: a) per le questioni riguardanti
la legge della Regione Liguria n. 39 del 2008, l’art. 161, comma 4,
lettera c), del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia
ambientale), nonché l’art. 23-bis, commi 2, 3, 8, 9 e 11, del
decreto-legge n. 112 del 2008; b) per le questioni riguardanti la legge
della Regione Campania n. 2 del 2010, gli artt. 141 e 154 del d.lgs. n.
152 del 2006, l’art. 23-bis, commi 2, 3, 8, 9 e 11, del decreto-legge n.
112 del 2008, il decreto-legge n. 135 del 2009, nonché l’art. 113 del
TUEL.
Tali questioni hanno per oggetto:
a) l’individuazione della sfera di competenza in cui, secondo la Costituzione, si colloca la normativa regionale denunciata: se – come afferma lo Stato – nell’ambito costituzionale della tutela della concorrenza o tutela dell’ambiente oppure – come affermano le Regioni resistenti – della materia dei servizi pubblici locali (di competenza regionale residuale);
b) la valutazione della sussistenza del denunciato contrasto tra la normativa regionale e le evocate norme interposte statali.
4. – Le predette questioni di legittimità costituzionale, là dove promosse nell’ambito di uno stesso ricorso unitamente ad altre, devono essere trattate separatamente da queste ultime, essendo opportuno procedere ad un esame distinto. I giudizi, così separati e delimitati nell’oggetto, devono quindi tra loro riunirsi, per essere congiuntamente trattati e decisi, in considerazione della parziale identità di materia delle norme censurate e delle questioni prospettate.
5. – Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, la difesa dello
Stato ha eccepito l’inammissibilità della costituzione della Regione
Campania nel giudizio relativo al ricorso n. 51 del 2010. Sostiene il
ricorrente che detta costituzione è stata deliberata da un organo privo
della relativa competenza, essendo stata adottata con decreto
dirigenziale dell’avvocato coordinatore, su proposta del dirigente del
settore contenzioso amministrativo e tributario e non dalla Giunta
regionale.
L’eccezione è stata accolta da questa Corte con ordinanza pronunciata
all’udienza del 5 ottobre 2010, sul rilievo che, a norma dell’art. 32,
secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, «La questione di
legittimità costituzionale, previa deliberazione della Giunta regionale
[…], è promossa dal Presidente della Giunta» e, in tale competenza ad
autorizzare la promozione dei giudizi di costituzionalità, deve
ritenersi compresa anche la deliberazione di costituirsi in tali
giudizi, data la natura politica della valutazione che i due atti
richiedono (nello stesso senso, l’ordinanza letta all’udienza del 25
maggio 2010 e relativa al giudizio deciso con la sentenza n. 225 del
2010).
6. – Il primo dei sopra indicati nuclei tematici attiene – come si è
visto – al rapporto tra le disposizioni censurate e la disciplina dei
SPL desumibile dall’ordinamento dell’Unione europea e dalla Carta
europea dell’autonomia locale. Secondo alcune ricorrenti, le suddette
disposizioni, ponendosi in contrasto con la normativa comunitaria ed
internazionale, violano il primo comma dell’art. 117 Cost., là dove
questo vincola la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni al
rispetto dell’ordinamento comunitario e degli obblighi internazionali.
Secondo la difesa dello Stato, invece, la stessa formulazione del comma
1 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 («le disposizioni
del presente articolo disciplinano l’affidamento e la gestione dei
servizi pubblici locali di rilevanza economica, in applicazione della
disciplina comunitaria […]») evidenzia che le disposizioni oggetto di
censura, in particolare quelle relative all’affidamento in house dei
servizi pubblici locali, costituiscono un’obbligatoria applicazione del
diritto dell’Unione e non contrastano con la citata Carta europea
dell’autonomia locale.
Nessuna di tali due opposte prospettazioni è condivisibile, perché le
disposizioni censurate dalle ricorrenti non costituiscono né una
violazione né un’applicazione necessitata della richiamata normativa
comunitaria ed internazionale, ma sono semplicemente con questa
compatibili, integrando una delle diverse discipline possibili della
materia che il legislatore avrebbe potuto legittimamente adottare senza
violare l’evocato primo comma dell’art. 117 Cost. Tale conclusione va
argomentata procedendo al raffronto delle disposizioni censurate sia con
la normativa comunitaria che con quella internazionale evocate a
parametro interposto.
6.1. – In ambito comunitario non viene mai utilizzata l’espressione
«servizio pubblico locale di rilevanza economica», ma solo quella di
«servizio di interesse economico generale» (SIEG), rinvenibile, in
particolare, negli artt. 14 e 106 del Trattato sul funzionamento
dell’Unione europea (TFUE). Detti articoli non fissano le condizioni di
uso di tale ultima espressione, ma, in base alle interpretazioni
elaborate al riguardo dalla giurisprudenza comunitaria (ex multis, Corte
di giustizia UE, 18 giugno 1998, C-35/96, Commissione c. Italia) e dalla
Commissione europea (in specie, nelle Comunicazioni in tema di servizi
di interesse generale in Europa del 26 settembre 1996 e del 19 gennaio
2001; nonché nel Libro verde su tali servizi del 21 maggio 2003), emerge
con chiarezza che la nozione comunitaria di SIEG, ove limitata
all’ambito locale, e quella interna di SPL di rilevanza economica hanno
«contenuto omologo», come riconosciuto da questa Corte con la sentenza
n. 272 del 2004. Lo stesso denunciato comma 1 dell’art. 23-bis del
decreto-legge n. 112 del 2008 – nel dichiarato intento di disciplinare i
«servizi pubblici locali di rilevanza economica» per favorire la più
ampia diffusione dei princìpi di concorrenza, di libertà di stabilimento
e di libera prestazione dei servizi di tutti «gli operatori economici
interessati alla gestione di servizi pubblici di interesse generale in
ambito locale» – conferma tale interpretazione, attribuendo
espressamente ai SPL di rilevanza economica un significato
corrispondente a quello di «servizi di interesse generale in ambito
locale» di rilevanza economica, di evidente derivazione comunitaria.
Entrambe le suddette nozioni, interna e comunitaria, fanno riferimento
infatti ad un servizio che: a) è reso mediante un’attività economica (in
forma di impresa pubblica o privata), intesa in senso ampio, come
«qualsiasi attività che consista nell’offrire beni o servizi su un
determinato mercato» (come si esprimono sia la citata sentenza della
Corte di giustizia UE, 18 giugno 1998, C-35/96, Commissione c. Italia,
sia le sentenze della stessa Corte 10 gennaio 2006, C-222/04, Ministero
dell’economia e delle finanze, e 16 marzo 2004, cause riunite C-264/01,
C-306/01, C-354/01 e C-355/01, AOK Bundesverband, nonché il Libro verde
sui servizi di interesse generale del 21 maggio 2003, al paragrafo 2.3,
punto 44); b) fornisce prestazioni considerate necessarie (dirette,
cioè, a realizzare anche “fini sociali”) nei confronti di una
indifferenziata generalità di cittadini, a prescindere dalle loro
particolari condizioni (Corte di giustizia UE, 21 settembre 1999,
C-67/96, Albany International BV). Le due nozioni, inoltre, assolvono
l’identica funzione di identificare i servizi la cui gestione deve
avvenire di regola, al fine di tutelare la concorrenza, mediante
affidamento a terzi secondo procedure competitive ad evidenza pubblica.
Per quanto qui interessa, la disciplina comunitaria del SIEG e quella
censurata del SPL divergono, invece, in ordine all’individuazione delle
eccezioni alla suddetta regola. Occorre pertanto accertare se le
differenze tra le due discipline siano tali da far venir meno, come
sostengono le Regioni ricorrenti, la loro compatibilità. Tale
accertamento, come si vedrà in seguito, avrà esito negativo.
Una prima differenza è rappresentata dalla gestione diretta del SPL da
parte dell’autorità pubblica. La normativa comunitaria la ammette nel
caso in cui lo Stato nazionale ritenga che l’applicazione delle regole
di concorrenza (e, quindi, anche della regola della necessità
dell’affidamento a terzi mediante una gara ad evidenza pubblica)
ostacoli, in diritto od in fatto, la «speciale missione» dell’ente
pubblico (art. 106 TFUE; ex plurimis, sentenze della Corte di giustizia
UEE 11 gennaio 2005, C-26/03, Stadt Halle, punti 48 e 49, e 10 settembre
2009, C-573/07, Sea s.r.l.). In tale ipotesi l’ordinamento comunitario,
rispettoso dell’ampia sfera discrezionale attribuita in proposito agli
Stati membri, si riserva solo di sindacare se la decisione dello Stato
sia frutto di un “errore manifesto”. La censurata disciplina nazionale,
invece, rappresenta uno sviluppo del diverso principio generale
costituito dal divieto della gestione diretta del SPL da parte dell’ente
locale; divieto introdotto dai non censurati art. 35 della legge 28
dicembre 2001, n. 448 (Disposizioni per la formazione del bilancio
annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2002) e art. 14
del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per
favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti
pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003,
n. 326. Da quanto precede, è dunque evidente che:
a) la normativa comunitaria consente, ma non impone, agli Stati membri di prevedere, in via di eccezione e per alcuni casi determinati, la gestione diretta del servizio pubblico da parte dell’ente locale;
b) lo Stato italiano, facendo uso della sfera di discrezionalità attribuitagli dall’ordinamento comunitario al riguardo, ha effettuato la sua scelta nel senso di vietare di regola la gestione diretta dei SPL ed ha, perciò, emanato una normativa che pone tale divieto.
Una seconda differenza riguarda l’affidamento della gestione del
servizio alle società miste, cioè con capitale in parte pubblico ed in
parte privato (cosiddetto PPP, partenariato pubblico e privato). La
normativa comunitaria consente l’affidamento diretto del servizio (cioè
senza una gara ad evidenza pubblica per la scelta dell’affidatario) alle
società miste nelle quali si sia svolta una gara ad evidenza pubblica
per la scelta del socio privato e richiede sostanzialmente che tale
socio sia un socio «industriale» e non meramente «finanziario» (in tal
senso, in particolare, il Libro verde della Commissione del 30 aprile
2004), senza espressamente richiedere alcun limite, minimo o massimo,
della partecipazione del socio privato. Il testo originario dell’art.
23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 non prevede una disciplina
specifica per tale tipo di affidamento e dà per scontato che la suddetta
modalità di scelta del socio rientri nella regola comunitaria
dell’affidamento mediante gara ad evidenza pubblica, restando
irrilevante che tale gara abbia ad oggetto la scelta del socio privato
invece dell’affidatario. La disciplina interna e quella comunitaria sul
punto sono, dunque, identiche. Anche il testo vigente dello stesso art.
23-bis è conforme alla normativa comunitaria, nella parte in cui
consente l’affidamento diretto della gestione del servizio, «in via
ordinaria», ad una società mista, alla doppia condizione che la scelta
del socio privato «avvenga mediante procedure competitive ad evidenza
pubblica» e che a tale socio siano attribuiti «specifici compiti
operativi connessi alla gestione del servizio» (cosiddetta gara ad
evidenza pubblica a doppio oggetto: scelta del socio e attribuzione
degli specifici compiti operativi). La stessa nuova formulazione
dell’art. 23-bis si discosta, però, dal diritto comunitario nella parte
in cui pone l’ulteriore condizione, al fine del suddetto affidamento
diretto, che al socio privato sia attribuita «una partecipazione non
inferiore al 40 per cento». Tale misura minima della partecipazione (non
richiesta dal diritto comunitario, come sopra ricordato, ma neppure
vietata) si risolve in una restrizione dei casi eccezionali di
affidamento diretto del servizio e, quindi, la sua previsione perviene
al risultato di far espandere i casi in cui deve essere applicata la
regola generale comunitaria di affidamento a terzi mediante gara ad
evidenza pubblica. Ne consegue, anche in questo caso, la piena
compatibilità della normativa interna con quella comunitaria.
Una terza differenza attiene alle ipotesi di affidamento diretto del
servizio «in deroga» alle ipotesi di affidamento in via ordinaria
(versione originaria dell’art. 23-bis), che si identificano nella
gestione denominata in house (come chiarito dalla versione vigente dello
stesso art. 23-bis). Secondo la normativa comunitaria, le condizioni
integranti tale tipo di gestione ed alle quali è subordinata la
possibilità del suo affidamento diretto (capitale totalmente pubblico;
controllo esercitato dall’aggiudicante sull’affidatario di «contenuto
analogo» a quello esercitato dall’aggiudicante stesso sui propri uffici;
svolgimento della parte più importante dell’attività dell’affidatario in
favore dell’aggiudicante) debbono essere interpretate restrittivamente,
costituendo l’in house providing un’eccezione rispetto alla regola
generale dell’affidamento a terzi mediante gara ad evidenza pubblica.
Tale eccezione viene giustificata dal diritto comunitario con il rilievo
che la sussistenza delle suddette condizioni esclude che l’in house contract configuri, nella sostanza, un rapporto contrattuale
intersoggettivo tra aggiudicante ed affidatario, perché quest’ultimo è,
in realtà, solo la longa manus del primo. Nondimeno, la giurisprudenza
comunitaria non pone ulteriori requisiti per procedere a tale tipo di
affidamento diretto, ma si limita a chiarire via via la concreta portata
delle suddette tre condizioni. Viceversa, il legislatore nazionale,
nella versione vigente dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del
2008, non soltanto richiede espressamente, per l’affidamento diretto in
house, la sussistenza delle suddette tre condizioni poste dal diritto
comunitario, ma esige il concorso delle seguenti ulteriori condizioni:
a) una previa «pubblicità adeguata» e una motivazione della scelta di tale tipo di affidamento da parte dell’ente in base ad un’«analisi di mercato», con successiva trasmissione di una «relazione» dall’ente affidante alle autorità di settore, ove costituite (testo originario dell’art. 23-bis), ovvero all’AGCM (testo vigente dell’art. 23-bis), per un parere preventivo e obbligatorio, ma non vincolante, che deve essere reso entro 60 giorni dalla ricezione;
b) la sussistenza di «situazioni che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento» (commi 3 e 4 del testo originario dell’art. 23-bis), ovvero di «situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento» (commi 3 e 4 del testo vigente del medesimo art. 23-bis), «non permettono un efficace ed utile ricorso al mercato». Siffatte ulteriori condizioni, sulle quali si appuntano particolarmente le censure delle ricorrenti, si risolvono in una restrizione delle ipotesi in cui è consentito il ricorso alla gestione in house del servizio e, quindi, della possibilità di derogare alla regola comunitaria concorrenziale dell’affidamento del servizio stesso mediante gara pubblica. Ciò comporta, evidentemente, un’applicazione più estesa di detta regola comunitaria, quale conseguenza di una precisa scelta del legislatore italiano. Tale scelta, proprio perché reca una disciplina pro concorrenziale più rigorosa rispetto a quanto richiesto dal diritto comunitario, non è da questo imposta – e, dunque, non è costituzionalmente obbligata, ai sensi del primo comma dell’art. 117 Cost., come sostenuto dallo Stato –, ma neppure si pone in contrasto – come sostenuto, all’opposto, dalle ricorrenti – con la citata normativa comunitaria, che, in quanto diretta a favorire l’assetto concorrenziale del mercato, costituisce solo un minimo inderogabile per gli Stati membri. È infatti innegabile l’esistenza di un “margine di apprezzamento” del legislatore nazionale rispetto a princìpi di tutela, minimi ed indefettibili, stabiliti dall’ordinamento comunitario con riguardo ad un valore ritenuto meritevole di specifica protezione, quale la tutela della concorrenza “nel” mercato e “per” il mercato. Ne deriva, in particolare, che al legislatore italiano non è vietato adottare una disciplina che preveda regole concorrenziali – come sono quelle in tema di gara ad evidenza pubblica per l’affidamento di servizi pubblici – di applicazione più ampia rispetto a quella richiesta dal diritto comunitario. L’identità del “verso” delle discipline interna e comunitaria esclude, pertanto, ogni contrasto od incompatibilità anche per quanto riguarda la indicata terza differenza.
6.2. – Per quanto attiene alla dedotta violazione della Carta europea dell’autonomia locale di cui alla legge n. 439 del 1989, alcune ricorrenti deducono che le disposizioni censurate si pongono in contrasto con i seguenti articoli della Carta:
a) art. 3, comma 1, secondo cui, «per autonomia locale, s’intende il diritto e la capacità effettiva, per le collettività locali, di regolamentare ed amministrare nell’ambito della legge, sotto la loro responsabilità, e a favore delle popolazioni, una parte importante di affari pubblici»;
b) art. 4, comma 2, secondo cui «le collettività locali hanno, nell’ambito della legge, ogni più ampia facoltà di prendere iniziative proprie per qualsiasi questione che non esuli dalla loro competenza o sia assegnata ad un’altra autorità»;
c) art. 4, comma 4, secondo cui «le competenze affidate alle collettività locali devono di regola essere complete ed integrali» e «possono essere messe in causa o limitate da un’altra autorità, centrale o regionale, solamente nell’ambito della legge». La violazione della suddetta convenzione internazionale deriverebbe, secondo la prospettazione delle ricorrenti, dalla lesione dell’autonomia dell’ente pubblico garantita dal parametro evocato. Lesione, questa, che sarebbe determinata dall’introduzione di vincoli e specifici aggravi procedimentali in ordine alla scelta, da parte degli enti pubblici, di assumere essi stessi la gestione diretta del servizio idrico integrato, cioè di una delle funzioni fondamentali dei Comuni.
Il denunciato contrasto con detta Carta non sussiste per le seguenti
ragioni.
Innanzitutto, va rilevato che − secondo quanto esposto
supra al punto
6.1. − già l’art. 35 della legge n. 448 del 2001, nel sostituire l’art.
113 TUEL, aveva escluso per i servizi pubblici locali «di rilevanza
industriale» (secondo la definizione dell’epoca; poi definiti «di
rilevanza economica» per effetto dell’art. 14 del decreto-legge n. 269
del 2003, modificativo, appunto, dell’art. 113 TUEL) ogni gestione
diretta, in economia oppure tramite aziende speciali, da parte dell’ente
pubblico. Lo stesso art. 35, al comma 8, aveva altresì imposto alle
aziende speciali esistenti di trasformarsi in società di capitali entro
il 31 dicembre 2002. L’esclusione della gestione diretta non è dunque
innovativamente disposta, ma solo mantenuta, dall’art. 23-bis del
decreto-legge n. 112 del 2008, con la conseguenza che il denunciato
contrasto con la Carta non è ipotizzabile rispetto alle norme censurate,
ma solo, eventualmente, rispetto ai suddetti non censurati artt. 35
della legge n. 448 del 2001 e 14 del decreto-legge n. 269 del 2003.
In secondo luogo, va osservato che le ricorrenti prospettano la censura
muovendo dal dichiarato presupposto che il servizio idrico costituisca
una delle funzioni fondamentali dell’ente pubblico ed assumono che tali
funzioni siano specificamente tutelate dalla Carta. Tuttavia, proprio
tale presupposto è privo di fondamento, perché, come questa Corte ha più
volte affermato, detto servizio non costituisce funzione fondamentale
dell’ente locale (sentenze n. 307 del 2009 e n. 272 del 2004).
In terzo luogo, va evidenziato che gli evocati articoli della Carta
europea dell’autonomia locale non hanno uno specifico contenuto
precettivo, ma sono prevalentemente definitori (art. 3, comma 1),
programmatici (art. 4, comma 2) e, comunque, generici (art. 4, comma 4).
Inoltre, la stessa Carta, al comma 1 dell’evocato art. 4, afferma, con
previsione di carattere generale, che «le competenze di base delle
collettività locali sono stabilite dalla Costituzione o dalla legge»,
con ciò rinviando alla normativa nazionale la definizione del quadro
generale delle competenze.
7. – Il secondo nucleo tematico delle questioni proposte attiene
all’individuazione della sfera di competenza in cui, secondo la
Costituzione, deve collocarsi la normativa denunciata. In particolare,
questa Corte è chiamata a verificare se tale normativa rientra
nell’ambito costituzionale della competenza esclusiva statale e,
segnatamente, della tutela della concorrenza; o di quello della
competenza regionale residuale e, segnatamente, della materia dei
servizi pubblici locali; o, ancora, nell’ambito della potestà
regolamentare degli enti locali di cui all’art. 117, sesto comma, Cost.;
o, infine, se si tratti di un’ipotesi di concorso di competenze.
In proposito, va ribadito che – come questa Corte ha
più volte affermato
– la disciplina concernente le modalità dell’affidamento della gestione
dei servizi pubblici locali di rilevanza economica:
a) non è riferibile alla competenza legislativa statale in tema di «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali» (art. 117, secondo comma, lettera m, Cost.), perché riguarda, appunto, i servizi di rilevanza economica e non attiene, comunque, alla determinazione di livelli essenziali (sentenza n. 272 del 2004);
b) non può essere ascritta neppure all’ambito delle «funzioni fondamentali dei Comuni, delle Province e Città metropolitane» (art. 117, secondo comma, lettera p, Cost.), perché «la gestione dei predetti servizi non può certo considerarsi esplicazione di una funzione propria ed indefettibile dell’ente locale» (sentenza n. 272 del 2004) e, quindi, «non riguarda […] profili funzionali degli enti locali» (sentenza n. 307 del 2009, al punto 6.1.);
c) va ricondotta, invece, all’ambito della materia, di competenza legislativa esclusiva dello Stato, «tutela della concorrenza», prevista dall’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., tenuto conto degli aspetti strutturali e funzionali suoi propri e della sua diretta incidenza sul mercato (ex plurimis, sentenze n. 314, n. 307, n. 304 e n. 160 del 2009; n. 326 del 2008; n. 401 del 2007; n. 80 e n. 29 del 2006; n. 272 del 2004).
Di conseguenza, con riguardo alla
concreta disciplina censurata, la competenza statale viene a prevalere
sulle invocate competenze legislative regionali e regolamentari degli
enti locali e, in particolare, su quella in materia di servizi pubblici
locali, proprio perché l’oggetto e gli scopi che caratterizzano detta
disciplina attengono in via primaria alla tutela e alla promozione della
concorrenza (sentenze n. 142 del 2010, n. 246 e n. 148 del 2009, n. 411
e n. 322 del 2008).
Tali conclusioni risultano avvalorate dalla «nozione comunitaria di
concorrenza», che si riflette su quella di cui all’art. 117, secondo
comma, lettera e), Cost., anche per il tramite del primo comma dello
stesso art. 117 e dell’art. 11 Cost.; nozione richiamata anche dall’art.
1, comma 4, della legge 10 ottobre 1990, n. 287 (Norme per la tutela
della concorrenza e del mercato). Secondo tale nozione, la concorrenza
presuppone «la più ampia apertura al mercato a tutti gli operatori
economici del settore in ossequio ai principi comunitari della libera
circolazione delle merci, della libertà di stabilimento e della libera
prestazione dei servizi» (sentenza n. 401 del 2007). Essa pertanto –
come affermato in numerose pronunce di questa Corte (sentenze n. 270, n.
232 e n. 45 del 2010; n. 314 del 2009 e n. 148 del 2009; n. 63 del 2008;
n. 430 e n. 401 del 2007; n. 272 del 2004) – può essere tutelata
mediante tipi diversi di interventi regolatori, quali:
1) «misure legislative di tutela in senso proprio, che hanno ad oggetto gli atti ed i comportamenti delle imprese che influiscono negativamente sull’assetto concorrenziale dei mercati» (misure antitrust);
2) misure legislative di promozione, «che mirano ad aprire un mercato o a consolidarne l’apertura, eliminando barriere all’entrata, riducendo o eliminando vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese» (per lo più dirette a tutelare la concorrenza “nel” mercato);
3) misure legislative che perseguono il fine di assicurare procedure concorsuali di garanzia mediante la strutturazione di tali procedure in modo da realizzare «la più ampia apertura del mercato a tutti gli operatori economici» (dirette a tutelare la concorrenza “per” il mercato).
Nell’ambito di tali misure e, in particolare, di quelle al punto 3),
rientra espressamente la previsione di procedure concorsuali competitive
di evidenza pubblica volte – come quelle di specie – a garantire il
rispetto, per un verso, dei princìpi di parità di trattamento, di non
discriminazione, di proporzionalità e di trasparenza e, per l’altro,
delle regole dell’efficacia e dell’efficienza dell’attività dei pubblici
poteri, al fine di assicurare la piena attuazione degli interessi
pubblici in relazione al bene o al servizio oggetto dell’aggiudicazione.
Anche tali rilievi, basati sul diritto comunitario, confermano pertanto
che la disciplina delle modalità di affidamento della gestione dei
servizi pubblici locali rientra nella materia «tutela della concorrenza»
e che la concreta disciplina in esame prevale su altre competenze
(sentenze n. 270 del 2010; n. 307 e n. 283 del 2009; n. 320 e n. 51 del
2008; n.430 e n. 401 del 2007; n. 272 del 2004).
Con riferimento, poi, allo specifico settore del servizio idrico
integrato, questa Corte – in applicazione dei suddetti princìpi e
scrutinando la disciplina della determinazione della tariffa d’ambito
territoriale ottimale − ha stabilito che la normativa riguardante
l’individuazione di un’unica Autorità d’ambito e alla determinazione
della tariffa del servizio secondo un meccanismo di price cap (art. 148
del d.lgs. n. 152 del 2006) attiene all’esercizio delle competenze
legislative esclusive statali nelle materie della tutela della
concorrenza (art. 117, secondo comma, lettera e, Cost.) e dell’ambiente
(art. 117, secondo comma, lettera s, Cost.), materie che hanno
prevalenza su eventuali competenze regionali, che ne risultano così
corrispondentemente limitate. Ciò in quanto tale disciplina, finalizzata
al superamento della frammentazione della gestione delle risorse
idriche, consente la razionalizzazione del mercato ed è quindi diretta a
garantire la concorrenzialità e l’efficienza del mercato stesso
(sentenze n. 142 e n. 29 del 2010; n. 246 del 2009). Nella citata
sentenza n. 246 del 2009 è stato ulteriormente precisato che la forma di
gestione del servizio idrico integrato e le procedure di affidamento
dello stesso, disciplinate dall’art. 150 del d.lgs. n. 152 del 2006,
sono da ricondurre alla materia della tutela della concorrenza, di
competenza legislativa esclusiva statale, trattandosi di regole «dirette
ad assicurare la concorrenzialità nella gestione del servizio idrico
integrato, disciplinando le modalità del suo conferimento e i requisiti
soggettivi del gestore, al precipuo scopo di garantire la trasparenza,
l’efficienza, l’efficacia e l’economicità della gestione medesima».
In conclusione, secondo la giurisprudenza di questa Corte, le regole che
concernono l’affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali di
rilevanza economica − ivi compreso il servizio idrico – ineriscono
essenzialmente alla materia «tutela della concorrenza», di competenza
esclusiva statale, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera e),
Cost.
8. – Il terzo nucleo tematico, posto dalle questioni promosse dalle Regioni in ordine alle censurate discipline sia a regime che transitorie, attiene al principio di ragionevolezza. Al riguardo, le ricorrenti richiamano la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui l’esercizio della potestà normativa esclusiva dello Stato in tema di tutela della concorrenza è legittimo – in particolare, in caso di concorso con competenze regionali – alla condizione del rispetto, da parte del legislatore statale, del principio di ragionevolezza, sotto il profilo della proporzionalità e dell’adeguatezza (sentenza n. 272 del 2004, cui possono aggiungersi le sentenze n. 148 del 2009; n. 326 del 2008; n. 452 e n. 401 del 2007; n. 345, n. 272 del 2004).
8.1. − Per quanto riguarda la disciplina a regime, alcune ricorrenti assumono che essa, anche se ascrivibile alla materia «tutela della concorrenza», lede comunque la competenza residuale innominata delle Regioni in materia di servizi pubblici locali. In particolare, le ricorrenti deducono che la normativa censurata, nella parte in cui limita i casi in cui è consentito l’affidamento diretto in house, non è ragionevole, proporzionale o adeguata, perché:
a) è normativa autoapplicativa e di dettaglio;
b) pone vincoli ulteriori – e perciò ingiustificati – rispetto a quelli previsti dall’ordinamento comunitario per l’affidamento in house.
Nessuno di tali rilievi è condivisibile.
8.1.1. − Quanto al primo rilievo, va qui ribadita la giurisprudenza costituzionale, per la quale l’emanazione, nell’esercizio di una competenza esclusiva dello Stato, di una norma autoapplicativa e di dettaglio non integra alcuna violazione dei criteri di riparto costituzionale delle competenze legislative. Al riguardo, questa Corte ha ripetutamente affermato (sentenze n. 232 del 2010 e n. 430 del 2007, in materia di tutela della concorrenza; analogamente, sentenza n. 255 del 2010, in materia di sistema tributario dello Stato) che:
a) «l’attribuzione delle misure [a tutela della concorrenza] alla competenza legislativa esclusiva dello Stato comporta sia l’inderogabilità delle disposizioni nelle quali si esprime, sia che queste legittimamente incidono, nei limiti della loro specificità e dei contenuti normativi che di esse sono proprie, sulla totalità degli ambiti materiali entro i quali si applicano»;
b) una volta ricondotta una norma nell’ambito della «tutela della concorrenza», «non si tratta […] di valutare se essa sia o meno di estremo dettaglio, utilizzando princìpi e regole riferibili alla disciplina della competenza legislativa concorrente delle Regioni, ma occorre invece accertare se, alla stregua del succitato scrutinio, la disposizione sia strumentale ad eliminare limiti e barriere all’accesso al mercato ed alla libera esplicazione della capacità imprenditoriale».
Neppure può affermarsi – come sostenuto da alcune ricorrenti – che le norme sull’affidamento e le modalità di gestione dei servizi pubblici locali sono di per sé irragionevoli, perché intervengono in materia di tutela della concorrenza con discipline di dettaglio e autoapplicative. Infatti questa Corte ha più volte rilevato che è ragionevole che norme in materia di tutela della concorrenza, al fine di meglio tutelare le finalità pro concorrenziali loro proprie, possano essere dettagliate ed autoapplicative (sentenze n. 148 del 2009; n. 320 del 2008; n. 431 del 2007).
8.1.2. − Quanto al secondo profilo, non può accogliersi l’assunto delle
ricorrenti, secondo cui l’unica disciplina della concorrenza che possa
considerarsi proporzionale e adeguata è quella che non pone limiti (che
non siano quelli evidenziati dalla giurisprudenza comunitaria)
all’affidamento in house di servizi pubblici locali di rilevanza
economica.
Al riguardo, va innanzitutto osservato che non appare irragionevole,
anche se non costituzionalmente obbligata, una disciplina, quale quella
di specie, intesa a restringere ulteriormente – rispetto al diritto
comunitario – i casi di affidamento diretto in house (cioè i casi in cui
l’affidatario costituisce la longa manus di un ente pubblico che lo
controlla pienamente e totalmente). Come si è osservato al punto 6.1.,
tale normativa si innesta coerentemente in un sistema normativo interno
in cui già vige il divieto della gestione diretta mediante azienda
speciale o in economia (introdotto dai non censurati artt. 35 della
legge n. 448 del 2001 e 14 del decreto-legge n. 269 del 2003) e nel
quale, pertanto, i casi di affidamento in house, quale modello
organizzativo succedaneo della (vietata) gestione diretta da parte
dell’ente pubblico, debbono essere eccezionali e tassativamente
previsti.
In secondo luogo, va rilevato che le norme censurate dalle ricorrenti
non possono essere considerate sproporzionate od inadeguate solo perché,
attraverso la riduzione delle ipotesi di eccezionale affidamento diretto
dei servizi pubblici locali, rafforzano la generale regola pro
concorrenziale, prescelta dal legislatore, che impone l’obbligo di
procedere all’affidamento solo mediante procedure competitive ad
evidenza pubblica. La possibilità, secondo l’ordinamento comunitario, di
affidamenti in house anche in casi in cui detti affidamenti sono vietati
dalle denunciate disposizioni nazionali non rende queste ultime
irragionevoli in relazione agli indicati profili, perché – come messo in
evidenza sempre al punto 6.1. − l’ordinamento comunitario, in tema di
tutela della concorrenza e, in particolare, in tema di affidamento della
gestione dei servizi pubblici, costituisce solo un minimo inderogabile
per il legislatore degli Stati membri e, pertanto, non osta a che la
legislazione interna disciplini piú rigorosamente, nel senso di favorire
l’assetto concorrenziale di un mercato, le modalità di tale affidamento.
Pertanto, il legislatore nazionale ha piena libertà di scelta tra una
pluralità di discipline ugualmente legittime.
In terzo luogo, deve essere sottolineato che la normativa censurata non
impedisce del tutto all’ente pubblico la gestione di un servizio locale
di rilevanza economica, negandogli ogni possibilità di svolgere la sua
«speciale missione» pubblica (come si esprime il diritto comunitario),
ma trova, tra i molti possibili, un punto di equilibrio rispetto ai
diversi interessi operanti nella materia in esame. In proposito, va
ricordato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, la sfera di
autonomia privata e la concorrenza non ricevono «dall’ordinamento una
protezione assoluta» e possono, quindi, subire limitazioni ed essere
sottoposte al coordinamento necessario «a consentire il soddisfacimento
contestuale di una pluralità di interessi costituzionalmente rilevanti»
(sentenza n. 279 del 2006; analogamente, ordinanza n. 162 del 2009). La
stessa giurisprudenza ha tuttavia evidenziato che «una regolazione
strumentale a garantire la tutela anche di interessi diversi rispetto a
quelli correlati all’assetto concorrenziale del mercato garantito» ha
carattere «derogatorio e per ciò stesso eccezionale» e deve costituire
«la sola misura in grado di garantire al giusto la tutela di quegli
interessi» (sentenza n. 270 del 2010). Nella specie, intendendo
contemperare la regola della massima tutela della concorrenza con le
eccezioni derivanti dal perseguimento della speciale missione pubblica
da parte dell’ente locale, il legislatore ha in effetti ponderato due
diversi interessi: da un lato, quello generale alla tutela della
concorrenza; dall’altro, quello specifico degli enti locali a gestire il
SPL (tramite l’affidamento in house) nell’ipotesi in cui sia «efficace
ed utile» il ricorso al mercato e non solo quando esso non sia
possibile. Il bilanciamento tra tali interessi è stato attuato, in
concreto, in modo non irragionevole, per un verso, consentendo alle
società a capitale (interamente o parzialmente) pubblico, quando non
ricorrano le condizioni per l’affidamento diretto, di partecipare alle
gare ad evidenza pubblica per l’affidamento della gestione del servizio,
al pari di ogni altro imprenditore o società (comma 1 dell’art. 23-bis);
per altro verso, limitando l’affidamento in house alle ipotesi in cui,
pur in presenza di un SPL di rilevanza economica, il ricorso al mercato
per la gestione del servizio non è «efficace e utile» (comma 2 dell’art.
23-bis). Ciò è confermato dal comma 2 dell’art. 3 del d.P.R. 7 settembre
2010, n. 168 (Regolamento in materia di servizi pubblici locali di
rilevanza economica, a norma dell’articolo 23-bis, comma 10, del
decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni,
dalla legge 6 agosto 2008, n. 133), il quale stabilisce espressamente
che le «società a capitale interamente pubblico possono partecipare alle
procedure competitive ad evidenza pubblica di cui all’articolo 23-bis,
comma 2, lettera a), sempre che non vi siano specifici divieti previsti
dalla legge».
8.2. – Tali conclusioni relative alla disciplina a regime influiscono
sulla soluzione della questione posta dalle ricorrenti circa
l’adeguatezza e la proporzionalità − dunque, la ragionevolezza − del
regime transitorio stabilito dalla normativa denunciata.
La relativa censura non può essere accolta, oltre che per le
considerazioni generali svolte nel punto precedente, anche per i
seguenti ulteriori argomenti, concernenti specificamente la disciplina
transitoria.
Al riguardo, anche a non voler considerare che, in caso di successione
di leggi, il legislatore ha ampia discrezionalità di modulare nel tempo
la disciplina introdotta, con l’unico limite della ragionevolezza (ex plurimis, sentenza n. 376 del 2008; ordinanze n. 40 del 2009 e n. 9 del
2006), va comunque rilevato che, nel caso di specie, il margine
temporale concesso dalla normativa censurata per la cessazione degli
affidamenti diretti esistenti è congruo e proporzionato all’entità ed
agli effetti delle modifiche normative introdotte e, dunque,
ragionevole. A tale conclusione si perviene agevolmente considerando la
seguente successione cronologica delle disposizioni di legge oggetto di
censura. Con riferimento al servizio idrico integrato, il comma 8 del
testo originario dell’art. 23-bis (entrato in vigore il 22 agosto 2008)
prevedeva la cessazione alla data del 31 dicembre 2010 delle concessioni
per le quali non sussistevano le peculiari caratteristiche di cui al
comma 3. Con riferimento ai settori diversi dal servizio idrico
integrato, lo stesso comma demandava la fissazione di una disciplina
transitoria ai regolamenti di delegificazione da adottare ai sensi della
lettera e) del comma 10, ma che non sono stati mai emanati. Il vigente
comma 8 dell’art. 23-bis (entrato in vigore il 26 settembre 2009)
disciplina ora il regime transitorio degli affidamenti non conformi a
quanto previsto dai commi 2 e 3 dello stesso articolo, con una cadenza
differenziata, a seconda delle varie ipotesi, a partire dal 31 dicembre
2010 e sino al 31 dicembre 2012, termine, quest’ultimo, successivamente
modificato, a decorrere dal 25 novembre 2009, in quello del 31 dicembre
2015. Tali ampi margini temporali assicurano una concreta possibilità di
attenuare le conseguenze economiche negative della cessazione anticipata
della gestione e, pertanto, escludono la possibilità di invocare
quell’incolpevole affidamento del gestore nella durata naturale del
contratto di servizio che, solo, potrebbe determinare una possibile
irragionevolezza della norma.
9. – Il quarto tema generale posto dalle questioni promosse, da trattare
in via preliminare, attiene all’individuazione della competenza
legislativa regionale o statale nella determinazione della rilevanza
economica dei SPL. Infatti, una volta accertato che la disciplina delle
modalità di affidamento della gestione dei servizi pubblici locali di
rilevanza economica rientra nell’ambito della competenza legislativa
esclusiva dello Stato, resta ancora da verificare se allo Stato competa,
in via esclusiva, anche il potere di indicare le condizioni per le quali
debba ritenersi sussistente detta «rilevanza economica» oppure se la
decisione di attribuire al servizio locale una siffatta qualificazione
sia riservata, dal diritto comunitario o comunque dalla Costituzione,
alla Regione od all’ente locale.
A tal fine è necessario, innanzitutto, valutare la portata della nozione
di «rilevanza economica» nel sistema della normativa statale sui SPL;
successivamente, individuare il fondamento costituzionale di tale
nozione e, infine, trarre le conclusioni in ordine alla competenza a
determinare la sussistenza dell’indicata «rilevanza».
9.1. – Quanto al primo profilo, va osservato che né il censurato art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, in entrambe le sue versioni, né l’art. 113 TUEL, nel disciplinare l’affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali «di rilevanza economica», forniscono una esplicita definizione di tale «rilevanza». Tuttavia, lo stesso art. 23-bis fornisce all’interprete alcuni elementi utili per giungere a tale definizione, precisando che:
a) l’articolo ha come fine (tra l’altro) di favorire la più ampia diffusione dei princìpi di concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di tutti «gli operatori economici interessati alla gestione di servizi pubblici di interesse generale in ambito locale» (comma 1);
b) la presenza di situazioni tali da non permettere – in relazione alle caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento – «un efficace ed utile ricorso al mercato del servizio», non rende il servizio stesso privo di rilevanza economica, ma ne consente solo l’affidamento della gestione con modalità derogatorie rispetto a quelle ordinarie (comma 3);
c) la «rilevanza economica» dei servizi non ha nulla a che vedere con le soglie oltre le quali gli affidamenti dei medesimi servizi «assumono rilevanza» ai fini dell’espressione del parere preventivo che l’AGCM deve rendere in ordine alla scelta dell’ente locale di affidare la gestione di un servizio pubblico «di rilevanza economica» secondo modalità derogatorie rispetto a quelle ordinarie (commi 4 e 4-bis, nella versione vigente).
Dall’evidente omologia posta da tale articolo tra «servizi pubblici
locali di rilevanza economica» e «servizi pubblici di interesse generale
in ambito locale» si desume, innanzitutto, che la nozione di «servizio
pubblico locale di rilevanza economica» rimanda a quella, piú ampia, di
«servizio di interesse economico generale» (SIEG), impiegata
nell’ordinamento comunitario e già esaminata al punto 6. Del resto,
questa Corte, con la sentenza n. 272 del 2004, aveva già sottolineato
l’omologia esistente anche tra la nozione di «rilevanza economica»,
utilizzata nell’art. 113-bis TUEL (relativo ai servizi pubblici locali
«privi di rilevanza economica» e dichiarato costituzionalmente
illegittimo dalla stessa sentenza), e quella comunitaria di «interesse
economico generale», interpretata anche dalla Commissione europea nel
Libro verde sui servizi di interesse generale del 21 maggio 2003. In
particolare, secondo le indicazioni fornite dalla giurisprudenza
comunitaria e dalla Commissione europea, per «interesse economico
generale» si intende un interesse che attiene a prestazioni dirette a
soddisfare i bisogni di una indifferenziata generalità di utenti e, al
tempo stesso, si riferisce a prestazioni da rendere nell’esercizio di
un’attività economica, cioè di una «qualsiasi attività che consista
nell’offrire beni o servizi su un determinato mercato», anche potenziale
(sentenza Corte di giustizia UE, 18 giugno 1998, causa C-35/96,
Commissione c. Italia, e Libro verde sui servizi di interesse generale
del 21 maggio 2003, § 2.3, punto 44) e, quindi, secondo un metodo
economico, finalizzato a raggiungere, entro un determinato lasso di
tempo, quantomeno la copertura dei costi. Si tratta dunque di una
nozione oggettiva di interesse economico, riferita alla possibilità di
immettere una specifica attività nel mercato corrispondente, reale o
potenziale.
Se si ragiona sulla base di una siffatta ampia nozione comunitaria di
interesse economico, è agevole rilevare che gli indici empirici di tale
interesse – come lo scopo lucrativo, l’assunzione dei rischi
dell’attività, l’incidenza del finanziamento pubblico – talvolta
impiegati dalla Corte di giustizia UE (sentenza 22 maggio 2003,
C-18/2001, Korhonen e.a.) e richiamati anche da questa Corte (sentenza
n. 272 del 2004) possono essere utili solo con riferimento ad un
servizio già esistente sul mercato, per accertare se l’attività svolta
sia da considerare economica. Ciò però non significa che l’economicità
dell’interesse si debba determinare ex post, esclusivamente in base a
tali indici, e cioè a séguito di una scelta discrezionale dell’ente
locale competente circa le modalità di gestione del servizio. Al
contrario, nel diverso caso in cui si debba immettere nel mercato un
servizio pubblico – e, quindi, si debba accertare se e come applicare le
regole concorrenziali e concorsuali comunitarie per l’affidamento della
sua gestione – occorre necessariamente prendere in considerazione la
possibilità dell’apertura di un mercato, obiettivamente valutata secondo
un giudizio di concreta realizzabilità, a prescindere da ogni soggettiva
determinazione dell’ente al riguardo. È vero che il diritto comunitario
lascia qualche spazio in materia alla scelta degli Stati membri,
riservando loro, sia pure in via di eccezione, il potere di derogare
alle regole del Trattato relative alla concorrenza e agli aiuti di
Stato, ove tali regole – salvo errori manifesti da parte degli Stati
stessi – siano ritenute ostative al perseguimento della speciale
missione e delle finalità sociali del servizio. Tuttavia, il potere di
deroga presuppone la sussistenza dell’interesse economico del servizio
stesso, esercitandosi tale potere proprio nell’ambito dei SIEG, e cioè
di servizi che sono, per definizione ed obiettivamente, di «interesse
economico» perché idonei ad influenzare un assetto concorrenziale in
atto o in fieri.
Analogamente a quanto visto a proposito del diritto comunitario, le
disposizioni censurate non fanno esclusivo riferimento ad un servizio
locale operante in un mercato già esistente, ma riguardano servizi
dotati di mera «rilevanza» economica e, quindi, anche servizi ancora da
organizzare e da immettere sul mercato. Infatti, esse, in armonia con
l’indicata nozione comunitaria di interesse economico, evidenziano le
due seguenti fondamentali caratteristiche della nozione di «rilevanza»
economica:
a) che l’immissione del servizio possa avvenire in un mercato anche solo potenziale, nel senso che, per l’applicazione dell’art. 23-bis, è condizione sufficiente che il gestore possa immettersi in un mercato ancora non esistente, ma che abbia effettive possibilità di aprirsi e di accogliere, perciò, operatori che agiscano secondo criteri di economicità;
b) che l’esercizio dell’attività avvenga con metodo economico, nel senso che essa, considerata nella sua globalità, deve essere svolta in vista quantomeno della copertura, in un determinato periodo di tempo, dei costi mediante i ricavi (di qualsiasi natura questi siano, ivi compresi gli eventuali finanziamenti pubblici).
Tale impostazione − consequenziale alla scelta legislativa di promuovere
la concorrenza “per” il mercato della gestione dei servizi – emerge
nettamente, in particolare, dai commi 3, 4 e 4-bis, dell’art. 23-bis, i
quali possono essere interpretati soltanto nel senso che i servizi
pubblici locali non cessano di avere «rilevanza economica» per il solo
fatto che sia formulabile una prognosi di inefficacia o inutilità del
semplice ricorso al mercato, con riferimento agli obiettivi pubblici
perseguiti dall’ente locale. Evidentemente, anche per il legislatore
nazionale, come per quello comunitario, la rilevanza economica sussiste
pure quando, per superare le particolari difficoltà del contesto
territoriale di riferimento e garantire prestazioni di qualità anche ad
una platea di utenti in qualche modo svantaggiati, non sia sufficiente
l’automaticità del mercato, ma sia necessario un pubblico intervento o
finanziamento compensativo degli obblighi di servizio pubblico posti a
carico del gestore, sempre che sia concretamente possibile creare un
«mercato a monte», e cioè un mercato «in cui le imprese contrattano con
le autorità pubbliche la fornitura di questi servizi» agli utenti (così
– si è visto al punto 6.1. – si esprime la Commissione europea nel
citato Libro verde al punto 44).
Dall’evidenziata portata oggettiva delle nozioni in esame e dalla
indicata sufficienza di un mercato solo potenziale consegue l’erroneità
delle interpretazioni volte a dare alle medesime nozioni un carattere
meramente soggettivo e, in particolare, di quell’interpretazione – fatta
propria da alcune ricorrenti – secondo cui si avrebbe rilevanza
economica solo alla duplice condizione che un mercato del servizio
sussista effettivamente e che l’ente locale decida a sua discrezione di
finanziare il servizio con gli utili ricavati dall’esercizio di impresa
in quel mercato.
9.2. – Quanto al secondo profilo da esaminare, relativo al fondamento costituzionale della legge statale che fissa il contenuto della suddetta nozione oggettiva di «rilevanza economica», va preso atto che detta nozione, al pari di quella omologa di «interesse economico» propria del diritto comunitario, va utilizzata, nell’ambito della disciplina del mercato dei servizi pubblici, quale criterio discretivo per l’applicazione delle norme concorrenziali e concorsuali comunitarie in materia di affidamento della gestione di tali servizi (come, del resto, esplicitamente affermato dal comma 1 dell’art. 23-bis). Ne deriva che, proprio per tale suo ambito di utilizzazione, la determinazione delle condizioni di rilevanza economica è riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato in tema di «tutela della concorrenza», ai sensi del secondo comma, lettera e), dell’art. 117 Cost. Poiché l’ordinamento comunitario esclude che gli Stati membri, ivi compresi gli enti infrastatuali, possano soggettivamente e a loro discrezione decidere sulla sussistenza dell’interesse economico del servizio, conseguentemente il legislatore statale si è adeguato a tale principio dell’ordinamento comunitario nel promuovere l’applicazione delle regole concorrenziali e ha escluso che gli enti infrastatuali possano soggettivamente e a loro discrezione decidere sulla sussistenza della rilevanza economica del servizio (rilevanza che, come più volte sottolineato, corrisponde per il diritto interno all’interesse economico considerato dal diritto comunitario).
10. – Alla luce dei nuclei tematici evidenziati al punto 2., occorre ora
esaminare le singole questioni proposte dalle Regioni ricorrenti.
A tale proposito, va preliminarmente rilevato che, quanto ai ricorsi
delle Regioni aventi ad oggetto il testo vigente dell’art. 23-bis,
l’Avvocatura generale dello Stato ha formulato due eccezioni di
inammissibilità.
10.1. – In primo luogo si eccepisce, in via generale, che «la Regione
non può lamentare genericamente l’illegittimità costituzionale di leggi
statali, ovvero la contrarietà delle stesse all’ordinamento comunitario
senza indicare specificamente la lesione di una competenza ad essa
attribuita».
L’eccezione deve essere rigettata per la sua genericità, in quanto lo
Stato non specifica a quali delle questioni sollevate dalle Regioni si
riferisca.
10.2. – La difesa dello Stato afferma, in secondo luogo, che, «in
riferimento alle questioni ex adverso sollevate sulla mancata e/o
inesatta applicazione dei principi comunitari in materia di servizi
pubblici locali, si ritiene che la doglianza sia mal posta in termini di
incostituzionalità», in quanto, «qualora codesta Corte dovesse ravvisare
l’esigenza di assicurare una uniforme interpretazione del diritto
comunitario, la questione, ai sensi dell’art. 234 del Trattato CE,
dovrebbe essere preventivamente oggetto di un rinvio pregiudiziale alla
Corte di giustizia UE».
L’eccezione deve essere rigettata, perché nei giudizi principali le
Regioni possono sempre porre alla Corte questioni di costituzionalità
nelle quali siano evocate, quali parametri interposti, norme di diritto
comunitario. Spetterà semmai alla Corte costituzionale – come precisato
nella sentenza n. 102 del 2008 e nell’ordinanza n. 103 del 2008 –
effettuare il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia nel caso in
cui ritenga che l’interpretazione del diritto comunitario non sia
chiara. Peraltro, nel caso di specie – come visto al punto 6. –
l’interpretazione delle disposizioni comunitarie evocate dalle
ricorrenti quali parametri interposti di legittimità costituzionale è
sufficientemente chiarita, nel senso che esse non ostano alla normativa
censurata, dalla consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia UE
già citata.
11. – Le questioni riconducibili al primo dei sopra indicati nuclei tematici (trattato al punto 6.) – che attiene al rapporto tra le disposizioni censurate e la disciplina dei SPL desumibile dall’ordinamento dell’Unione europea e dalla Carta europea dell’autonomia locale – sono poste dalle Regioni Liguria, Emilia-Romagna, Umbria, Piemonte, Toscana. La Regione Marche propone una questione che involge, allo stesso tempo, sia tale nucleo tematico sia il quarto dei nuclei tematici (analizzato al punto 9.), relativo alla determinazione della rilevanza economica dei SPL.
11.1. – La Regione Piemonte impugna i commi 1, 2 e 3 dell’art. 23-bis
del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo originario (ricorso n. 77
del 2008), e i commi 2, 3 e 4 dello stesso art. 23-bis, nel testo
modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009
(ricorso n. 16 del 2010), nonché il comma 1-ter dello stesso art. 15 del
decreto-legge n. 135 del 2009, in riferimento all’art. 117, primo comma,
Cost., sostenendo che il diritto comunitario non consente che il
legislatore nazionale spinga la tutela della concorrenza fino a
comprimere il «principio di libertà degli individui o di autonomia – del
pari costituzionale – degli enti territoriali (artt. 5, 117, 118, Cost.)
di mantenere la capacità di operare ogni qualvolta fanno la scelta che
ritengono più opportuna: cioè se fruire dei vantaggi economici offerti
dal mercato dei produttori oppure se procedere a modellare una propria
struttura capace di diversamente configurare l’offerta delle prestazioni
di servizio pubblico».
La questione è inammissibile perché generica
Infatti, la ricorrente, limitandosi a richiamare il diritto comunitario
nel suo complesso, non specifica le norme comunitarie da utilizzare come
parametri interposti. E ciò, a prescindere dal fatto che il diritto
comunitario consente in ogni caso al legislatore interno di prevedere
limitazioni dell’affidamento diretto più estese di quelle comunitarie
(che consistono solamente nella totale partecipazione pubblica, nel
cosiddetto “controllo analogo”, nella preponderanza dell’attività svolta
in favore dell’ente controllante). Come si è visto al punto 6.1., esso
infatti, nel prevedere solo regole “minime” pro concorrenziali, lascia
al legislatore nazionale un ampio margine di apprezzamento, con la
conseguenza che nelle ipotesi – come quella di specie – in cui
quest’ultimo prevede condizioni ulteriori aventi lo stesso “verso” del
diritto comunitario, deve escludersi il prospettato contrasto.
11.2. – Le Regioni Toscana ed Emilia-Romagna impugnano diversi commi dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 per violazione del diritto comunitario.
11.2.1. – In particolare, la Regione Toscana censura i commi 2, 3 e 4
dell’art. 23-bis, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del
decreto-legge n. 135 del 2009, in riferimento all’art. 117, primo,
secondo e quarto comma, Cost., affermando che l’ordinamento comunitario
ammette espressamente la possibilità di fornire i servizi pubblici con
un’organizzazione propria, in alternativa all’affidamento ad imprese
terze, con la conseguenza che le disposizioni censurate non trovano
fondamento né nella riserva costituzionale alla legislazione statale
esclusiva della materia «tutela della concorrenza» (art. 117, secondo
comma, lettera e, Cost.), né nella disciplina comunitaria.
La stessa Regione censura anche il comma 8 dell’art. 23-bis, nel testo
modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, il
quale prevede che gli affidamenti diretti già in essere al momento
dell’entrata in vigore della nuova normativa cessano in date successive,
a partire dal 31 dicembre 2011, a seconda delle diverse tipologie degli
affidamenti stessi. Per la ricorrente, tale comma viola l’art. 117,
primo, comma Cost., perché, nella parte in cui impone al 31 dicembre
2011 la cessazione di tutte le gestioni in house si pone in contrasto
con il diritto comunitario, che invece consente la prosecuzione di tali
gestioni.
La Regione Emilia-Romagna (ricorso n. 13 del 2010) impugna, in
riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., lo stesso comma 8,
lamentando che «nel diritto comunitario il modello organizzativo
dell’autoproduzione dei servizi attraverso affidamenti in house è stato
ritenuto in linea con i principi del Trattato, tra cui, come noto, vi è
quello della tutela e promozione della concorrenza».
Le questioni sono inammissibili per genericità, in quanto le ricorrenti
non specificano le norme comunitarie che sarebbero state violate, e per
perplessità, in quanto le stesse ricorrenti affermano che l’ordinamento
comunitario consente e non impone agli enti locali di continuare a
fornire i servizi pubblici attraverso le gestioni in house già in
essere. E ciò, a prescindere dal fatto che, per le ragioni esposte ai
punti 6.1. e 11.1., il diritto comunitario consente in ogni caso al
legislatore interno di prevedere limitazioni dell’affidamento diretto
più estese di quelle comunitarie.
11.2.2. – La Regione Emilia-Romagna (ricorso n. 13 del 2010) impugna, in
riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., il comma 8 dell’art.
23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo modificato dall’art.
15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, anche sotto un diverso
profilo.
Afferma la ricorrente che il diritto comunitario prevede che la società
in house sia tenuta a svolgere a favore degli enti di riferimento solo
l’attività prevalente, ben potendo destinare l’attività residua anche al
mercato, mentre «la norma in questione trasforma il concetto di
“prevalenza” dell’attività in “attività esclusiva”, costringendo il
soggetto titolare dell’affidamento diretto (non solo in house provider)
a svolgere la propria attività esclusivamente nei confronti degli enti
affidanti».
La questione è inammissibile per genericità, in quanto la ricorrente non
specifica le norme comunitarie che sarebbero state violate. E ciò, a
prescindere dal fatto che, per le ragioni esposte ai punto 6.1. e 11.1.,
il diritto comunitario consente in ogni caso al legislatore interno di
prevedere limitazioni dell’affidamento diretto piú estese di quelle
comunitarie.
11.3. – Lo stesso comma 8 dell’art. 23-bis, nel testo modificato
dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, è impugnato
anche dalle Regioni Liguria (ricorso n. 12 del 2010) e Umbria, in
riferimento all’art. 117, primo comma Cost., «per contrasto con la Carta
europea dell’autonomia locale».
La questione è inammissibile per genericità, in quanto le ricorrenti non
specificano quali disposizioni della Carta europea dell’autonomia locale
sarebbero state violate.
11.4. – Come sopra accennato, la Regione Marche solleva una questione
ascrivibile, nello stesso tempo, a due nuclei tematici: al quarto,
perché assume che rientra nella competenza propria e degli enti locali
decidere se il servizio idrico integrato abbia o no rilevanza economica;
al primo, perché afferma che tale riserva di competenza è garantita dal
diritto comunitario e che, pertanto, la normativa denunciata, nel porre
limiti all’affidamento del servizio non previsti dalla normativa
comunitaria, si pone con questa in contrasto.
In particolare, la Regione impugna – per il caso, appunto, in cui il
comma 1-ter dell’art. 15 del decreto-legge n. 135 del 2009 non possa
interpretarsi nel senso che il servizio idrico integrato è sottoposto
alla disciplina dell’art. 23-bis solo nei casi in cui «gli enti
competenti abbiano scelto di organizzarlo in modo da conferirvi
rilevanza economica» – i commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis del
decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo modificato dall’art. 15, comma
1, del decreto-legge n. 135 del 2009, e l’art. 15, comma 1-ter, dello
stesso decreto-legge n. 135 del 2009, nella parte in cui si riferiscono
al servizio idrico integrato.
Le disposizioni censurate – già sinteticamente riportate al punto 1.1. –
prevedono che:
1) «Il conferimento della gestione dei servizi pubblici locali avviene, in via ordinaria:
a) a favore di imprenditori o di società in qualunque forma costituite individuati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, nel rispetto dei principi del Trattato che istituisce la Comunità europea e dei principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento e proporzionalità;
b) a società a partecipazione mista pubblica e privata, a condizione che la selezione del socio avvenga mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, nel rispetto dei principi di cui alla lettera a), le quali abbiano ad oggetto, al tempo stesso, la qualità di socio e l’attribuzione di specifici compiti operativi connessi alla gestione del servizio e che al socio sia attribuita una partecipazione non inferiore al 40 per cento» (comma 2 dell’art. 23-bis);2) «In deroga alle modalità di affidamento ordinario di cui al comma 2, per situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato, l’affidamento può avvenire a favore di società a capitale interamente pubblico, partecipata dall’ente locale, che abbia i requisiti richiesti dall’ordinamento comunitario per la gestione cosiddetta “in house”e, comunque, nel rispetto dei principi della disciplina comunitaria in materia di controllo analogo sulla società e di prevalenza dell’attività svolta dalla stessa con l’ente o gli enti pubblici che la controllano» (comma 3 dell’art. 23-bis);
3) «Nei casi di cui al comma 3, l’ente affidante deve dare adeguata pubblicità alla scelta, motivandola in base ad un’analisi del mercato e contestualmente trasmettere una relazione contenente gli esiti della predetta verifica all’Autorità garante della concorrenza e del mercato per l’espressione di un parere preventivo, da rendere entro sessanta giorni dalla ricezione della predetta relazione. Decorso il termine, il parere, se non reso, si intende espresso in senso favorevole» (comma 4 dell’art. 23-bis);
4) «Tutte le forme di affidamento della gestione del servizio idrico integrato di cui all’articolo 23-bis del citato decreto-legge n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 133 del 2008, devono avvenire nel rispetto dei princìpi di autonomia gestionale del soggetto gestore e di piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche, il cui governo spetta esclusivamente alle istituzioni pubbliche, in particolare in ordine alla qualità e prezzo del servizio, in conformità a quanto previsto dal decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, garantendo il diritto alla universalità ed accessibilità del servizio» (art. 15, comma 1-ter, del decreto-legge n. 135 del 2009).
La ricorrente lamenta la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.,
per il tramite degli artt. 14 e 106 TFUE, i quali così dispongono:
«fatti salvi l’articolo 4 del trattato sull’Unione europea e gli
articoli 93, 106 e 107 del presente trattato, in considerazione
dell’importanza dei servizi di interesse economico generale nell’ambito
dei valori comuni dell’Unione, nonché del loro ruolo nella promozione
della coesione sociale e territoriale, l’Unione e gli Stati membri,
secondo le rispettive competenze e nell’ambito del campo di applicazione
dei trattati, provvedono affinché tali servizi funzionino in base a
principi e condizioni, in particolare economiche e finanziarie, che
consentano loro di assolvere i propri compiti.» (art. 14); «Le imprese
incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o
aventi carattere di monopolio fiscale sono sottoposte alle norme dei
trattati, e in particolare alle regole di concorrenza, nei limiti in cui
l’applicazione di tali norme non osti all’adempimento, in linea di
diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata. Lo sviluppo
degli scambi non deve essere compromesso in misura contraria agli
interessi dell’Unione.» (art. 106).
Per la Regione, le disposizioni censurate si pongono in contrasto con
gli evocati parametri, perché, conformando il servizio idrico come
servizio necessariamente a rilevanza economica e ponendo limitazioni
alle condizioni di affidamento della gestione di tale servizio non
contemplate dal diritto comunitario, impongono l’applicazione delle
regole del mercato interno in via generale per tutto il territorio
nazionale e negano, cosí, alle Regioni e agli enti locali quel potere di
effettuare caso per caso una valutazione concreta della rilevanza
economica del servizio stesso, che, invece, la normativa comunitaria
riserva loro.
La questione non è fondata.
I parametri evocati non fissano le condizioni di uso dell’espressione,
in essi utilizzata, di «interesse economico generale» – espressione che
la stessa ricorrente ammette essere un sinonimo di «rilevanza economica»
– e non specificano se la sussistenza di tale interesse possa essere
discrezionalmente stabilita dagli Stati membri o dagli enti
infrastatuali. Tuttavia, come più diffusamente esposto ai punti 6.1. e
9., lo spazio interpretativo lasciato aperto dai suddetti articoli del
Trattato è stato colmato dalla giurisprudenza comunitaria e dalla
Commissione europea, secondo le quali «l’interesse economico generale»,
in quanto funzionale ad una disciplina comunitaria diretta a favorire
l’assetto concorrenziale dei mercati, è riferito alla possibilità di
immettere una specifica attività nel mercato corrispondente (reale o
potenziale) ed ha, pertanto, natura essenzialmente oggettiva. Ne deriva
che (secondo quanto meglio osservato al punto 9.2.) l’ordinamento
comunitario, in considerazione della rilevata portata oggettiva della
nozione di «interesse economico», vieta che gli Stati membri e gli enti
infrastatuali possano soggettivamente e a loro discrezione decidere
circa la sussistenza di tale interesse. In particolare, la previsione,
da parte delle disposizioni censurate, di condizioni per l’affidamento
diretto del servizio pubblico locale piú restrittive di quelle previste
dall’ordinamento comunitario non integra alcuna violazione dei princìpi
comunitari della concorrenza, perché tali princìpi costituiscono solo un
minimo inderogabile per gli Stati membri, i quali hanno la facoltà di
dettare una disciplina più rigorosamente concorrenziale, come quella di
specie, che, restringendo le eccezioni all’applicazione della regola
della gara ad evidenza pubblica – posta a tutela della concorrenza –,
rende più estesa l’applicazione di tale regola.
Con riferimento alla fattispecie in esame, il legislatore statale, in
coerenza con la menzionata normativa comunitaria e sull’incontestabile
presupposto che il servizio idrico integrato si inserisce in uno
specifico e peculiare mercato (come riconosciuto da questa Corte con la
sentenza n. 246 del 2009), ha correttamente qualificato tale servizio
come di rilevanza economica, conseguentemente escludendo ogni potere
degli enti infrastatuali di pervenire ad una diversa qualificazione.
11.5. – I commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del
2008, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n.
135 del 2009, sono censurati, in riferimento all’art. 117, primo comma,
Cost., dalle Regioni Liguria (ricorso n. 12 del 2010) e Umbria, nonché,
limitatamente al comma 3, dalla Regione Emilia-Romagna (ricorso n. 13
del 2010).
Le ricorrenti lamentano la violazione dell’evocato parametro, per il
tramite della Carta europea dell’autonomia locale e, in particolare,
delle seguenti disposizioni:
a) l’art. 3, comma 1, secondo cui «per autonomia locale, s’intende il diritto e la capacità effettiva, per le collettività locali, di regolamentare ed amministrare nell’ambito della legge, sotto la loro responsabilità, e a favore delle popolazioni, una parte importante di affari pubblici»;
b) l’art. 4, comma 2, secondo cui «le collettività locali hanno, nell’ambito della legge, ogni più ampia facoltà di prendere iniziative proprie per qualsiasi questione che non esuli dalla loro competenza o sia assegnata ad un’altra autorità»;
c) l’art. 4, comma 4, secondo cui «le competenze affidate alle collettività locali devono di regola essere complete ed integrali».
Sostengono le ricorrenti che, una volta che si riconosca che il servizio
idrico è parte delle funzioni fondamentali dei Comuni, «sembra evidente
che solo ad essi spetta la decisione sul migliore modo di organizzarlo»
e il legislatore non può «configurare come eccezionale e soggetta a
specifici aggravi procedimentali la scelta di assumere essi stessi la
responsabilità della gestione diretta del servizio».
Le questioni non sono fondate.
Infatti, come
più diffusamente osservato al punto 6.2.:
a) con riferimento alla gestione diretta, il denunciato contrasto con la Carta non è ipotizzabile rispetto alle norme censurate, ma solo, eventualmente, rispetto ai non censurati artt. 35 della legge n. 448 del 2001 e 14 del decreto-legge n. 269 del 2003;
b) il presupposto da cui muovono le ricorrenti che il servizio idrico costituisca una delle funzioni fondamentali dell’ente pubblico è privo di fondamento (sentenze n. 307 del 2009 e n. 272 del 2004);
c) gli evocati articoli della Carta europea dell’autonomia locale non hanno natura precettiva e sono prevalentemente definitori (art. 3, comma 1), programmatici (art. 4, comma 2) e, comunque, generici (art. 4, comma 4).
Inoltre, la stessa Carta, al comma 1 dell’evocato art. 4, afferma, con previsione di carattere generale, che «le competenze di base delle collettività locali sono stabilite dalla Costituzione o dalla legge», con ciò rinviando alla normativa nazionale la definizione del quadro generale delle competenze.
12. – Le questioni che attengono al secondo dei sopra indicati nuclei tematici, relativo all’individuazione della sfera di competenza in cui collocare la normativa denunciata e già esaminato al punto 7, sono poste dalle Regioni Piemonte, Liguria, Toscana, Umbria, Marche, Emilia-Romagna e Puglia. Le ricorrenti contestano la riconducibilità di diverse disposizioni dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 – sia nella formulazione originaria sia in quella vigente – nonché del decreto-legge n. 135 del 2009 alla competenza legislativa esclusiva statale in materia di «tutela della concorrenza». La normativa denunciata si collocherebbe, per la Regione Marche, nell’ambito della potestà regolamentare degli enti locali di cui all’art. 117, sesto comma, Cost.; per la Regione Puglia, nell’ambito della competenza regionale concorrente in materia di tutela della salute e alimentazione; nonché, per le altre ricorrenti, nell’ambito della materia dei servizi pubblici locali, di competenza regionale residuale.
12.1. – Occorre innanzitutto esaminare le questioni che, in ragione della loro formulazione, non consentono un esame nel merito.
12.1.1. – Le Regioni Liguria (ricorso n. 12 del 2010) e Umbria impugnano
il comma 8 dell’art. 23-bis, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1,
del decreto-legge n. 135 del 2009, in riferimento all’art. 117, secondo
comma, Cost., «per erronea interpretazione dei confini dei poteri
statali ivi previsti».
La questione è inammissibile per genericità, perché le ricorrenti non
specificano a quali tra le molteplici competenze dello Stato
disciplinate dall’art. 117, secondo comma, Cost. si debba far
riferimento ai fini dello scrutinio di costituzionalità.
12.1.2. – Le stesse Regioni Liguria e Umbria impugnano il medesimo comma
8 dell’art. 23-bis, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del
decreto-legge n. 135 del 2009 anche in riferimento all’art. 118, primo e
secondo comma, Cost., «per violazione del principio di sussidiarietà e
della titolarità comunale di funzioni proprie».
Anche tale questione è inammissibile per genericità, perché le
ricorrenti non specificano in cosa consista la dedotta violazione del
principio di sussidiarietà, né quali siano le funzioni proprie dei
Comuni cui fanno riferimento.
12.1.3. – Il comma 8 dell’art. 23-bis, nel testo modificato dall’art.
15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, è censurato anche dalla
Regione Emilia-Romagna, in quanto lesivo del «principio di pluralismo
paritario istituzionale, in violazione degli artt. 114 e 118 Cost.» e
dell’art. 117, quarto comma, Cost., perché contiene una disciplina così
rigida da annullare qualsiasi autonomia esercitabile in materia e lede,
perciò, il principio di sussidiarietà.
La questione è inammissibile per genericità, perché la ricorrente si
limita ad affermare che la norma denunciata annulla «qualsiasi autonomia
esercitabile in materia», senza indicare quali siano le competenze
costituzionali che ritiene lese e senza spiegare le ragioni della
prospettata lesione.
12.2. – Le questioni attinenti allo stesso nucleo tematico che, invece, debbono essere scrutinate nel merito vanno distinte tra quelle che riguardano:
a) la disciplina in generale del SPL, a regime e transitoria (commi 1, 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis, nel testo originario e in quello vigente, nonché comma 8 dello stesso articolo, nel testo vigente);
b) la determinazione delle soglie minime per l’assoggettamento al parere dell’AGCM (comma 4-bis dell’art. 23-bis, nel testo vigente);
c) la determinazione dei bacini di gara (comma 7 dell’art. 23-bis, nel testo originario);
d) l’assoggettamento al patto di stabilità e la gestione associata dei servizi (comma 10, lettere a e b, nel testo originario e vigente dell’art. 23-bis).
Tali gruppi di questioni vanno esaminati separatamente.
12.3. – Il primo gruppo di questioni – attinente, come si è visto, alla competenza a disciplinare in generale i servizi pubblici locali ed avente ad oggetto i commi 1, 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis, nel testo originario e in quello vigente, nonché il comma 8 dello stesso articolo, nel testo vigente – è posto dalle Regioni Piemonte, Liguria, Toscana, Umbria, Marche ed Emilia-Romagna.
12.3.1. – La Regione Piemonte (ricorso n. 77 del 2008) censura i commi
1, 2 e 3 dell’art. 23-bis, nel testo originario.
Le disposizioni censurate, già sinteticamente riportate al punto 1.1.,
prevedono che:
a) «Le disposizioni del presente articolo disciplinano l’affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, in applicazione della disciplina comunitaria e al fine di favorire la più ampia diffusione dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di tutti gli operatori economici interessati alla gestione di servizi di interesse generale in ambito locale, nonché di garantire il diritto di tutti gli utenti alla universalità ed accessibilità dei servizi pubblici locali ed al livello essenziale delle prestazioni, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettere e) e m), della Costituzione, assicurando un adeguato livello di tutela degli utenti, secondo i principi di sussidiarietà, proporzionalità e leale cooperazione. Le disposizioni contenute nel presente articolo si applicano a tutti i servizi pubblici locali e prevalgono sulle relative discipline di settore con esse incompatibili» (comma 1);
b) «Il conferimento della gestione dei servizi pubblici locali avviene, in via ordinaria, a favore di imprenditori o di società in qualunque forma costituite individuati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, nel rispetto dei principi del Trattato che istituisce la Comunità europea e dei principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità» (comma 2);
c) «In deroga alle modalità di affidamento ordinario di cui al comma 2, per situazioni che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato, l’affidamento può avvenire nel rispetto dei principi della disciplina comunitaria» (comma 3).
La ricorrente sostiene che tali disposizioni violano l’art. 117, quarto comma, Cost., il quale attribuisce alle Regioni la competenza legislativa residuale in materia di pubblici servizi, perché, non permettendo alle Regioni di optare per affidamenti dei servizi in house anche nelle ipotesi diverse da quelle del comma 3, determinano, di fatto, una compressione delle loro attribuzioni costituzionali in materia; compressione non giustificabile sulla base dell’esercizio di competenze legislative esclusive dello Stato, in particolare in materia di tutela della concorrenza.
12.3.2. – La Regione Liguria (ricorso n. 72 del 2008) censura, oltre ai
commi 2 e 3 riportati al punto precedente, anche il comma 4 dell’art.
23-bis, nel testo originario, il quale prevede che: «Nei casi di cui al
comma 3, l’ente affidante deve dare adeguata pubblicità alla scelta,
motivandola in base ad un’analisi del mercato e contestualmente
trasmettere una relazione contenente gli esiti della predetta verifica
all’Autorità garante della concorrenza e del mercato e alle autorità di
regolazione del settore, ove costituite, per l’espressione di un parere
sui profili di competenza da rendere entro sessanta giorni dalla
ricezione della predetta relazione».
Ad avviso della ricorrente, le disposizioni impugnate violano l’art.
117, quarto comma, Cost., il quale attribuisce alle Regioni la
competenza legislativa residuale in materia di pubblici servizi, per
motivi analoghi a quelli formulati dalla Regione Piemonte al punto
precedente.
12.3.3. – La Regione Piemonte (ricorso n. 77 del 2008) censura i commi 3 e 4 dell’art. 23-bis, nel testo originario, sostenendo che essi violano l’art. 117, quarto e sesto comma, «per avere il legislatore statale invaso la sfera di competenza normativa della Regione Piemonte e degli enti territoriali piemontesi nella definizione dello svolgimento delle funzioni loro attribuite […] poiché una parte della norma prevede una disciplina particolare del procedimento di affidamento della gestione a soggetti diversi dagli operatori di mercato, tra cui l’in house providing», disciplina che spetta alla competenza legislativa regionale.
12.3.4. – La Regione Toscana censura i commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 2009, n. 166, in riferimento all’art. 117, secondo e quarto comma, Cost., perché esprimono una prevalenza della gestione esternalizzata dei servizi pubblici locali, in quanto intervengono nella materia dell’organizzazione della gestione di detti servizi, con una normativa di dettaglio, che non lascia margini all’autonomia del legislatore regionale, pur perseguendo finalità che esulano da profili strettamente connessi alla tutela della concorrenza.
12.3.5. – Le Regioni Liguria (ricorso n. 12 del 2010) e Umbria impugnano
– in riferimento all’art. 117, quarto comma, Cost. – i commi 2, 3 e 4
dell’art. 23-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, nel testo
vigente, sul rilievo che essi limitano la potestà legislativa regionale
di disciplinare il normale svolgimento del servizio pubblico da parte
dell’ente, sottoponendo la scelta dell’affidamento in house a vincoli
sia sostanziali (le «peculiari caratteristiche economiche, sociali,
ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento»)
che procedurali (l’onere di trasmettere una relazione contenente gli
esiti della predetta verifica all’Autorità garante della concorrenza e
del mercato e alle autorità di regolazione del settore).
Le stesse ricorrenti censurano i medesimi commi in riferimento l’art.
118, primo e secondo comma, Cost., sostenendo che essi, vietando lo
svolgimento diretto del servizio idrico, vanificano «la norma che
assegna, preferibilmente, le funzioni amministrative ai comuni (il
servizio idrico virtualmente rimane di spettanza dei comuni ma in
concreto viene assegnato ad altri soggetti; inoltre, la norma impugnata
toglie ai comuni una parte essenziale della funzione, cioè la
possibilità di scegliere la forma di gestione più adeguata)» e svuotano
il principio di sussidiarietà, perché si pongono in contrasto con il
principio secondo cui «i comuni “sono titolari di funzioni
amministrative proprie”».
12.3.6. – La Regione Marche impugna – per il caso in cui la Corte costituzionale non volesse accogliere la ricostruzione del servizio idrico integrato come riconducibile alla potestà regolamentare degli enti locali ex art. 117, sesto comma, Cost. – i commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, e l’art. 15, comma 1-ter, dello stesso decreto-legge n. 135 del 2009, nella parte in cui si riferiscono al servizio idrico integrato, affermando che essi violano l’art. 117, secondo comma, lettera e), e quarto comma, Cost., perché disciplinano illegittimamente la materia dei servizi pubblici locali, nella quale le Regioni hanno potestà legislativa residuale.
12.3.7. – La Regione Piemonte (ricorso n. 16 del 2010) impugna i commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, in riferimento all’art. 117, quarto comma, Cost., rilevando che essi recano una disciplina che non è riconducibile alla materia della tutela della concorrenza, né ad altre materie di competenza statale, ma alla potestà legislativa residuale delle Regioni.
12.3.8. – La Regione Emilia-Romagna (ricorso n. 13 del 2010) censura il
comma 3 dell’art. 23-bis citato, nel testo modificato dall’art. 15,
comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, perché esso, ammettendo la
modalità di affidamento del servizio direttamente a società in house
solo in via eccezionale, limita la potestà legislativa regionale di
disciplinare il normale svolgimento del servizio pubblico da parte
dell’ente, sottoponendo tale scelta a vincoli sia sostanziali che
procedurali e, di conseguenza, viola l’art. 117, quarto comma, Cost.
La stessa Regione impugna il medesimo comma in riferimento all’art. 118,
primo e secondo comma, Cost., perché, vietando lo svolgimento diretto
del servizio idrico, vanifica il principio per cui le funzioni
amministrative sono assegnate preferibilmente ai comuni e svuota il
principio di sussidiarietà, ponendosi in contrasto con il principio
secondo cui «i comuni “sono titolari di funzioni amministrative
proprie”».
12.3.9. – La Regione Piemonte (ricorso n. 16 del 2010) censura i commi 3 e 4 dell’art. 23-bis citato, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, sostenendo che essi violano l’art. 117, quarto e sesto comma, Cost., per motivi analoghi a quelli riportati al punto 12.3.3.
12.3.10. – La Regione Toscana impugna il comma 8 dell’art. 23-bis citato, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, in riferimento all’art. 117, primo comma, secondo comma, lettera e), e quarto comma Cost., lamentando che il legislatore statale, con la disciplina in esame, non ha limitato il proprio intervento agli aspetti più strettamente connessi alla tutela della concorrenza ed alla regolazione del mercato, ma è intervenuto, con una norma di dettaglio, sottraendo alle Regioni la libera determinazione se ricorrere o meno al mercato ai fini della gestione del servizio pubblico; determinazione che rientra nell’ambito del buon andamento dell’organizzazione dei servizi pubblici, che spetta alle Regioni ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost.
12.3.11. – Le Regioni Liguria (ricorso n. 12 del 2010) e Umbria
censurano il comma 8 dell’art. 23-bis citato, nel testo modificato
dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, in riferimento
all’art. 117, quarto comma, Cost., affermando che esso limita la potestà
legislativa regionale di disciplinare, anche sotto il profilo temporale,
il normale svolgimento del servizio pubblico da parte dell’ente,
sottoponendo tale scelta a vincoli sia sostanziali che procedurali e che
viola la potestà legislativa regionale piena in materia di servizi
locali e organizzazione degli enti locali».
Le stesse Regioni censurano, in subordine, il medesimo comma, per il
caso in cui «fosse ritenuta legittima l’imposizione di un regime
“ordinario” di affidamento del servizio all’esterno e la limitazione a
casi eccezionali di forme di gestione non concorrenziali», in
riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera e), e quarto comma,
Cost., lamentando che esso regola nel dettaglio le quantità, le modalità
e i tempi delle cessioni delle gestioni dei servizi.
12.3.12. – La Regione Emilia-Romagna (ricorso n. 13 del 2010) censura il comma 8 dell’art. 23-bis citato, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, in riferimento all’art. 117, quarto comma, Cost., sostenendo che esso incide sull’assetto del sistema regionale degli affidamenti, ledendo il ruolo della Regione, anche di tipo legislativo, nel definire la durata degli affidamenti medesimi.
12.3.13. – La Regione Piemonte (ricorso n. 16 del 2010) censura lo stesso comma 8 dell’art. 23-bis citato, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, in relazione agli artt. 5, 114, 117, secondo e sesto comma, 118, Cost., «anche con riferimento all’art. 3, Cost.», perché, «cancella d’un tratto la legittimità […] di tutte le gestioni di servizio pubblico in capo a società mista ove la gara per la scelta del socio privato – pure avvenuta con procedura conforme all’ordinamento europeo ed italiano – abbia avuto ad oggetto unicamente la partecipazione finanziaria», con conseguente lesione della competenza degli enti territoriali «sull’organizzazione degli stessi anche con riferimento ad enti strumentali controllati da tali enti territoriali o a partecipazioni di minoranza».
12.3.14. – Le questioni indicate ai punti da 12.3.1. a 12.3.13. non sono
fondate, per le ragioni ampiamente esposte al punto 7.
Si è visto, infatti, che la disciplina delle modalità di affidamento
della gestione dei servizi pubblici locali prevista dalle disposizioni
censurate afferisce alla materia «tutela della concorrenza», di
competenza legislativa esclusiva dello Stato.
12.3.15. – La Regione Puglia censura, in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., i commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, perché:
a) «limitano la potestà legislativa regionale di disciplinare il normale svolgimento del servizio pubblico da parte dell’ente e di gestire in proprio i servizi pubblici», attraverso vincoli sostanziali e procedurali, impedendo una previa valutazione comparativa da parte dell’amministrazione fra tutte le possibili opzioni di scelta della forma di gestione, «cioè se fruire dei vantaggi economici offerti dal mercato dei produttori oppure se procedere a modellare una propria struttura capace di diversamente configurare l’offerta delle prestazioni di servizio pubblico»;
b) non si limitano a stabilire principi fondamentali della materia, ma dettano «una disciplina articolata e specifica, invasiva delle competenze regionali anche in materia di regolazione del servizio idrico integrato», che sono ascrivibili all’evocato parametro «nella misura in cui quel servizio sia funzionalizzato e utilizzato a fini di alimentazione e di tutela della salute».
La stessa ricorrente censura altresì, in riferimento allo stesso
parametro, il comma 8 dell’art. 23-bis, nel testo modificato dall’art.
15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, perché, stabilendo che
cessano al 31 dicembre 2010 gli affidamenti rilasciati con procedure
diverse dall’evidenza pubblica salvo quelli conformi ai vincoli
ulteriori di istruttoria e motivazione previsti dalla nuova disciplina,
«parrebbe determinare per l’effetto la cessazione di tutti gli
affidamenti attribuiti secondo la disciplina previgente (d.lgs. n. 267
del 2000, art. 113, comma 5, lettera c), ponendo nell’incertezza
l’attuazione dei piani gestionali e di investimento, nonché i relativi
piani tariffari, travolgendo rapporti giuridici perfezionati ed in via
di esecuzione che le parti vogliono vedere procedere secondo la loro
scadenza naturale».
Le questioni non sono fondate, per erronea interpretazione del
parametro.
Infatti, la Regione muove dall’assunto che la materia dei servizi
pubblici locali sia riconducibile alla competenza legislativa
concorrente di cui all’art. 117, terzo comma, Cost. Tale parametro è del
tutto inconferente con la fattispecie in esame, perché esso non
costituisce il fondamento dell’invocata competenza legislativa regionale
in materia di servizi pubblici.
12.3.16. – La Regione Piemonte censura i commi 2, 3 e 4 dell’art.
23-bis, sia nel testo originario (ricorso n. 77 del 2008) che nel testo
vigente (ricorso n. 16 del 2010), in relazione ai parametri «dell’art.
117, commi primo, secondo, terzo, quarto, Cost. con riferimento agli
articoli 114, 117, sesto comma, e 118, commi primo e secondo, Cost.»,
perché ledono «l’autonomia costituzionale propria dell’intero sistema
degli enti locali», limitando la «capacità d’organizzazione e di
autonoma definizione normativa dello svolgimento delle funzioni di
affidamento dei servizi pubblici locali», in quanto la legislazione
statale può legittimamente imporre una determinata forma di gestione di
un servizio pubblico solo previa avocazione allo Stato della competenza
sull’organizzazione della gestione dei servizi «sinora considerati
locali (es. idrico integrato, raccolta dei rifiuti solidi urbani) sul
presupposto che l’esercizio unitario di tali servizi sia divenuto
ottimale solo a livello d’ambito statale (art. 118, primo comma,
Cost.)».
La questione non è fondata.
Essa si basa sull’assunto della ricorrente secondo cui il legislatore
statale può legittimamente disciplinare le forme di gestione di un
servizio pubblico locale solo previa avocazione allo Stato della
competenza amministrativa sull’organizzazione della gestione del
servizio stesso. Tale assunto non può essere condiviso, perché la
competenza legislativa esclusiva statale nella materia «tutela della
concorrenza» comprende anche la disciplina amministrativa relativa
all’organizzazione delle modalità di gestione dei servizi pubblici
locali, a prescindere dall’avocazione allo Stato di competenze
amministrative degli altri livelli territoriali di governo.
12.4. – Il secondo gruppo di questioni da esaminare nel merito –
attinenti sempre al nucleo tematico relativo all’ individuazione della
competenza legislativa a disciplinare i servizi pubblici locali –
concerne la determinazione delle soglie minime per l’assoggettamento al
parere dell’AGCM (comma 4-bis dell’art. 23-bis, nel testo vigente).
Detto gruppo si identifica nella questione promossa dalla Regione Emilia
Romagna con il ricorso n. 13 del 2010.
La ricorrente impugna il comma 4-bis dell’art. 23-bis del decreto-legge
n. 112 del 2008, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del
decreto-legge n. 135 del 2009, il quale stabilisce che «I regolamenti di
cui al comma 10 definiscono le soglie oltre le quali gli affidamenti di
servizi pubblici locali assumono rilevanza ai fini dell’espressione del
parere di cui al comma 4».
La Regione deduce che tale disposizione – affidando ad un regolamento
governativo il compito di individuare le soglie oltre le quali è
richiesto il parere dell’AGCM per le gestioni in house – viola l’art.
117, sesto comma, Cost., perché le determinazioni relative a tali soglie
non possono che essere assunte in sede regionale, entro limiti fissati
direttamente dalla legge statale. Infatti, sempre per la ricorrente, con
la fissazione delle suddette soglie, si determina un livello di
efficienza del servizio che può essere concretamente e correttamente
apprezzato solo a livello regionale e che è illegittimo demandare alla
fonte regolamentare, in mancanza di una competenza legislativa esclusiva
statale.
La questione non è fondata, perché le soglie cui fa riferimento la norma
censurata attengono alle modalità di affidamento dei servizi pubblici
locali, le quali afferiscono – come visto al punto 7 – alla materia
«tutela della concorrenza», di competenza legislativa esclusiva dello
Stato e non alla materia dei pubblici servizi. Ne deriva che lo Stato è
titolare anche della competenza regolamentare, in base al disposto
dell’evocato art. 117, sesto comma, Cost.
12.5. –Il terzo gruppo di questioni da esaminare nel merito e
riguardanti il nucleo tematico attinente all’individuazione della
competenza legislativa a disciplinare i servizi pubblici locali concerne
la determinazione dei bacini di gara (comma 7 dell’art. 23-bis, nel
testo originario).
Le Regioni Emilia-Romagna (ricorso n. 69 del 2008) e Liguria (ricorso n.
72 del 2008) impugnano il comma 7 dell’art. 23-bis del decreto-legge n.
112 del 2008, nella formulazione originaria, per violazione degli artt.
117, quarto comma, e 118, primo e secondo comma, Cost.
La disposizione censurata prevede che «Le regioni e gli enti locali,
nell’ambito delle rispettive competenze e d’intesa con la Conferenza
unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997,
n. 281, e successive modificazioni, possono definire, nel rispetto delle
normative settoriali, i bacini di gara per i diversi servizi, in maniera
da consentire lo sfruttamento delle economie di scala e di scopo e
favorire una maggiore efficienza ed efficacia nell’espletamento dei
servizi, nonché l’integrazione di servizi a domanda debole nel quadro di
servizi più redditizi, garantendo il raggiungimento della dimensione
minima efficiente a livello di impianto per piú soggetti gestori e la
copertura degli obblighi di servizio universale».
Le ricorrenti sostengono che la disciplina della dimensione di esercizio
dei servizi pubblici rientra nella potestà legislativa «della regione e
il condizionare l’esercizio di tale potestà e delle scelte
amministrative che essa esprime ad opera dello Stato viola sia la
potestà legislativa in sé considerata […], sia il principio di
sussidiarietà, non potendosi vedere alcuna ragione di centralizzazione
di tali scelte».
Le questioni non sono fondate.
La norma censurata disciplina la dimensione di esercizio dei servizi
pubblici, attribuendo alle Regioni e agli enti locali la competenza ad
individuare i bacini di gara per i diversi servizi nel rispetto della
legge statale. Come già affermato da questa Corte con la sentenza n. 246
del 2009, con specifico riferimento al servizio idrico integrato, la
disciplina dei bacini di gestione del servizio pubblico (e, pertanto,
anche dei bacini di gara) rientra nella potestà legislativa statale,
perché diretta a tutelare la concorrenza, attraverso il superamento
della frammentazione delle gestioni. Non trovano perciò applicazione,
nella specie, né l’art. 117, quarto comma, Cost., né l’art. 118 Cost.
12.6. – Il quarto gruppo di questioni da esaminare nel merito –
attinenti sempre al tema dell’individuazione della competenza
legislativa in ordine ai servizi pubblici locali – riguarda
l’assoggettamento al patto di stabilità e la gestione associata dei
servizi (comma 10, lettere a e b, nel testo originario e in quello
vigente dell’art. 23-bis).
Le Regioni Emilia-Romagna (ricorsi n. 69 del 2008 e n. 13 del 2010),
Liguria (ricorso n. 72 del 2008) e Piemonte (ricorso n. 77 del 2008)
impugnano il comma 10 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008
– il cui alinea prevede che «il Governo, su proposta del Ministro per i
rapporti con le regioni ed entro centottanta giorni dalla data di
entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto,
sentita la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto
legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, nonché
le competenti Commissioni parlamentari, adotta uno o più regolamenti di
delegificazione, ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23
agosto 1988, n. 400» – e formulano censure specifiche in relazione alle
lettere a) e b) di detto comma. Per quanto qui rileva, tali lettere
stabiliscono – sia nella versione originaria, sia in quella,
sostanzialmente coincidente, modificata dall’art. 15, comma 1, del
decreto-legge n. 135 del 2009 – , che i suddetti regolamenti statali
prevedano: l’assoggettamento dei soggetti affidatari diretti di servizi
pubblici locali al patto di stabilità interno e l’osservanza, da parte
delle società in house e delle società a partecipazione mista pubblica e
privata, di «procedure ad evidenza pubblica per l’acquisto di beni e
servizi e l’assunzione di personale» (lettera a); la possibilità per i
Comuni con un limitato numero di residenti, di «svolgere le funzioni
relative alla gestione dei servizi pubblici locali in forma associata»
(lettera b).
Quanto alla formulazione originaria della norma, le ricorrenti evocano
quale parametro di costituzionalità l’art. 117, sesto comma, Cost.,
secondo cui la potestà regolamentare spetta allo Stato nelle sole
materie di potestà legislativa esclusiva statale, salva delega alle
Regioni. La sola Regione Piemonte evoca anche l’art. 117, secondo e
quarto comma, Cost., nonché «il principio di ragionevolezza e leale
collaborazione» (artt. 3 e 120 Cost.).
Quanto alla formulazione vigente della norma, la Regione Emilia-Romagna
(ricorso n. 13 del 2010) evoca quale parametro l’art. 117, secondo e
quarto comma, Cost.
Tutte le disposizioni oggetto di censura violerebbero gli evocati
parametri: in via principale, perché lo Stato, non avendo potestà
legislativa in materia, non ha neanche potestà regolamentare né in
relazione alla lettera a), né in relazione alla lettera b) dell’art. 10;
in via subordinata, perché il solo modo di contemperare le competenze
rispettive dello Stato e delle Regioni consisterebbe nel sottoporre il
regolamento all’intesa della Conferenza Stato-Regioni o della Conferenza
unificata, in luogo del semplice parere previsto dalle disposizioni
impugnate, tenuto conto dell’inestricabile intreccio esistente al
riguardo tra le materie oggetto di potestà concorrente (come il
coordinamento della finanza pubblica, fondamento della lettera a) o
esclusiva delle Regioni (come nel caso della gestione associata dei
servizi locali, oggetto della lettera b), e la competenza dello Stato.
In riferimento alla prima parte della lettera a) – in cui si prevede che
la potestà regolamentare dello Stato prescriva l’assoggettamento dei
soggetti affidatari diretti di servizi pubblici locali al patto di
stabilità interno – la questione è fondata.
Infatti, l’ambito di applicazione del patto di stabilità interno attiene
alla materia del coordinamento della finanza pubblica (sentenze n. 284 e
n. 237 del 2009; n. 267 del 2006), di competenza legislativa
concorrente, e non a materie di competenza legislativa esclusiva
statale, per le quali soltanto l’art. 117, sesto comma, Cost.
attribuisce allo Stato la potestà regolamentare.
In riferimento alla seconda parte della lettera a) – che stabilisce che
la potestà regolamentare dello Stato prescriva alle società in house e
alle società a partecipazione mista pubblica e privata di osservare
«procedure ad evidenza pubblica per l’acquisto di beni e servizi e
l’assunzione di personale» – la questione non è fondata.
Tale disposizione, infatti, attiene, in primo luogo, alla materia della
tutela della concorrenza, perché è finalizzata ad evitare che, nel caso
di affidamenti diretti, si possano determinare distorsioni dell’assetto
concorrenziale del mercato nella fase, successiva all’affidamento del
servizio, dell’acquisizione degli strumenti necessari alla concreta
gestione del servizio stesso. In secondo luogo, essa attiene anche alla
materia dell’ordinamento civile, anch’essa di competenza esclusiva dello
Stato, in quanto impone alla particolare categoria di società cui è
affidata in via diretta la gestione di servizi pubblici locali una
specifica modalità di conclusione dei contratti per l’acquisto di beni e
servizi e per l’assunzione di personale (sulla riconduzione delle
modalità di conclusione dei contratti alla materia dell’ordinamento
civile, ex plurimis, sentenza n. 295 del 2009). Ne consegue che la
previsione del semplice parere della «Conferenza unificata di cui
all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e
successive modificazioni», anziché dell’intesa, non lede alcuna
competenza regionale.
In riferimento alla lettera b) – che attribuisce allo Stato la potestà
di prevedere con regolamento che «i comuni con un limitato numero di
residenti possano svolgere le funzioni relative alla gestione dei
servizi pubblici locali in forma associata» –, la questione è, del pari,
non fondata.
Infatti, l’ambito nel quale il regolamento statale interviene attiene
alla materia «tutela della concorrenza», avendo per oggetto la
determinazione della dimensione ottimale della gestione del servizio
(sentenza n. 246 del 2009, punti 12.2. e 12.5. del Considerato in
diritto). Ne consegue, anche in tal caso, che la previsione del semplice
parere della «Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto
legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni», anziché
dell’intesa, non lede alcuna competenza regionale.
13. – Al terzo dei sopra indicati nuclei tematici (analizzato al punto 8.), relativo al principio di ragionevolezza, sotto il profilo della proporzionalità ed adeguatezza, attengono alcune delle questioni proposte dalle Regioni Piemonte, Liguria, Umbria, Toscana ed Emilia-Romagna.
13.1. – Occorre innanzitutto esaminare le questioni proposte dalle Regioni Piemonte ed Emilia-Romagna che, in ragione della loro formulazione, non consentono un esame nel merito.
13.1.1. – La Regione Piemonte (con il ricorso n. 77 del 2008) censura il
testo originario del comma 8 dell’art. 23-bis in riferimento agli artt.
5, 114, 117, sesto comma, e 118 Cost., sul rilievo che detto comma
determina la cessazione «di tutti gli affidamenti attribuiti secondo la
disciplina previgente (d.lgs. n. 267 del 2000, cit., art. 113, comma 5,
lettera c), ponendo in forse l’attuazione dei piani gestionali e di
investimento, nonché i relativi piani tariffari, travolgendo rapporti
giuridici perfezionati ed in via di esecuzione che le parti vogliono
vedere procedere secondo la loro scadenza naturale, al pari delle
concessioni rilasciate ad imprese terze secondo le procedure ad evidenza
pubblica».
La questione è inammissibile, per difetto di motivazione, in quanto la
ricorrente non spiega perché gli evocati parametri siano violati. E ciò,
a prescindere dalla considerazione svolta al punto 8.2., secondo cui il
legislatore statale può legittimamente stabilire, come nel caso in
esame, una disciplina transitoria allo scopo di modulare nel tempo gli
effetti del divieto di utilizzazione in via ordinaria dello strumento
della gestione in house.
13.1.2. – La Regione Piemonte (con il ricorso n. 16 del 2010) impugna il
testo del comma 8 dell’art. 23-bis, come modificato dall’art. 15, comma
1, del decreto-legge n. 135 del 2009, in riferimento agli artt. 3, 5,
42, 114, 117, sesto comma, e 118, Cost., perché stabilisce «una
generalizzata cessazione anticipata al 31 dicembre 2011 disposta ex lege
per tutti gli affidamenti in house providing, anche di quelli effettuati
dagli enti territoriali in conformità all’ordinamento comunitario e
italiano, con grave svalutazione dei valori di mercato dei corrispettivi
di cessione delle partecipazioni a causa della simultanea attuazione su
tutto il territorio nazionale dell’alienazione del 40% di un numero
rilevante di società in mano agli enti locali».
La questione è inammissibile, perché si risolve in una valutazione
critica in termini di convenienza economica in ordine ai tempi di
attuazione della riforma degli affidamenti; valutazione che rimane
riservata alla discrezionalità del legislatore.
13.1.3. – La Regione Emilia-Romagna (ricorso n. 13 del 2010) impugna il
comma 9 dell’art. 23-bis, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1,
del decreto-legge n. 135 del 2009 – il quale pone, attraverso
un’articolata previsione, limiti alla possibilità per i gestori di SPL
di gestire servizi ulteriori ovvero in ambiti territoriali diversi o di
svolgere servizi od attività per altri enti pubblici o privati – in
riferimento all’art. 117, quarto comma, Cost., perché reca interventi
irragionevoli e non proporzionali agli scopi di tutela della concorrenza
prefissati.
La questione è inammissibile per genericità, perché la ricorrente non
chiarisce le ragioni per cui la disciplina contenuta nella disposizione
censurata sarebbe irragionevole e non proporzionale alla tutela della
concorrenza.
13.2. – Le questioni attinenti allo stesso terzo nucleo tematico (concernente la ragionevolezza della disciplina censurata) che devono essere scrutinate nel merito sono state proposte dalle Regioni Piemonte, Liguria, Umbria e Toscana.
13.2.1. – La Regione Piemonte censura i commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis
sia nel testo originario (ricorso n. 77 del 2008) che nel testo
modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009
(ricorso n. 10 del 2010), nonché il comma 1-ter dell’art. 15 del
decreto-legge n. 135 del 2009, in relazione all’art. 117, secondo comma,
«con riferimento all’art. 3 Cost.», perché la disciplina contenuta nelle
disposizioni censurate, anche ove fosse ritenuta di tutela della
concorrenza, difetterebbe di proporzionalità e adeguatezza.
Le Regioni Liguria e Umbria censurano – per il caso in cui «fosse
ritenuta legittima l’imposizione di un regime “ordinario” di affidamento
del servizio all’esterno e la limitazione a casi eccezionali di forme di
gestione non concorrenziali» – i commi 2, lettera b), e 3 dell’art.
23-bis, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n.
135 del 2009, nella parte in cui regolano in dettaglio l’affidamento del
servizio a società miste e le forme di affidamento non competitive, per
violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), e quarto comma,
Cost., lamentando che dette disposizioni contrastano con il criterio di
proporzionalità che deve guidare la tutela della concorrenza, invadendo
il campo riservato alla potestà legislativa regionale in materia di
servizi pubblici, in quanto pongono ulteriori vincoli alla potestà
legislativa regionale, senza che essi risultino funzionali ad una
maggiore promozione della concorrenza, della quale potrebbero persino
risultare limitativi.
Le ricorrenti lamentano che le norme denunciate violano il principio di
ragionevolezza sotto il profilo della proporzionalità e adeguatezza
nella materia della tutela della concorrenza attraverso l’apposizione di
limiti all’utilizzabilità della gestione in house, rappresentati dalle
peculiari circostanze richieste dal comma 3 per consentire il ricorso
all’in house providing; con ciò intendendo chiedere che sia garantita
agli enti territoriali la possibilità di scegliere discrezionalmente se
fare ricorso a tale forma di gestione, indipendentemente dalla
sussistenza di eccezionali situazioni che non permettono un efficace e
utile ricorso al mercato.
Le questioni non sono fondate.
Come già ampiamente evidenziato al punto 8., le norme censurate devono,
invece, essere considerate proporzionate e adeguate, perché:
a) esse si innestano coerentemente in un sistema normativo interno in cui già vige il divieto della gestione diretta mediante azienda speciale o in economia, nel quale, pertanto, i casi di affidamento in house debbono essere eccezionali e tassativamente previsti;
b) l’ordinamento comunitario, in tema di affidamento della gestione dei servizi pubblici, costituisce solo un minimo inderogabile per i legislatori degli Stati membri e, pertanto, non osta a che la legislazione interna disciplini più rigorosamente, nel senso di favorire l’assetto concorrenziale di un mercato, le modalità di tale affidamento;
c) quando non ricorrano le condizioni per l’affidamento diretto, l’ente pubblico ha comunque la facoltà di partecipare alle gare ad evidenza pubblica per l’affidamento della gestione del servizio.
13.2.2. – La Regione Piemonte censura i commi 3 e 4 dell’art. 23-bis,
sia nel testo originario (ricorso n. 77 del 2008) che nel testo vigente
(ricorso n. 16 del 2010), in riferimento all’art. 3 Cost., sotto il
profilo del principio di ragionevolezza, perché essi contengono «norme
di dettaglio così puntuali che non sarebbero neppure compatibili con una
competenza esclusiva dello Stato […] e in violazione del principio di
ragionevolezza (ex art. 3, secondo comma, Cost.) poiché della legge
impugnata non si comprendono le ragioni di una disciplina differenziata
per l’ambito locale dei pubblici servizi rispetto a quella generalmente
prevista per l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ed in
genere per le autorità di regolazione».
La questione non è fondata.
Contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, la previsione di
norme di dettaglio – come visto al punto 8.1.1. – non viola di per sé il
principio di ragionevolezza; e ciò a prescindere dal fatto che nelle
materie di competenza esclusiva statale, come la tutela della
concorrenza, non rileva la distinzione tra norme di dettaglio e norme di
principio. Deve aggiungersi, inoltre, che il tertium comparationis della
disciplina «generalmente prevista per l’Autorità garante della
concorrenza e del mercato ed in genere per le autorità di regolazione» è
inconferente con la fattispecie in esame, perché non si riferisce
all’ambito della disciplina dei pubblici servizi, ma a quello, del tutto
diverso, del funzionamento dell’AGCM e delle autorità di regolazione.
Tutto ciò a prescindere dalla soluzione del problema se l’AGCM abbia o
no natura di autorità di regolazione.
13.2.3. – La Regione Toscana impugna il comma 8 dell’art. 23-bis, nel
testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del
2009, in riferimento all’art. 117, primo comma, secondo comma, lettera
e), e quarto comma Cost., perché, nel dettare la disciplina transitoria
e, in particolare, nel fissare i termini entro cui cessano gli
affidamenti in essere, non rispetta i princìpi di adeguatezza e di
proporzionalità cui deve attenersi il legislatore statale nella
legislazione avente finalità pro concorrenziali.
La ricorrente lamenta, in sostanza, che le norme denunciate violano il
principio di ragionevolezza sotto il profilo della proporzionalità e
adeguatezza nella materia «tutela della concorrenza», attraverso
l’apposizione di limiti temporali agli affidamenti diretti già in
essere.
La questione non è fondata.
Come più analiticamente evidenziato al punto 8.2., tali limiti temporali
per la cessazione delle gestioni dirette in essere devono ritenersi
congrui e ragionevoli, perché sono sufficientemente ampi da consentire
di attenuare le conseguenze economiche negative della cessazione
anticipata della gestione e, pertanto, escludono che il gestore possa
invocare quell’incolpevole affidamento nella durata naturale del
contratto di servizio che, solo, potrebbe determinare l’irragionevolezza
della norma; e ciò a prescindere dall’ampia discrezionalità di cui gode
il legislatore in materia di disciplina transitoria.
13.2.4. – La Regione Piemonte (ricorso n. 77 del 2008) censura il comma
8 dell’art. 23-bis nella formulazione originaria – la quale prevede che,
in generale «le concessioni relative al servizio idrico integrato
rilasciate con procedure diverse dall’evidenza pubblica cessano comunque
entro e non oltre la data del 31 dicembre 2010» – in relazione agli
artt. 41, 114 e 117, secondo comma, Cost. e «con riferimento all’art. 3,
Cost.», perché si pone in contrasto con «il principio di ragionevolezza
e di concorrenza comunitaria» che la stessa disposizione proclama di
voler affermare ed addirittura di voler superare, in quanto essa «si
configura come ennesima […] norma di sanatoria degli affidamenti al
mercato dei produttori seppur disposti ancora una volta in difetto di
evidenza pubblica, con proroga di cui le imprese terze si possono
giovare ex lege sino alla data indicata dal 31 dicembre 2010». La
ricorrente censura altresì lo stesso comma nel testo modificato
dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, il quale
prevede che gli affidamenti diretti già in essere cessano in date
successive, a partire dal 31 dicembre 2011, a seconda delle diverse
tipologie degli affidamenti stessi, per violazione degli artt. 3, 5, 42,
114, 117, sesto comma, e 118, Cost., rilevando che esso
irragionevolmente realizza una sanatoria ex lege di affidamenti
“illegittimi” «lesivi della concorrenza che la stessa legge qui
impugnata proclama di voler riaffermare».
La ricorrente lamenta, in sostanza, che la norma impugnata – in entrambe
le sue formulazioni – opera una «sanatoria», in deroga al sistema creato
dallo stesso legislatore, che vieta in via ordinaria il ricorso all’in
house providing, ammettendolo solo in casi particolari.
Le questioni non sono fondate.
Deve qui rilevarsi che la proroga della durata delle «concessioni
relative al servizio idrico integrato rilasciate con procedure diverse
dall’evidenza pubblica», di cui al censurato comma 8, va intesa come
riferita non agli affidamenti in house non rispettosi della normativa
comunitaria – come erroneamente ritiene la ricorrente –, ma solo a
quelli che, benché in origine rispettosi della normativa comunitaria e
nazionale, risultano privi dei requisiti oggi richiesti dal censurato
art. 23-bis. Ne consegue che tale previsione è ragionevole – e dunque
legittima –, perché non opera alcuna sanatoria, ma si limita a stabilire
una disciplina transitoria per modulare nel tempo gli effetti del
divieto di utilizzazione in via ordinaria dello strumento della gestione
in house.
13.2.5. – La Regione Piemonte (con il ricorso n. 16 del 2010) censura il
comma 8 dell’art. 23-bis, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1,
del decreto-legge n. 135 del 2009, in riferimento agli artt. 3, 5, 42,
114, 117, sesto comma, e 118, Cost., perché tratta in modo uguale
fattispecie significativamente diverse e non scagliona nel tempo il
ricorso al mercato.
La questione non è fondata, perché – contrariamente a quanto sostenuto
dalla ricorrente – la disposizione censurata diversifica adeguatamente,
come rilevato in modo specifico al punto 8.2., la cessazione degli
affidamenti diretti in atto, sia in relazione alle diverse categorie di
affidatari sia in relazione al tempo.
14. – Al quarto dei nuclei tematici sopra evidenziati (analizzato al
punto 9.), relativo all’individuazione della competenza legislativa
regionale o statale nella determinazione della rilevanza economica dei
SPL, attiene, oltre alla questione proposta dalla Regione Marche già
trattata al punto 11.4. e dichiarata non fondata, una diversa questione,
proposta dalla stessa Regione – per il caso in cui il comma 1-ter
dell’art. 15 del decreto-legge n. 135 del 2009 non possa interpretarsi
nel senso che il servizio idrico integrato è sottoposto alla disciplina
dell’art. 23-bis solo nei casi in cui «gli enti competenti abbiano
scelto di organizzarlo in modo da conferirvi rilevanza economica» – ed
avente ad oggetto i commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis del decreto-legge n.
112 del 2008 e l’art. 15, comma 1-ter, dello stesso decreto-legge n. 135
del 2009, nella parte in cui si riferiscono al servizio idrico
integrato.
Ad avviso della ricorrente, dette disposizioni violano l’art. 117, sesto
comma, Cost., il quale attribuisce agli enti locali territoriali la
potestà regolamentare «in ordine alla disciplina dell’organizzazione e
dello svolgimento delle funzioni loro attribuite», perché la legge
statale non può imporre, in via generale e astratta, ed in modo del
tutto inderogabile, la configurazione del servizio idrico integrato
quale «servizio pubblico locale avente rilevanza economica», spettando
tale qualificazione alla potestà regolamentare degli enti locali.
La questione non è fondata.
Infatti, l’art. 117, sesto comma, Cost. non pone una riserva di
regolamento degli enti locali per la qualificazione come economica
dell’attività dei servizi pubblici, perché tale qualificazione attiene –
come visto al punto 9. – alla materia «tutela della concorrenza», di
competenza legislativa esclusiva dello Stato, al quale pertanto spetta
la potestà regolamentare nella stessa materia, ai sensi del primo
periodo del sesto comma dell’art. 117 Cost.
15. – Il quinto dei nuclei tematici menzionati si riferisce – come visto
al punto 2. – alla dedotta violazione degli artt. 3 e 97 Cost., sotto il
profilo dell’obbligo di motivazione degli atti amministrativi.
In particolare, la Regione Piemonte impugna i commi 2, 3 e 4 dell’art.
23-bis, sia nel testo originario (ricorso n. 77 del 2008) che nel testo
vigente (ricorso n. 16 del 2010), sul rilievo che essi violano gli
evocati parametri, perché:
a) la disciplina dell’affidamento del servizio pubblico locale nella forma organizzativa dell’in house providing contenuta nelle disposizioni censurate risulta lesiva della «competenza delle regioni e degli enti locali ove la s’intenda come disciplina ulteriore rispetto a quella generale sul procedimento amministrativo che da tempo prevede il dovere di motivazione degli atti amministrativi (art. 3, legge 7 agosto 1990, n. 241), secondo molti posto in attuazione del principio costituzionale di motivazione delle scelte della amministrazioni pubbliche quanto meno nella cura di pubblici interessi»;
b) «non è ravvisabile nel caso in esame alcun interesse pubblico prevalente capace di fondare sia l’esenzione dal generale dovere di motivazione per l’affidamento ad imprese terze (art. 23-bis, secondo comma), sia viceversa la limitazione dei casi sui quali può essere portata la motivazione a fondamento di altre soluzioni organizzative».
La ricorrente lamenta, in sostanza, che le norme impugnate stabiliscono
per l’ente affidante l’obbligo di motivare, in base ad un’analisi di
mercato, solo la scelta di procedere all’affidamento in house del
servizio pubblico (art. 23-bis, comma 3) e non quella di procedere
all’affidamento mediante procedure competitive ad evidenza pubblica
(art. 23-bis, comma 2); obbligo che sarebbe in contrasto con gli evocati
parametri, perché ulteriore rispetto al generale obbligo di motivazione
degli atti amministrativi.
La questione è inammissibile.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, le Regioni sono legittimate a
censurare le leggi dello Stato, mediante impugnazione in via principale,
esclusivamente per questioni attinenti alla lesione del sistema di
riparto delle competenze legislative, ammettendosi la deducibilità di
altri parametri costituzionali soltanto ove la loro violazione comporti
una compromissione delle attribuzioni regionali costituzionalmente
garantite (ex plurimis, sentenze n. 156 e n. 52 del 2010; n. 289 e n.
216 del 2008). Ne deriva – in relazione al caso di specie –
l’inammissibilità della questione proposta, perché la prospettata
violazione dell’obbligo di motivazione di cui agli artt. 3 e 97 Cost.
non comporta una compromissione delle attribuzioni regionali
costituzionalmente garantite, né ridonda sul riparto di competenze
legislative tra Stato e Regioni. E ciò, a prescindere dalla
considerazione che i parametri evocati non vietano che il legislatore
stabilisca specifici obblighi di motivazione per le sole deroghe fondate
sulle peculiari situazioni di fatto di cui al comma 3 e non per le
situazioni ordinarie di cui al comma 2.
16. – Il sesto dei nuclei tematici evidenziati al punto 2. riguarda
l’asserita irragionevole diversità di disciplina fra il servizio idrico
integrato e gli altri servizi pubblici locali.
La Regione Piemonte (ricorso n. 77 del 2008) censura – sempre in
riferimento agli artt. 3 e 97 Cost. – il comma 10 dell’art. 23-bis, nel
testo originario, sul rilievo che esso rinvia a regolamenti governativi
la disciplina transitoria dei servizi pubblici locali diversi da quello
idrico, «con una irragionevole differenza di trattamento che non appare
giustificata […] per il servizio idrico integrato per il quale la legge
statale indica senz’altro in via generale ed astratta la data di
scadenza fissa del 31 dicembre 2010, mentre per gli altri servizi
pubblici consente al regolamento la previsione di adeguati “tempi
differenziati” in ragione di eterogeneità dei servizi presi in
considerazione».
Anche tale questione è inammissibile, in base a quanto già osservato al
punto 15., perché la ricorrente non ha dedotto alcuna lesione della
propria sfera di competenza, ma si è limitata a lamentare
l’irragionevolezza della disposizione censurata.
17. – Al settimo dei nuclei tematici elencati al punto 2., attinente alla lamentata violazione dell’autonomia finanziaria delle Regioni e degli enti locali, sono riconducibili alcune questioni poste dalle Regioni Marche, Liguria, Umbria ed Emilia-Romagna.
17.1. – Vanno preliminarmente esaminate le questioni proposte dalle Regioni Marche, Liguria ed Umbria, che non consentono un esame nel merito.
17.1.1. – La Regione Marche censura l’art. 15, comma 1-ter, del
decreto-legge n. 135 del 2009, nella parte in cui si riferisce al
servizio idrico integrato, per violazione dell’art. 119, sesto comma,
Cost.
La ricorrente lamenta che la disposizione censurata si limita a
prevedere il «rispetto» del «principio» «di piena ed esclusiva proprietà
pubblica delle risorse idriche», senza assicurare in alcun modo la
salvaguardia, né sotto il profilo formale, né sotto il profilo
sostanziale, della proprietà pubblica delle «infrastrutture idriche», in
particolare:
a) determinando «il sostanziale “svuotamento” della proprietà pubblica dei beni appartenenti al demanio idrico regionale e locale, beni che risulteranno, per espresso disposto del richiamato art. 153, comma 1, del d.lgs. n. 152 del 2006, necessariamente e ope legis “affidati in concessione d’uso gratuita” al gestore privato del servizio idrico integrato»;
b) omettendo di prevedere una specifica clausola di salvaguardia a favore della proprietà pubblica delle infrastrutture idriche di cui le Regioni e gli enti locali siano in concreto titolari.
La questione è inammissibile.
Essa, infatti, ha per oggetto non la disciplina posta dalla disposizione
denunciata, ma l’art. 153, comma 1, del d.lgs. n. 152 del 2006,
disposizione che effettivamente prevede l’affidamento in concessione
d’uso gratuita delle infrastrutture idriche di proprietà degli enti
locali e che non è stata impugnata. La ricorrente è quindi incorsa in
una evidente aberratio ictus. Quanto, poi, al censurato art. 15, comma
1-ter, la ricorrente si limita a denunciare che il legislatore ha omesso
di prevedere una clausola di salvaguardia a favore della proprietà
pubblica delle infrastrutture idriche. La Regione Marche, formulando una
censura generica e rivolta contro una mera omissione del legislatore,
demanda a questa Corte l’indebito onere di introdurre una disciplina non
indicata dalla stessa ricorrente e, comunque, non costituzionalmente
obbligata.
17.1.2. – Le Regioni Liguria (ricorso n. 12 del 2010) e Umbria impugnano
il comma 8 dell’art. 23-bis, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1,
del decreto-legge n. 135 del 2009 in riferimento all’art. 119 Cost.,
sotto il profilo della violazione dell’autonomia finanziaria degli enti
locali, perché «impone ad essi di cedere rilevanti quote delle società
da essi controllate».
La questione è inammissibile per genericità, perché le ricorrenti non
indicano le ragioni per cui alla cessione delle quote delle società
controllate dagli enti locali conseguirebbe l’effetto della denunciata
lesione della loro autonomia finanziaria.
17.2. – L’unica questione attinente al settimo nucleo tematico che può
essere esaminata nel merito è quella proposta dalla Regione
Emilia-Romagna con il ricorso n. 13 del 2010.
La ricorrente impugna il comma 8 dell’art. 23-bis, nel testo modificato
dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, sostenendo che
esso viola l’art. 119, sesto comma, Cost., perché impone «alle
Amministrazioni pubbliche di liberarsi di una quota del proprio
patrimonio societario a prescindere dalla convenienza economica
dell’operazione, e quindi dalla considerazione in concreto del tempo,
delle modalità, della quantità, valutazioni indispensabili ad evitare
che si produca una svendita coatta di capitali pubblici».
La questione non è fondata.
Il parametro costituzionale evocato, infatti, garantisce alle Regioni e
agli enti locali un patrimonio, precisando però che esso è «attribuito
secondo i principi generali determinati dalla legge dello Stato».
L’autonomia patrimoniale delle Regioni e degli enti locali non è, dunque
incondizionata, ma si conforma ai princìpi che il legislatore statale
fissa nelle materie di sua competenza legislativa, fra cui va certamente
ricompreso quella della tutela della concorrenza, disciplinata, nel caso
in esame, proprio dalle norme censurate.
18. – Devono essere ora trattate le questioni poste dal Presidente del Consiglio dei ministri aventi ad oggetto i commi 1, 4, 5, 6 e 14 dell’art. 4 della legge della Regione Liguria n. 39 del 2008.
18.1. – Il ricorrente impugna, in primo luogo, i commi 1 e 14 di detto articolo in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., anche per il tramite dell’art. 161, comma 4, lettera c), del d.lgs. n. 152 del 2006. Tale ultima disposizione prevede, tra l’altro, che sia il Comitato per la vigilanza sull’uso delle risorse idriche e non la Giunta regionale a redigere il contenuto di una o più convenzioni-tipo da adottare con decreto del Ministro per l’ambiente e per la tutela del territorio e del mare.
18.1.1. – Ad avviso della difesa dello Stato, il censurato comma 1 – il
quale affida alla Giunta regionale la competenza ad approvare lo
schema-tipo di contratto di servizio e di convenzione di cui all’art.
151 del d.lgs. n. 152 del 2006 – si pone in contrasto con il comma 4,
lettera c), del nuovo testo dell’art. 161 dello stesso decreto
legislativo, il quale ha «tacitamente abrogato» detto art. 151 ed ha
attribuito al «Comitato per la vigilanza sull’uso delle risorse idriche»
– e non alla Giunta regionale – la competenza a redigere il contenuto di
una o piú delle suddette convenzioni-tipo; convenzioni da adottare con
decreto del Ministro per l’ambiente e per la tutela del territorio e del
mare, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le
Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano.
La resistente Regione Liguria eccepisce l’improcedibilità della
questione, sul rilievo che l’art. 9-bis, comma 6, del decreto-legge 28
aprile 2009, n. 39 (Interventi urgenti in favore delle popolazioni
colpite dagli eventi sismici nella regione Abruzzo nel mese di aprile
2009 e ulteriori interventi urgenti di protezione civile), convertito,
con modificazioni, dalla legge 24 giugno 2009, n. 77, ha soppresso il
Comitato per la vigilanza sull’uso delle risorse idriche (COVIRI),
sostituendolo con la Commissione nazionale per la vigilanza sull’uso
delle risorse idriche (CONVIRI), la quale non ha le stesse competenze
del soppresso Comitato.
L’eccezione deve essere rigettata.
La questione non è improcedibile, perché lo stesso art. 9-bis, comma 6,
del decreto-legge n. 39 del 2009, citato dalla resistente, stabilisce
che il CONVIRI subentra nelle competenze già attribuite al COVIRI. Esso,
infatti, testualmente prevede che «la Commissione nazionale per la
vigilanza sulle risorse idriche, […] a decorrere dalla data di entrata
in vigore della legge di conversione del presente decreto, è istituita
presso il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del
mare, subentrando nelle competenze già attribuite all’Autorità di
vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti […] e successivamente
attribuite al Comitato per la vigilanza sull’uso delle risorse idriche,
il quale, a decorrere dalla medesima data, è soppresso». Ne consegue
che, data l’identità delle competenze del COVIRI e del CONVIRI, viene
meno il presupposto della prospettata eccezione e, pertanto, non si
verifica la dedotta improcedibilità, con conseguente trasferimento della
questione alla disposizione censurata, quale risultante dalle
modificazioni legislative sopra indicate.
Nel merito, la questione è fondata.
Come si è ampiamente rilevato al punto 7, la disciplina del servizio
idrico integrato va ascritta alla competenza esclusiva dello Stato nelle
materie «tutela della concorrenza» e «tutela dell’ambiente» (sentenza n.
246 del 2009) e, pertanto, è inibito alle Regioni derogare a detta
disciplina. Nella specie, la Regione è intervenuta, appunto, in tali
materie, dettando una disciplina che si pone in contrasto con quella
statale, in quanto attribuisce alla Giunta regionale una serie di
competenze amministrative spettanti – come invece dispongono le norme
interposte evocate dal ricorrente – al COVIRI (ora CONVIRI). Risulta
così violato l’evocato parametro costituzionale, che riserva allo Stato
la competenza legislativa nella materia «tutela dell’ambiente» (art.
117, secondo comma, lettera s, Cost.).
18.1.2. – La difesa dello Stato lamenta che il censurato comma 14
dell’art. 4 della legge della Regione Liguria n. 39 del 2008 – il quale
affida all’Autorità d’ambito territoriale ottimale (AATO) la competenza
a definire «i contratti di servizio, gli obiettivi qualitativi dei
servizi erogati, il monitoraggio delle prestazioni, gli aspetti
tariffari, la partecipazione dei cittadini e delle associazioni dei
consumatori di cui alla legge regionale 2 luglio 2002, n. 26» – si pone
«in contrasto con la normativa statale», cioè con il sopra citato comma
4, lettera c), del nuovo testo dell’art. 161 del d.lgs. n. 152 del 2006,
il quale ha attribuito al COVIRI la relativa competenza.
La resistente Regione Liguria eccepisce l’inammissibilità della
questione, in quanto generica, perché non sarebbero specificati i
profili che determinano il contrasto con la norma statale.
L’eccezione deve essere rigettata.
La questione non è generica, perché i profili di contrasto sono
sufficientemente precisati. Dalla lettura complessiva della censura,
infatti, è agevole rilevare che la norma statale evocata quale parametro
interposto è il comma 4, lettera c), del nuovo testo dell’art. 161 del
d.lgs. n. 152 del 2006, evocato anche nella precedente questione al
punto 18.1.1. e che si denuncia l’attribuzione all’Autorità d’ambito di
una serie di competenze amministrative spettanti, invece, al COVIRI.
Nel merito, la questione è fondata per le stesse ragioni indicate al
punto precedente. Anche in tal caso, infatti, la Regione è intervenuta,
nella materia «tutela dell’ambiente», attribuendo all’Autorità d’ambito
una serie di competenze amministrative spettanti, invece, al COVIRI (ora
CONVIRI), ai sensi dell’art. 161, comma 4, lettera c), del d.lgs. n. 152
del 2006, ed ha pertanto violato l’art. 117, secondo comma, lettera s),
Cost.
18.2. – Il ricorrente censura, altresì, il comma 4 del medesimo art. 4
della legge della Regione Liguria n. 39 del 2008, il quale prevede la
competenza dell’Autorità d’ambito a provvedere all’affidamento del
servizio idrico integrato, «nel rispetto dei criteri di cui all’articolo
113, comma 7, del d.lgs. 267/2000 e delle modalità di cui agli articoli
150 e 172 del d.lgs.152/2006». La censura è proposta in relazione alla
violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione,
per il tramite dell’art. 23-bis, commi 2, 3 e 11, del decreto-legge n.
112 del 2008, nel testo originario.
La difesa dello Stato evidenzia che il comma denunciato, prevedendo che
l’AATO provvede all’affidamento del servizio idrico integrato, «nel
rispetto dei criteri di cui all’articolo 113, comma 7, del d.lgs.
267/2000 e delle modalità di cui agli articoli 150 e 172 del
d.lgs.152/2006», richiama l’art. 150 del d.lgs. n. 152 del 2006, il
quale consente all’Autorità d’ambito di scegliere la forma di gestione
del servizio tra quelle elencate nell’art. 113, comma 5, TUEL. Tale
ultima disposizione prevede, a sua volta, che «L’erogazione del servizio
avviene secondo le discipline di settore e nel rispetto della normativa
dell’Unione europea, con conferimento della titolarità del servizio:
a) a società di capitali individuate attraverso l’espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica;
b) a società a capitale misto pubblico privato nelle quali il socio privato venga scelto attraverso l’espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica che abbiano dato garanzia di rispetto delle norme interne e comunitarie in materia di concorrenza secondo le linee di indirizzo emanate dalle autorità competenti attraverso provvedimenti o circolari specifiche;
c) a società a capitale interamente pubblico a condizione che l’ente o gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano».
Ad avviso della difesa dello Stato, la norma censurata, richiamando le
forme di gestione dei SPL di cui al citato art. 113, comma 5, TUEL, si
pone in contrasto con l’art. 23-bis, del decreto-legge n. 112 del 2008,
il quale dispone, invece, che le parti del citato art. 113 incompatibili
con le prescrizioni dello stesso art. 23-bis sono abrogate (comma 11), e
prevede come regola per l’affidamento dei servizi pubblici locali non
più quella fissata dagli artt. 150 del d.lgs. n. 152 del 2006 e 113
TUEL, bensì quella della procedura competitiva ad evidenza pubblica
(comma 2), ferma restando la possibilità di ricorrere all’affidamento
diretto solo in presenza delle condizioni di cui al comma 3 del medesimo
articolo.
La Regione Liguria eccepisce la cessazione della materia del contendere,
rilevando che il censurato comma 4 dell’art. 4 della legge della Regione
Liguria n. 39 del 2008, il quale regola le competenze delle Autorità
d’ambito, non ha avuto in concreto alcuna applicazione e non potrà
averne, in quanto tali Autorità sono state abolite dal decreto-legge n.
135 del 2009 prima che nella Regione si procedesse alla loro
istituzione.
L’eccezione deve essere rigettata.
La materia del contendere non è cessata, perché il decreto-legge n. 135
del 2009 non ha soppresso le Autorità d’ambito con effetto immediato.
V’è, dunque, la possibilità che tali Autorità vengano ancora istituite
ed operino fino al termine fissato dalla legge per la loro soppressione
e, cioè, fino al termine di un anno indicato dall’art. 2, comma 186-bis,
della legge 23 dicembre 2009, n. 191 (Disposizioni per la formazione del
bilancio annuale e pluriennale dello Stato legge – finanziaria 2010).
Tale norma dispone, infatti, che «Decorso un anno dalla data di entrata
in vigore della presente legge, sono soppresse le Autorità d’ambito
territoriale di cui agli articoli 148 e 201 del decreto legislativo 3
aprile 2006, n. 152, e successive modificazioni. Decorso lo stesso
termine, ogni atto compiuto dalle Autorità d’ambito territoriale è da
considerarsi nullo. Entro un anno dalla data di entrata in vigore della
presente legge, le regioni attribuiscono con legge le funzioni già
esercitate dalle Autorità, nel rispetto dei princìpi di sussidiarietà,
differenziazione e adeguatezza. Le disposizioni di cui agli articoli 148
e 201 del citato decreto legislativo n. 152 del 2006, sono efficaci in
ciascuna regione fino alla data di entrata in vigore della legge
regionale di cui al periodo precedente. I medesimi articoli sono
comunque abrogati decorso un anno dalla data di entrata in vigore della
presente legge».
Nel merito, la questione è fondata.
La norma censurata impone, infatti, l’applicazione del comma 5 dell’art.
113 TUEL, cioè di un comma abrogato per incompatibilità dal citato art.
23-bis, con il quale, pertanto, si pone in contrasto. L’art. 23-bis
prevede infatti, come sopra osservato, che «l’art. 113 del testo unico
delle leggi sull’ordinamento degli enti locali di cui al decreto
legislativo 18 agosto 2000, n. 267 e successive modificazioni, è
abrogato nelle parti incompatibili con le disposizioni di cui al
presente articolo» (comma 11). In particolare, il citato comma 5
dell’art. 113 è palesemente incompatibile con i commi 2, 3 e 4 dell’art.
23-bis, perché disciplina le modalità di affidamento del SPL in modo
difforme da quanto previsto da detti commi, evocati come norme
interposte.
18.3. – Il ricorrente censura, in terzo luogo – per contrasto con l’art. 23-bis, commi 8 e 9, del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo originario, e, di conseguenza, con l’art. 117, secondo comma, lett. e), Cost. – i commi 5 e 6 del medesimo art. 4 della legge della Regione Liguria n. 39 del 2008, i quali prevedono, rispettivamente, che:
a) «Resta ferma la previsione di cui all’articolo 113, comma 15-bis, del d.lgs. 267/2000; a tal fine l’AATO determina la data di cessazione delle concessioni esistenti, avuto riguardo alla durata media delle concessioni aggiudicate nello stesso settore a seguito di procedure ad evidenza pubblica, salva la possibilità di determinare caso per caso la cessazione in una data successiva, qualora la medesima risulti proporzionata ai tempi di recupero di particolari investimenti effettuati dal gestore, fermi restando l’aggiornamento e la rinegoziazione delle convenzioni in essere» (comma 5);
b) «L’AATO individua forme e modalità dirette all’integrazione del servizio di gestione dei rifiuti e del servizio idrico, avuto riguardo agli affidamenti esistenti che non risultano cessati nei termini di cui all’articolo 113, comma 15-bis, del d.lgs. 267/2000, al fine di pervenire al superamento della frammentazione del servizio nel territorio dell’ambito» (comma 6).
A sua volta, il comma 15-bis dell’art. 113 TUEL – richiamato dalle
suddette disposizioni censurate – prevede, con un’articolata serie di
eccezioni soggettive, che «nel caso in cui le disposizioni previste per
i singoli settori non stabiliscano un congruo periodo di transizione […]
le concessioni rilasciate con procedure diverse dall’evidenza pubblica
cessano comunque entro e non oltre la data del 31 dicembre 2006,
relativamente al solo servizio idrico integrato al 31 dicembre 2007,
senza necessità di apposita deliberazione dell’ente affidante».
Lo Stato lamenta che i commi censurati, disciplinando la cessazione
delle concessioni esistenti ed il relativo regime transitorio degli
affidamenti del servizio idrico integrato effettuati senza gara,
attraverso il rinvio alle disposizioni di cui all’art. 113, comma
15-bis, TUEL, contrastano con l’art. 23-bis, commi 8 e 9, del
decreto-legge n. 112 del 2008, che – come visto – ha abrogato l’art. 113
citato nelle parti incompatibili con le sue disposizioni e che fissa al
31 dicembre 2010 la data per la cessazione delle concessioni esistenti
rilasciate con procedure diverse dall’evidenza pubblica.
Anche in relazione a tale questione, la Regione Liguria eccepisce la
cessazione della materia del contendere per i motivi esposti al punto
18.2.
Tale eccezione deve essere parimenti rigettata per le stesse ragioni
indicate al medesimo punto 18.2.
Nel merito, la questione è fondata.
Come già osservato al punto 18.2., la norma censurata impone
l’applicazione del comma 15-bis dell’art. 113 TUEL, abrogato per
incompatibilità dall’art. 23-bis, con il quale, pertanto, si pone in
contrasto. Il citato comma 15-bis dell’art. 113 TUEL, infatti, è
incompatibile con il suddetto art. 23-bis, perché disciplina il regime
transitorio degli affidamenti diretti del servizio pubblico locale in
modo difforme da quanto previsto dal parametro interposto. Ne deriva la
violazione dell’art. 117, secondo comma, lett. e), Cost.
19. – Devono essere infine trattate le questioni proposte dal Presidente
del Consiglio dei ministri in merito al comma 1 dell’art. 1 della legge
della Regione Campania n. 2 del 2010, il quale prevede la competenza
della medesima Regione a disciplinare il servizio idrico integrato
regionale come servizio privo di rilevanza economica ed a stabilire
autonomamente sia le forme giuridiche dei soggetti cui affidare il
servizio sia il termine di decadenza degli affidamenti in essere.
La difesa dello Stato lamenta che la disposizione
viola l’art. 117,
commi primo e secondo, lettera e), Cost., nonché, quali norme
interposte, gli artt. 141 e 154 del d.lgs. n. 152 del 2006, l’art.
23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, il decreto-legge n. 135 del
2009 e l’art. 113 TUEL – i quali stabiliscono che il servizio idrico
integrato ha rilevanza economica – perché:
a) prevede che la Regione disciplini il servizio predetto «come servizio privo di rilevanza economica»;
b) regola in modo del tutto difforme dall’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 le forme giuridiche dei soggetti cui affidare il servizio ed il termine di decadenza degli affidamenti in essere, prevedendo che «tutte le forme attualmente in essere di gestione del servizio idrico con società miste o interamente private decadono a far data dalle scadenze dei contratti di servizio in essere».
Entrambe le questioni sono fondate, perché le disposizioni censurate
sono in contrasto con la normativa statale evocata quale parametro
interposto ed emanata nell’esercizio della competenza esclusiva dello
Stato nella materia «tutela della concorrenza» (come più diffusamente
argomentato al punto 7.).
In particolare, la questione di cui al punto a) è fondata, perché la
disposizione censurata si pone in evidente contrasto con le sopra
indicate norme statali interposte, le quali ricomprendono il servizio
idrico integrato tra i servizi dotati di rilevanza economica. Come visto
al punto 9., infatti, la disciplina statale pone una nozione generale e
oggettiva di rilevanza economica, alla quale le Regioni non possono
sostituire una nozione meramente soggettiva, incentrata cioè su una
valutazione discrezionale da parte dei singoli enti territoriali.
La questione di cui al punto b) è del pari fondata, perché la
disposizione censurata, che individua le figure soggettive cui conferire
la gestione del servizio idrico e determina un regime transitorio per la
cessazione degli affidamenti diretti già in essere, si pone in evidente
contrasto con il regime transitorio disciplinato dall’art. 23-bis del
decreto-legge n. 112 del 2008, il quale – come visto al punto 7. – non
può essere oggetto di deroga da parte delle Regioni.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi;
riservata a separate pronunce la decisione delle altre questioni di
legittimità costituzionale promosse dalle Regioni Emilia-Romagna
(ricorso n. 69 del 2008) e Liguria (ricorso n. 72 del 2008), nonché dal
Presidente del Consiglio dei ministri (ricorso n. 51 del 2010);
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 23-bis, comma 10, lettera a), prima parte, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria) – articolo aggiunto dalla legge di conversione 6 agosto 2008, n. 133 – sia nel testo originario, sia in quello modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135 (Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee), convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 2009, n. 166, limitatamente alle parole: «l’assoggettamento dei soggetti affidatari diretti di servizi pubblici locali al patto di stabilità interno e»;
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, commi 1, 4, 5, 6 e 14, della legge della Regione Liguria 28 ottobre 2008, n. 39 (Istituzione della Autorità d’Ambito per l’esercizio delle funzioni degli enti locali in materia di risorse idriche e gestione dei rifiuti ai sensi del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 – Norme in materia ambientale);
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge della Regione Campania 21 gennaio 2010, n. 2 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione Campania – Legge finanziaria anno 2010);
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dei commi 1, 2 e 3 dell’art. 23-bis, nel testo originario, nonché dei commi 2, 3 e 4 dello stesso art. 23-bis, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, promosse, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., dalla Regione Piemonte, con i ricorsi indicati in epigrafe;
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dei commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis, sia nel testo originario (ricorso n. 77 del 2008) sia nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, nonché del comma 10 dello stesso articolo, nel testo originario, promosse, in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., dalla Regione Piemonte, con i ricorsi indicati in epigrafe;
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dei commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, promossa, in riferimento all’art. 117, primo, secondo e quarto comma, Cost., dalla Regione Toscana, con il ricorso indicato in epigrafe;
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale del comma 8 dell’art. 23-bis, nel testo originario, promossa, in riferimento agli artt. 5, 114, 117, sesto comma, e 118 Cost., dalla Regione Piemonte, con il ricorso n. 77 del 2008 indicato in epigrafe;
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale del comma 8 dell’art. 23-bis, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, promosse, con i ricorsi indicati in epigrafe: in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., dalle Regioni Toscana ed Emilia-Romagna (ricorso n. 13 del 2010); in riferimento agli artt. 117, primo e secondo comma, 118, primo e secondo comma, e 119 Cost., dalle Regioni Liguria (ricorso n. 12 del 2010) e Umbria; in riferimento agli artt. 114, 117, quarto comma, e 118 Cost., dalla Regione Emilia-Romagna (ricorso n. 13 del 2010); in riferimento agli artt. 3, 5, 42, 114, 117, sesto comma, e 118, Cost., dalla Regione Piemonte (ricorso n. 16 del 2010; questione riportata al punto 13.6. del Considerato in diritto);
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale del comma 9 dell’art. 23-bis, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, promossa, in riferimento all’art. 117, primo e quarto comma, dalla Regione Emilia-Romagna, con il ricorso n. 13 del 2010 indicato in epigrafe;
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 15, comma 1-ter, del decreto-legge n. 135 del 2009, nella parte in cui si riferisce al servizio idrico integrato, promossa, in riferimento all’art. 119, sesto comma, Cost., dalla Regione Marche, con il ricorso indicato in epigrafe;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dei commi 1, 2 e 3 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo originario, promossa, in riferimento all’art. 117, quarto comma, Cost., dalla Regione Piemonte, con il ricorso n. 77 del 2008 indicato in epigrafe;
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dei commi 2, lettera b), e 3 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, promosse, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera e), e quarto comma, Cost., dalle Regioni Liguria (ricorso n. 12 del 2010) e Umbria, con i ricorsi indicati in epigrafe;
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dei commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo originario, promosse, con i ricorsi indicati in epigrafe: in riferimento all’art. 117, quarto comma, Cost., dalla Regione Liguria (ricorso n. 72 del 2008); in riferimento agli artt. 3 e 117, secondo comma, Cost., dalla Regione Piemonte (ricorso n. 77 del 2008);
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dei commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo originario (ricorso n. 77 del 2008) e in quello modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009 (ricorso n. 16 del 2010), promosse, in riferimento agli artt. 114, 117, primo, secondo, terzo, quarto e sesto comma, e 118, primo e secondo comma, Cost., dalla Regione Piemonte, con i ricorsi indicati in epigrafe;
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dei commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, promosse, con i ricorsi indicati in epigrafe: in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. e agli artt. 3, comma 1, 4, commi 2 e 4, della Carta europea dell’autonomia locale di cui alla legge 30 dicembre 1989, n. 439 (Ratifica ed esecuzione della convenzione europea relativa alla Carta europea dell’autonomia locale, firmata a Strasburgo il 15 ottobre 1985), dalle Regioni Liguria (ricorso n. 12 del 2010) e Umbria; in riferimento all’art. 117, secondo e quarto comma, Cost., dalla Regione Toscana; in riferimento agli artt. 117, quarto comma, e 118, primo e secondo comma, Cost., dalle Regioni Liguria (ricorso n. 12 del 2010) e Umbria; in riferimento all’art. 117, quarto comma, Cost., dalla Regione Piemonte, (ricorso n. 16 del 2010);
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dei commi 2, 3, 4 e 8 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, promossa, in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., dalla Regione Puglia, con il ricorso indicato in epigrafe;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dei commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 – nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009 – e dell’art. 15, comma 1-ter, del decreto-legge n. 135 del 2009, promossa, in riferimento agli artt. 3 e 117, secondo comma, Cost., dalla Regione Piemonte, con il ricorso n. 16 del 2010 indicato in epigrafe;
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dei commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 – nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009 – e dell’art. 15, comma 1-ter, del medesimo decreto-legge n. 135 del 2009, nella parte in cui si riferiscono al servizio idrico integrato, promosse, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. e agli artt. 14 e 106 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, nonché all’art. 117, secondo comma, lettera e), quarto e sesto comma, Cost., dalla Regione Marche, con il ricorso indicato in epigrafe;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del comma 3 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, promossa, in riferimento agli artt. 117, primo comma, Cost. e agli artt. 3, comma 1, 4, commi 2 e 4, della Carta europea dell’autonomia locale, nonché agli artt. 117, quarto comma, e 118, primo e secondo comma, Cost., dalla Regione Emilia-Romagna, con il ricorso n. 13 del 2010 indicato in epigrafe;
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dei commi 3 e 4 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, sia nel testo originario (ricorso n. 77 del 2008) sia nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009 (ricorso n. 16 del 2010), promosse, in riferimento agli artt. 3 e 117, quarto e sesto comma, Cost., dalla Regione Piemonte, con i ricorsi indicati in epigrafe;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del
comma 4-bis dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, nel
testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del
2009, promossa, in riferimento all’art. 117, sesto comma, Cost., dalla
Regione Emilia-Romagna, con il ricorso n. 13 del 2010 indicato in
epigrafe;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del
comma 7 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo
originario, promossa, in riferimento agli artt. 117, quarto comma, e
118, primo e secondo comma, Cost., dalle Regioni Emilia-Romagna (ricorso
n. 69 del 2008) e Liguria (ricorso n. 72 del 2008), con i ricorsi
indicati in epigrafe;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del comma 8 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo originario, promossa, in riferimento agli artt. 3, 41, 114, 117, secondo comma, Cost., dalla Regione Piemonte, con il ricorso n. 77 del 2008 indicato in epigrafe;
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale del comma 8 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, promosse, con i ricorsi indicati in epigrafe: in riferimento all’art. 117, primo comma, secondo comma, lettera e), e quarto comma, Cost., dalla Regione Toscana; in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera e), e quarto comma, Cost., dalle Regioni Liguria (ricorso n. 12 del 2010) e Umbria; in riferimento agli artt. 117, quarto comma, e 119, sesto comma, Cost., dalla Regione Emilia-Romagna, (ricorso n. 13 del 2010); in riferimento agli artt. 3, 5, 42, 114, 117, secondo e sesto comma, e 118 Cost., dalla Regione Piemonte, con il ricorso n. 16 del 2010;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del comma 8 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 – nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009 – questione riportata al punto 13.7. del Considerato in diritto, promossa, in riferimento agli artt. 3, 5, 42, 114, 117, sesto comma, e 118 Cost., dalla Regione Piemonte, con il ricorso n. 16 del 2010 indicato in epigrafe.
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale del comma 10, lettere a), seconda parte, e b), dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo originario, promosse, con i ricorsi indicati in epigrafe: in riferimento all’art. 117, sesto comma, Cost., dalle Regioni Emilia-Romagna (ricorso n. 69 del 2008), Liguria (ricorso n. 72 del 2008) e Piemonte (ricorso n. 77 del 2008); in riferimento agli artt. 3, 117, secondo e quarto comma, e 120 Cost., dalla Regione Piemonte (ricorso n. 77 del 2008);
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del comma 10, lettere a), seconda parte, e b), dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, promossa, in riferimento all’art. 117, secondo e quarto comma, Cost., dalla Regione Emilia-Romagna, con il ricorso n. 13 del 2010 indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 novembre 2010.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Franco GALLO, Redattore
Depositata in Cancelleria il 17 novembre 2010.